Alessandro Oppes I gruppi
Urlano la loro rabbia contro lo Stato, la polizia, il capitalismo. In parte, buona parte, sono anche convinti indipendentisti, ma non è l’unico elemento che tiene unita la confusa galassia di gruppi e movimenti che da una settimana infiammano le notti di Barcellona. Ci sono le sigle nuove, nate per organizzare la risposta della piazza alle condanne contro i leader separatisti, e ci sono le vecchie conoscenze, collettivi libertari e antifascisti, gruppi anarchici che fanno capo ai centri sociali più consolidati, fortini della protesta come Can Víes, Banc Expropiat, Kasa de la Muntanya, vere istituzioni in quartieri popolari e “rossi” come Sants e Gràcia. In questi ambienti lo Stato è il nemico, per convinzione ideologica e per strategia di lotta sociale. E l’esperienza di scontro diretto con le forze dell’ordine è legata agli sgomberi di vecchi edifici occupati che in alcuni casi ha avuto lunghi strascichi di guerriglia urbana. Scene simili, ma allora circoscritte, a quelle che si vivono da giorni in una zona estesa del centro. Basta vedere il tenore delle scritte apparse nelle zone della protesta — sulle facciate degli edifici, sulle vetrine mandate in frantumi, alle fermate degli autobus date alle fiamme — per capire l’ordine di priorità. “Morte al capitale”, “fuoco allo Stato”, “Barcelona antifa”, “l’unico terrorista è lo Stato capitalista”, oltre alla sigla “ACAB”, tutti i poliziotti sono bastardi. Pochi riferimenti alla lotta per l’indipendenza della Catalogna. Ma sulla sostanza di questa rabbia politica, anarchici e anticapitalisti vanno d’accordo con i movimenti giovanili più attivi del fronte secessionista. A cominciare da Arran Jovent, i ragazzi della sinistra indipendentista vicini alla Cup, partito che rappresenta l’ala più estrema all’interno del Parlamento catalano. In passato sono stati protagonisti di attacchi contro le sedi di partiti e hanno fatto notizia in piena stagione estiva con la loro campagna contro il turismo: un bus turistico incendiato a Barcellona, yacht danneggiati nel porto di Palma di Maiorca. Da sempre sono in prima fila nelle proteste della Catalogna separatista (sono stati loro a organizzare la manifestazione di ieri sera “contro la repressione”). Ma il vero motore della contestazione è rappresentato dai Cdr, i comitati per la difesa della repubblica nati all’indomani del referendum del 2017, soprattutto per chiedere che il governo regionale desse un seguito alla “dichiarazione d’indipendenza” rimasta lettera morta. Hanno una diffusione capillare sul territorio catalano e un’enorme capacità di mobilitazione. Pacifica e nonviolenta, nelle intenzioni. Ma ora, in questa situazione di emergenza, invitano alla disobbedienza civile e istituzionale. Le barricate? Sono una forma di “autodifesa” dalla repressione non solo da parte della polizia nazionale ma anche di quella locale, i Mossos d’Esquadra. Per questo chiedono le dimissioni di Miquel Buch, l’assessore agli Interni responsabile della polizia. Nella grande confusione di sigle, resta invece ancora in parte misteriosa l’ultima arrivata, lo Tsunami Democràtic protagonista a sorpresa lunedì scorso dell’occupazione dell’aeroporto El Prat. Invita al «dialogo e al rispetto», assicura che per risolvere la questione catalana «c’è un solo cammino: sedersi e parlare». Però si è già guadagnato l’apertura di un’inchiesta della magistratura per “terrorismo”. E la chiusura della pagina web (subito riaperta su un nuovo dominio). Decisione che ha provocato un immediato avviso alla Spagna da parte della Commissione europea: «Rispetti la libertà d’espressione».