Antonio Funiciello
Giuseppe Genna ha scritto domenica scorsa su L’Espresso un articolo (“La sinistra è desiderio”) che ben descrive la natura della sinistra: «La sua predicazione non si basa su nessuna scrittura. La sinistra è la sua stessa reinvenzione». Ripensarsi costantemente, quindi ricrearsi, è l’attributo fondamentale del riformismo. Ed è proprio sviluppando quest’attributo di critica e revisione, che la sinistra storicamente si pone come termine dialettico della destra. La fedeltà a una teoria data e fissa impedirebbe, com’è ovvio, alla sinistra di distinguersi: la fedeltà a un canone scritto è per definizione conservatrice.
Le riflessioni di Genna ricordano quelle di Eduard Bernstein, che alla fine dell’Ottocento scriveva che il fine è nulla, il movimento è tutto e il socialismo, piuttosto che un fine da raggiungere, è lo strumento per far evolvere e rendere sempre più democratica la democrazia. Bernstein era amico di Engels ed era un pensatore e un militante socialdemocratico. Vivendo nel Regno Unito, studiava l’evoluzione del capitalismo e della democrazia liberale britannica, verificando come le premonizioni di Marx sul crollo imminente dell’economia di mercato fossero un po’ esagerate. Nel suo libro più bello (“I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”), Bernstein osservava come una delle premesse che la dottrina marxista richiedeva per l’avvento del comunismo, l’accumulazione del capitale, non si stava realizzando. Al contrario, il capitale e la ricchezza andavano aumentando e distribuendosi.
Noi socialdemocratici, scriveva Bernstein, dovremmo dolercene, e lavorare affinché il capitale si accumuli in poche mani, poiché Marx ci ha detto che è essenziale che accada se vogliamo produrre le condizioni per il comunismo. Tuttavia non solo non ce ne doliamo: noi operiamo politicamente affinché il capitale cresca e si diffonda!
L’errore, si chiedeva quindi Bernstein, sta nella teoria o nella pratica? Non può che stare in una teoria, concludeva, che pretende che le condizioni di vita di tutti debbano peggiorare per il perseguimento di un obiettivo finale predeterminato e, per giunta, sbagliato. Il nostro presente soffre alla vista ovunque contraddizioni tra prassi e teoria: la globalizzazione, d’altronde, non poteva che aumentarne il numero ed enfatizzarne gli effetti.
A casa nostra, nei paesi liberaldemocratici, tali contraddizioni sono talmente forti da indebolire l’appeal della democrazia, al punto di mettere in discussione che essa sia il regime politico più funzionale agli scopi di chi vuole organizzare il vivere civile perseguendo libertà e giustizia. Così va in scena quella democrazia dei vuoti di cui parlava, sempre domenica scorsa, il direttore Marco Damilano nel suo editoriale.
La montagna sulla quale la sinistra, come Sisifo, spinge a forza di braccia la sua pietra s’è fatta più erta. E la discesa da cui, conquistata la cima, la pietra rotola al piano, è diventata più ripida. Proprio perché il mondo è più complicato, le energie di cui Sisifo potrebbe giovarsi hanno origini diverse. E sovente anche loro contraddittorie.
La vecchia e nuova forza del laburismo e della socialdemocrazia, la forza della rappresentanza sindacale e politica del lavoro, possono oggi soccorrere Sisifo, ma non esaurire il suo fabbisogno energetico. La forza delle emergenze ambientali, che reclamano cambiamenti epocali, entra ad esempio in conflitto con la forza del lavoro.
L’urgenza verde può e vuole farsi energia al servizio dello sforzo di Sisifo, ma solo a patto di trovare una sintesi con le altre forze che ne sostengono la fatica.
Giuseppe Berta, ragionando (sul Corriere Economia del 14 novembre scorso) intorno al dissidio fra transizione energetica e industria dell’auto, l’ha spiegata così, fuor di metafora sisifiana: «La prossima generazione di veicoli a batterie sarà più semplice da costruire, per cui ci sarà bisogno di meno mano d’opera e molti dei processi oggi affidati all’uomo domani saranno eseguiti da robot. Scompariranno così posti di lavoro e le capacità e le conoscenze di molti non serviranno più. Quando la situazione troverà un suo equilibrio, ci si aspetta un quadro industriale a minore intensità di lavoro».
Come fa la sinistra a tenere insieme e governare un progresso così umanamente contraddittorio? Come fa Sisifo a non perdere la fiducia in se stesso a continuare a spingere il suo macigno? Non avere una scrittura fissa, per dirla ancora con Genna, può aiutare. Vivere una stagione di mezzo, com’è proprio la fase di transizione di questi nostri contraddittori anni, richiede di fare ricorso alla reinvenzione di sé e del mondo. Richiede di recuperare le ragioni storiche di un’azione pubblica complessiva, più che di singoli interventi pubblici, sui processi economici e sociali. Un’azione che sola può rimettere in squadra le cose.
Senza la funzione riequilibrante dell’azione pubblica, lo scontro tra il vecchio mondo del lavoro e la nuova generazione energetica può sconquassare intere nazioni. Ma quest’azione deve evitare di creare protezioni effimere, che valgano soltanto per gli esclusi di oggi senza ridisegnare uno sviluppo sostenibile perché includente: uno sviluppo che non debba sempre tornare sui propri errori, smarrendo in questo modo slancio e fantasia.
Ci si può liberare dei combustibili fossili senza affamare centinaia di migliaia di lavoratori, soltanto proteggendo le debolezze sociali presenti e progettando un futuro che limiti il più possibile la creazione di nuove debolezze. Siccome, nonostante ciò che predicano i demagoghi, non accadrà domattina che le auto elettriche soppianteranno all’improvviso tutte le altre, c’è il tempo per governare il cambiamento, rallentarlo o accelerarlo quando serve, correggerlo o caricarlo se occorre.
C’è il tempo per risolvere questa e le altre contraddizioni. L’azione pubblica degli stati non può evidentemente avere confini sovrani, se s’incarica di governare trasformazioni transnazionali. Per quanto ci riguarda, il destino europeo diventa necessario e l’Europa potrebbe recuperare quell’utilità pragmatica donde il progetto comunitario è generato.
Può essere, dopo tutto, un caso che il primo nome dell’Unione sia stato Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio? Non lo è. Come non lo è stato per i padri fondatori europei associare l’idealità fondatrice del processo d’integrazione all’utilità dell’interazione economica e commerciale.
La dieta alimentare di Sisifo va composta e integrata mixando sapientemente alimenti ed energie difformi. La salita sarà anche più dura, ma la sinistra potrebbe giovarsi di una dieta così variamente concepita, fino ad avere più forze per spingere la pietra del progresso. E la salita, forse, non le sembrerà più erta che in passato.
È indispensabile che le culture politiche, che s’incaricano di nutrire lo sforzo di Sisifo della sinistra, accettino però di reiventarsi. E accolgano l’entusiasmo di ripensarsi perdendo qualcosa della propria scrittura iniziale, allo scopo di rendersi utili alla comune pratica del governo del tempo delle contraddizioni. Non si tratta di sommare istanze differenti, sotto forma di ricette di governo che si giustappongono e pretendono di offrirsi come visione comune.
In politica non valgono le leggi della scienza e l’addizione di elementi diversi non ha mai prodotto una somma accrescente gli addendi. È stato questo l’errore più recente del riformismo: pensare di ricavare un’idea del mondo da una serie di policy concepite in vitreo e testate come formule di laboratorio. È stata questa la iattura del governismo.
I macigni pesano, soprattutto quando si è chiamati a spingerli lungo la salita di una montagna. Ma la sinistra che entrerà lentamente, nel prossimo anno, nella terza decade del secolo nuovo può riuscire a fare la sua parte: con soddisfazione per i bisogni e per gli interessi che intende rappresentare, ma anche contribuendo alla perfettibilità di una democrazia liberale così bisognosa di buone idee e migliori pratiche. E magari, per dirla con Camus, potremmo ancora continuare a immaginarci Sisifo felice.