C’è Conte nel mirino di Renzi e c’è il posto di Conte nei sogni di Renzi: i due obiettivi sono l’alfa e l’omega di un progettoalungo termine — non si sa quanto realizzabile o velleitario — che punta alraggiungimento di «quota 10%», mira alla conquista del centro e prevede la sconfitta degli altri contendenti. Compreso ovviamente l’attuale premier. D’altronde il leader di Italia viva ritiene che il «governo Mattarella» — così lo definisce con una punta di sarcasmo — non durerà fino all’elezione del capo dello Stato: infatti ieri non ha parlato dell’orizzonte temporale del governo ma solo di quello della legislatura, che «per me arriverà al 2023». In mezzoaquesto sottile ma fondamentale distinguo ci sono alcuni passaggi, comprese le Regionali che si susseguiranno fino in primavera: secondo Renzi l’idea che Pd e M5S si alleino è «rischiosa» per gli equilibri interni delle due forze, e soprattutto espone l’esecutivo. Ecco dove scorge il baco. Ecco perché Franceschini considera la scissione «a big problem» per il governo. Ma per ora Renzi può solo limitarsi a previsioni al limite della suggestione, che si scontrano con la realtà dei numeri. Se non intende misurarsi in questi test elettorali, c’è un motivo: i sondaggi sono troppo bassi e un risultato striminzito comprometterebbe l’intera operazione. Per rafforzarsi avrà bisogno di tempo e di visibilità, e Conte ha compreso come proverà a ottenerla: entrando in conflitto col governo e in competizione con i Cinque Stelle, lasciando al Pd il faticoso compito di mediare. D’altronde se Renzi non lo facesse si ridurrebbe al ruolo di junior partner, una sorta di Leu in versione centrista. «Solo che iniziando ad appiccare incendi — paventa un ministro dem — c’è il rischio che esploda tutto, perché i grillini non sono democristiani e Di Maio non è Rumor». Vero, come però è vero che né Pd né M5S hanno alternative al completamento della legislatura. Ed è su questo che l’ex premier fa affidamento, puntando a ingrossare le file di Italia Viva con «un po’ di persone di Forza Italia che non vogliono morire leghiste» e con esponenti ed elettori dem che «verranno con noi appena vedranno D’Alema e Bersani». Il tema del «ritorno della ditta» agita sul territorio la componente del Pd che non proviene dal ceppo comunista, mentre a livello nazionale inizia a montare il malcontento per come la segreteria ha gestito la trattativa di governo, per i «troppi posti» assegnati ai renziani «pur sapendo che Matteo avrebbe strappato». Bastava sentire ieri il contropelo del capogruppo Delrio: «La scissione resta una sconfitta per tutti, sebbene sia una decisione incomprensibile». In realtà era inevitabile, perché Renzi non sopportava più di sentirsi leader senza poterlo essere, e perché sapeva che alle prossime elezioni «avrebbero fatto terra bruciata attorno a me». È sul timing che ha cambiato idea più volte, così come ha cambiato quattro volte il nome della sua creatura. Dalla scomparsa della Dc si contano 25 progetti centristi, alcuni assorbiti nei due poli, altri scomparsi, tutti comunque falliti. Italia viva sarà il ventiseiesimo esperimento, che stavolta dovrebbe contare su una legge elettorale proporzionale. Ora, a parte il fatto che l’esito non è scontato, la fila degli avversari di Renzi è così lunga che nel Pd confidano di trovare in Parlamento molti alleati per tenere alta la soglia di sbarramento. È un’ipotesi che Conte non contrasta e che testimonia come la separazione non sia affatto «consensuale».