Luigi Ippolito

L’accordo sulla Brexit sembra essere in dirittura d’arrivo. Ieri sera i negoziatori europei e britannici hanno discusso fino a tardi i dettagli dell’intesa, con l’obiettivo di concordare un testo da presentare all’approvazione del summit europeo di domani e dopodomani. In questo modo, Boris Johnson potrebbe a sua volta far votare l’accordo dal Parlamento di Westminster nella giornata di sabato 19, in modo da evitare di far scattare la legge che lo obbliga a chiedere una proroga della Brexit in mancanza di un’intesa per quella data. Ma anche se non si riuscisse a rispettare questa tabella di marcia, gli sforzi continuerebbero: con la possibilità di convocare un secondo summit europeo straordinario la prossima settimana, in modo comunque da portareacasa un accordo entro la data fissata per l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, ossia il 31 ottobre. Anche se, arrivando praticamente sul filo di lana, appare sempre più probabile una breve «estensione tecnica» per consentire tutti i necessari passaggi legislativi, inclusa la ratifica da parte del Parlamento europeo. Come sempre, l’ultimo scoglio da superare è quello dell’Irlanda del Nord: il macigno che aveva affondato il precedente compromesso negoziato da Theresa May. Ma su questo punto Boris Johnson si è dimostrato estremamente pragmatico, pur di raggiungere un accordo che gli consentisse di realizzare la Brexit, come promesso anche lunedì nel discorso della Regina, entro la fine di ottobre. Il premier britannico ha di fatto accettato di «svendere» l’Irlanda del Nord e separarla dal resto della Gran Bretagna: per evitare il ritorno di un confine con la Repubblica di Dublino a Sud, il compromesso verso il quale ci si orientava ieri consisteva nel mantenere la provincia dell’Ulster nominalmente nel territorio doganale del Regno Unito, ma di «cederla» di fatto all’Unione europea. Accettando, di conseguenza, una sorta di «confine invisibile» nel mare del Nord con il resto della Gran Bretagna. Era stato proprio lo spettro della separazione dalla «madrepatria» a indurre l’anno scorso gli unionisti protestanti nordirlandesi a mettere il veto al piano di Theresa May: che dunque era stata costretta a concedere la permanenza di tutta la Gran Bretagna nell’unione doganale con la Ue. Un anatema per i puristi della Brexit, che di conseguenza avevano impallinato l’accordo in Parlamento. Ora Johnson è tornato al punto di partenza e si è orientatoa«sacrificare» l’Irlanda del Nord: ma riuscirà a vendere l’accordo agli unionisti di Belfast, dai cui voti in Parlamento potrebbe dipendere l’approvazione dell’intesa? È per questo che ieri sera tardi il premier ha voluto incontrare Arlene Foster, la leader degli unionisti nordirlandes: i due hanno un buon rapporto personale e Boris sembrava fiducioso di riuscire a persuaderla. Perché Londra e Bruxelles potranno pure raggiungere un accordo in queste ore: ma il testo dovrà comunque passare per le forche caudine di Westminster. I margini per il governo sono strettissimi: dopo la cacciata dal partito conservatore di 21 moderati, l’esecutivo non ha più una maggioranza. Servirà dunque un mezzo miracolo per strappare il sì dei deputati. Se l’accordo venisse bocciato di nuovo, sarebbe inevitabile una proroga della Brexit, anche lunga: in modo da consentire elezioni anticipate in Gran Bretagna o magari, nelle speranze di qualcuno, anche un secondo referendum sulla Brexit. Perché altrimenti l’alternativa sarebbe il no deal, un divorzio catastrofico che nessuno veramente vuole e che, oltre al danno economico, aprirebbe una frattura geopolitica in Europa.