Sergio Rizzo
Ha ragione da vendere, il comandante della Guardia di finanza Giuseppe Zafarana. La pirateria digitale, ha detto venerdì al nostro Carlo Bonini, «spalanca praterie all’informazione fake, per sua natura gratuita, e dunque, in ultima analisi, finisce con l’attentare all’articolo 21 della Costituzione». Va riletto con attenzione, quell’articolo che non per caso i padri costituenti hanno voluto introdurre fra i “diritti e doveri dei cittadini”. Comincia così: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Dal momento in cui sono nate le moderne democrazie, questo è stato uno principio irrinunciabile. A qualunque latitudine. Ma per la prima volta, adesso, le democrazie hanno a che fare con un nemico apparentemente invisibile, che penetra come l’acqua nella società attraverso le fessure aperte nell’universo immateriale del web. Un nemico che corrode rapidamente alcuni pilastri della convivenza civile e delle libertà individuali: quel che è più grave, diffondendo l’idea esattamente contraria. E cioè che quella corrosione, rendendo gratuito l’accesso all’informazione, ma anche alle produzioni culturali e alla musica, renda più liberi. È un’idea in sintonia con il populismo oggi imperante, e quindi capace di trovare significativi sostegni politici. Che rendono, inutile sottolinearlo, ancora più difficile la lotta ai ladri di giornali, come ai ladri di film e ai ladri di musica. Perché di furto, in primo luogo, si tratta. Soltanto che non è come rubare al supermercato. Perché si tratta di un furto con implicazioni che vanno ben oltre il codice penale. I ladri di giornali, ossia le piattaforme che si appropriano illegalmente dei nostri contenuti per diffonderli gratuitamente lucrando così sul furto (perché guadagnano su quella rapina), stanno contribuendo a mettere in ginocchio la libera stampa, amplificando in misura determinante la crisi della carta. Una crisi che ha certo più d’una ragione: fra queste non va sottovalutata la chiusura dei punti vendita, con gli edicolanti strozzati anche dai prezzi e gettati in miseria, che lascia interi pezzi del Paese privi di accesso a un’informazione qualificata. Ma quando i giornali, come qualche arguto politico ancora non smette di augurarsi, saranno scomparsi, anche la democrazia non sarà più come l’abbiamo conosciuta finora. Chi pensa che la stampa sia manipolabile e si illude che la verità stia sui social media, non vede che sta succedendo esattamente il contrario. Gli elettori sono stati influenzati da notizie false negli Stati Uniti come in altri Paesi. Senza per giunta che chi esercita quelle influenze, attraverso account anonimi basati all’estero e difficilmente individuabili, sia esposto al pubblico controllo e alle conseguenze del caso, anche sul fronte delle responsabilità legali. Il contrario di ciò che invece avviene, in tutto il mondo, per la libera stampa. In un Paese che mostra serie difficoltà con la memoria bisognerebbe ricordare come ogni volta che i giornalisti sono stati imbavagliati, è stata imbavagliata anche la democrazia. Un tempo si faceva con le leggi, oggi ci pensano i ladri del web che uccidono le imprese editoriali con l’idea malata che l’informazione debba essere gratis. E fa venire i brividi notare come quel bavaglio sia stato giustificato in Italia con motivazioni identiche a quelle che oggi certi profeti del web e dei social, quinte colonne dei ladri di cui sopra, portano per denigrare il nostro lavoro: cioè che i giornali in realtà non sono liberi perché obbediscono solo ai loro padroni. «Con la libertà di stampa i giornali pubblicano solo ciò che vogliono veder stampato le grandi industrie o le banche, le quali pagano il giornale»: così rispose Benito Mussolini nel 1932 allo scrittore Emil Ludwig che lo intervistava. Da sette anni la libera stampa in Italia era stata definitivamente abolita mentre il fascismo era all’apice della sua parabola.