Stefano Feltri
Quando Mario Draghi si è insediato al vertice della Bce, a novembre 2011, ha dimostrato subito di essere disposto a usare tutti gli strumenti della politica monetaria per salvare l’euro. Nella riunione del consiglio dei governatori di oggi, la penultima del suo mandato, Draghi vuole rassicurare i mercati sul fatto che anche se lui ha usato tutti gli strumenti disponibili, se ne possono sempre inventare dei nuovi, da lasciare in eredità a Christine Lagarde, da novembre nuovo presidente della Bce. L’E U RO è stabile e nessuno ne prevede più la fine, questo è il grande successo di Draghi. Ma l’inflazione nella zona euro è la metà dell’obiettivo della Bce, 1 per cento invece che il 2. La crescita si è fermata, 0,2 per cento ad agosto, con la Germania che frena, una nuova recessione globale che incombe sull’economia mondiale, dagli Stati Uniti alla Cina all’Ue. Negli ultimi mesi Draghi ha alimentato le attese dei mercati con impegni espliciti a mantenere una politica monetaria espansiva a lungo termine: questo ha influenzato le attese degli investitori e vincolato la Lagarde che ora è obbligata a non deviare dalla strada tracciata. La determinazione di Draghi però questa volta non è sufficiente da sola. Il problema teorico su cui si arrovellano economisti e investitori è il seguente: dopo aver spinto il costo del denaro a zero, dal 2016 la Bce ha tassi negativi (-0,40 per cento), le banche che lasciano la loro liquidità sui conti correnti di Francoforte e non la immettono nel sistema pagano quindi una specie di tassa. Questo è un forte incentivo a finanziare l’economia, a prestare soldi a banche, famiglie e imprese. Ma non basta: dal 2013 i prezzi d e l l’eurozona sono cresciuti in media dell’1 per cento, l’inflazio – ne ha superato il 2 per cento solo in quattro occasioni. I tassi negativi hanno anche un effetto collaterale: distruggono il modello di business delle banche, perché se i tassi di interesse della Bce sono troppo bassi, anche quelli di mercato scendono, i margini di guadagno per chi presta denaro si riducono fino ad azzerarsi. Sopra una certa soglia, le misure espansive finiscono per danneggiare quella stessa economia reale che vorrebbero sostenere: la troppa liquidità frena i prestiti, invece che stimolarli. OGGI le banche dell’eurozona dovrebbero aver riserve per 183 miliardi invece, come osserva un recente report di Unicredit, hanno 1.830 miliardi. Liquidità in eccesso che non serve a molto all’eco – nomia e manda in tilt il sistema del credito. Per questo nella cassetta degli attrezzi di Draghi c’è quello che in gergo si chiama “tiering”: distinguere tra “strati” diversi le riserve delle banche, con tassi positivi o negativi differenti, in modo da aumentare gli incentivi agli istituti di credito a immettere quella liquidità nell’economia. I dettagli sono lasciati alla creatività dei tecnici di Francoforte, ma la sfida è chiara: ridurre ancora il costo del denaro, fare in modo che vada in circolo, limitando l’effetto negativo di queste misure sulla capacità delle banche di fare profitti, altrimenti il meccanismo si inceppa. L’altra arma a disposizione di Draghi è far ripartire il Quantitative easing, cioè il programma di acquisti diretti di titoli da parte della Bce: l’ef – fetto sarebbe diretto sui tassi di interesse pagati da imprese e governi sulle loro obbligazioni. Lascerebbe più risorse in tasca da spendere o per finanziare investimenti che dovrebbero portare crescita. Le attese sono però di uno stimolo limitato, 300-400 miliardi per l’intero 2019. L’opposizione per questo genere di interventi è forte nel consiglio dei governatori dove Paesi come la Germania difendono la prospettiva dei creditori penalizzati da tassi troppo bassi che, tra l’altro, rendono meno responsabili i governi sul debito pubblico e possono gonfiare bolle speculative in Borsa. Tra gli economisti c’è anche chi comincia a pensare che per uscire dall’attuale palude di bassa crescita e affrontare l’imminente recessione la politica monetaria possa fare ben poco. Soltanto la politica fiscale può – forse – essere efficace: spesa pubblica per investimenti e assunzioni. Ma finora i governi europei, del Nord come del Sud, hanno preferito lasciare a Draghi la responsabilità di tenere insieme l’euro – zona e di trascinarla fuori dalle secche. Ora gli chiedono un ultimo miracolo. Ma Draghi ha più volte richiamato la politica alle proprie responsabilità. C’è da scommettere che lo ripeterà ancora nei suoi ultimi due mesi a Francoforte. Chissà se questa volta i governi della Ue e la nuova Commissione europea di Ursula von der Leyen recepiranno il messaggio.