Venerdì nove agosto
Buongiorno a tutti. È crisi. La Lega rompe gli indugi ed evoca le elezioni anticipate. «Andiamo subito in Parlamento per prendere atto che non c’è più una maggioranza – dice Salvini – come evidente dal voto sulla Tav, e restituiamo velocemente la parola agli elettori». È l’apertura di tutti i quotidiani. L’altra notizia in prima – su tutti – è che Mattarella firma il Decreto sicurezza, ma scrive alle Camere che va modificato. Buona lettura a tutti.
Il Timing. Tutte le variabili della corsa al voto. Fra le scadenze a rischio l’indicazione del candidato italiano a Bruxelles. Emilia Patta sul Sole a pagina 3. I tempi, naturalmente, sono strettissimi. Almeno nelle intenzioni di Matteo Salvini. Le date già segnate per il voto sul calendario in casa leghista, se le Camere dovessero essere sciolte dal Presidente della Repubblica entro il 20 agosto, sono il 13 e (più probabilmente) il 20 ottobre. Ma c’è un ma, come sottolineano al Quirinale: la decisione di parlamentarizzare la crisi con il voto di sfiducia in Senato allunga un po’i tempi: bisogna convocare prima la conferenza dei capigruppo, poi calendarizzarla in Aula, poi richiamare deputati e senatori, poi discuterla e votarla. Insomma, difficile che si riesca a fare tutto questo entro il 20 agosto. Quindi, sempre in mancanza di una maggioranza alternativa, il voto a questo punto si sposta a novembre: le date utili sono il 10 o 17 novembre. Inedito assoluto, in piena sessione di bilancio. In mezzo, almeno due appuntamenti importanti per il governo Conte dimissionario, o per un governo di transizione verso le elezioni nel caso in cui la crisi prendesse questa strada: il 26 agosto deve essere presentato il nome del commississario italiano che entrerà nella squadra europea della presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il 27 settembre il governo deve presentare la Nota di aggiornamento al Def che prelude alla manovra economica. In questo calendario di scadenze ce n’è poi una che il leader pentastellato Luigi Di Maio ha già cerchiato in rosso, pronto a impugnare l’argomento in campagna elettorale contro Salvini: il 9 settembre è calendarizzata per l’ultimo e definitivo sì alla Camera la riforma che taglia di oltre un terzo il numero dei parlamentari, voto che naturalmente salterà dopo lo scioglimento delle Camere. Ed è già partita l’accusa: «Mi auguro che nessuno si tiri indietro dal taglio del numero dei parlamentari». L’accusa è dunque già quella di aver provocato la crisi per evitare il taglio. In realtà a Salvini della riforma in sé importa poco, ma è vero che la scadenza del 9 settembre ha avuto un ruolo importante nell’accelerazione della crisi: se fosse passata, Salvini si sarebbe ritrovato in un certo senso imbottigliato, nell’impossibilità di fatto di tornare al voto, fino alla primavera prossima inoltrata. In caso di sì definitivo alla riforma, infatti, bisognerebbe attendere i tre mesi previsti dalla Costituzione per dare il tempo agli aventi diritto, ossia 550mila elettori o 5 consigli regionali o un quinto dei parlamentari di una Camera, di attivare la procedura e raccogliere le firme. Anche se nessuno chiedesse il referendum si dovrebbero comunque aspettare da uno a due mesi per il ridisegno dei collegi. I tempi si allungherebbero poi di altri due mesi in caso di referendum, e un quinto di peones in Senato certi di non essere rieletti era già pronto a firmare la richiesta di referendum annunciata da Marco Taradash di Più Europa nei giorni scorsi. Niente urne almeno a fino a giugno 2020, dunque. Perché difficilmente il Presidente della Repubblica avrebbe sciolto le Camere con una procedura di conferma di una riforma così importante in corso. Fatto due più due, Salvini ha deciso di far saltare il banco per non fare la fine dell’altro Matteo, Renzi, che nella scorsa legislatura rimase imbottigliato a sua volta per via della bocciatura della legge elettorale da parte della Consulta e della conseguente necessità di intervenire sulla delicata materia in Parlamento. Emilia Patta sul Sole a pagina 3.
I timori di Mattarella per un voto in piena sessione di bilancio. More
L’annuncio della crisi. Salvini: basta così. Il leader leghista: “Subito le elezioni”. Conte: non decide lui. Di Maio: per i sondaggi ha distrutto il governo. E sonda il Pd Zingaretti: la sfida sarà alle urne, Renzi ci aiuti a vincere. “Niente governi balneari” dice il leader del Carroccio che cerca di convincere il premier a dimettersi, poi accetta il passaggio alle Camere. Ma è scontro sulla data del dibattito. More
Stavolta è finita per davvero. Ugo Magri sulla Stampa a pagina 4. More
Quattordici mesi posson bastare. Carmelo Lopapa su Repubblica a pagina 2.More
Il Bis-Conte dimezzato. Salvini chiama la crisi, Conte la ritarda, Tria si prepara alla transizione. Valerio Valentini sul Foglio in prima. More
Salvini apre la crisi. Salvini e la Lega. Salvini sgancia la bomba atomica: unica strada è il voto, vado da solo. Il leader della Lega ha deciso quasi senza consultarsi con nessuno, solo Giorgetti era stato informato in vacanza. More
Dal Colle. Mattarella e le consultazioni lampo per elezioni a fine ottobre. La preoccupazione del Quirinale è che non ci sarà tempo per fare la manovra e mettere in sicurezza i conti. Tra le ipotesi anche un esecutivo di «garanzia elettorale». Servirebbe a gestire le operazioni di voto. Marzio Breda sul Corriere a pagina 3.More
Conte allo scontro finale. “Deve sfiduciarmi in Aula e la Lega si sopravvaluta” Repubblica a pagina 3. Il compleanno amaro di Conte «Non sia svilita la nostra passione» Il colloquio teso con ilministro dell’Interno che lo invita a dimettersi. «Si assuma la responsabilità». Corriere pagina 8. “Lo scontro con Salvini farà emergere le qualità di Conte”. Intervista a Piero Ignazi. Per il politologo, la prospettiva della crisi alle Camere è la meno gradita al leader leghista: “Il premier è più duro di Di Maio”. Fatto a pagina 5More
Cinquestelle e Di Maio. “Staneremo Matteo sul taglio delle poltrone”. Di Maio all’angolo prova l’ultimo contrattacco. La giornata più difficile del leader 5S: “La Lega ci ha preso in giro”. E Di Battista attacca: spettacolo da vomito. Stampa a pagina 6. Il M5S nei guai ha una tentazione: alleanza con il Pd per le riforme. Sondaggi a picco e big non ricandidabili: c’è chi pensa di evitare il voto. L’idea di un esecutivo di scopo guidato da Fico per il taglio dei parlamentari, contatti informali con i dem. Ma Di Maio è già in campagna e chiama Di Battista per ricucire. Matteo Pucciarelli su Repubblica a pagina 6. Di Maio e lo smarrimento grillino: Matteo ha accoltellato il Paese. Il leader e tutti i vertici dei 5 Stelle «condannati» dalsecondomandato Il «vomito» diDibba per Salvini. Corriere pagina 6. More
Pd, il rebus alleanze. Zingaretti a Renzi: «Ci aiuti a vincere» Berlusconi «soddisfatto» dello strappo della Lega FI espellerà chisegue Toti. E lui: non ci fermiamo Corriere a pagina 9. Zingaretti: “Ora c’è solo il voto” Ma Renzi evoca la scissione Il leader: “La sfida è Pd-Lega”. L’ex premier: alla Leopolda tiro le somme. Repubblica a pagina 10.
Pd in cerca di leader. Renzi resta in attesa ma pensa alla scissione. La convinzione dei dem: «Ombre russe dietro l’accelerazione di Salvini». Democratici in ordine sparso. Laura Cesaretti sul Giornale a pagina 7. More
Il Pd verso le elezioni rischia la scissione. Renzi ora è all’angolo e potrebbe rompere.
Ormai i partiti sono due: Zingaretti si dice «pronto alla sfida», ma l’ex premier resta spiazzato. Le liste ora non le farà il Bullo. Luca Telese sulla Verità a pagina 4. More
Gori “I dem possono farcela con noi sindaci in prima linea”. Su temi come l’immigrazione e la sicurezza nelle città servono posizioni chiare, che il Pd non ha. Servono proposte concrete e serie
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“Non appoggeremo governi tecnici o altro”: il segretario nega la disponibilità dei dem a qualunque altro esecutivo Zingaretti: “Siamo pronti alla sfida” E Renzi congela l’uscita dal partito. Stampa a pagina 7. More
Forza Italia. Ecco il diktat di Berlusconi “Chi è con Toti sarà espulso”. Stampa a pagina 7. More
Fratelli d’Italia. FdI, Meloni accelera sul patto sovranista L’appello a Toti. La leader della destra già al lavoro sul programma comune con il carroccio su tasse e sicurezza. Messaggero a pagina 4. «Il voto subito darà al Paese un governo forte per cinque anni». Corriere a pagina 10.More
Effetti economici. Lo spettro dell’esercizio provvisorio riaccende spread e interessi sui Btp. Oggi il giudizio dell’agenzia di rating Fitch. Preoccupa il rispetto degli obiettivi europei. More
Il voto è possibile grazie ai vincoli esterni. I mercati sono calmi solo perché i populisti hanno tradito le promesse. Il Foglio. More
Lazar: “L’Europa non sottovaluti, il rischio è un governo sovranista. L’Italia dimostra che un partito populista può aumentare i consensi anche stando nell’esecutivo e non solo all’opposizione”. Paolo Griseri su Repubblica intervista Marc Lazar a pagina 6. More
La via inevitabile e il tempo perduto. Massimo Franco sul Corriere. More
Il gioco del cerino. Claudio Tito su Repubblica. More
Un anno vissuto litigiosamente. Sergio Rizzo su Repubblica. More
Il capitano alla prova più difficile. Giovanni Orsina sulla Stampa. More
La Lega: è finita. Mattarella fai presto. Alessandro Sallusti sul Giornale. More
Verso splendide elezioni. Claudio Cerasa sul Foglio. More
Rai non informa. Luciano Capone sul Foglio. More
La crisi arriva dall’America. Giovanni Castellaneta sul Foglio. More
Senza un perchè. Marco Travaglio sul Fatto. More
Non consegnate il Paese alle destre nere. Norma Rangeri sul Manifesto. More
Dai palazzi alla spiaggia. Vittorio Macioce sul Giornale. More
Governo sul sentiero per il cimitero. Pietro Senaldi su Libero. More
Ecco le grane che minacciano Matteo Salvini. Luigi Bisignani su Libero. More
Matteo non è scemo è solo prudente. Vittorio Feltri su Libero. More
San Lorenzo, ti preghiamo, fai cadere almeno Cinque stelle. Renato Farina su Libero. More
Da Grillini a tonni. Così Di Maio e i suoi sono finiti in trappola. Maurizio Belpietro sulla Verità. More
8 decreto sicurezza
Sicurezza, i rilievi del Colle: i naufraghi vanno salvati. I dubbi sulla gradazione delle ammende per le ong. Sul Corriere a pagina 5. Mattarella: “Salvare vite è un dovere modificate il decreto sicurezza”. Il Capo dello Stato firma ma scrive alle Camere: rilievi anche sulla sanzione da un milione per le navi Ong. Critiche per le norme rese più pesanti in Parlamento. La scelta di non andare allo scontro con il governo. Concetto Vecchio su Repubblica a pagina 13.
Vescovi contro Salvini: «Sì all’accoglienza» Decreto sicurezza bis, la Chiesa toscana dalla parte di Giulietti. No comment di Betori. Sul Quotidiano Nazionale a pagina 15
IL VESCOVO camminatore continua il pellegrinaggio alla testa di settanta ragazzi della diocesi. Oggi arriveranno alla meta, Argegna, in alta Garfagnana, il gruppo si scioglierà e lui forse replicherà al ministro Salvini che lo ha definito “testimonial del Pd”. Paolo Giulietti, dal 12 maggio arcivescovo di Lucca, non esitò a mostrarsi sui social con il cartello “La disumanità non può diventare legge”, dopo il sì parlamentare al decreto sicurezza bis. Scatenando le ire della Lega toscana, poi del leader nazionale. Non ha mezze misure, Giulietti, vescovo cinquantacinquenne vigoroso che si presenta in calzoni corti e cappellino. A Salvini si è limitato a dire che il cartello non è del Pd ma di Libera.
vecchio
L’obbligo morale dei naviganti di salvare i naufraghi rimane anche con il decreto sicurezza bis. È quanto emerge dai rilievi che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha formulato nella lettera con cui ha accompagnato ieri la promulgazione della legge anti-ong voluta dal vicepremier Matteo Salvini. Il Quirinale fa infatti riferimento alla convenzione di Montego Bay che prescrive «che ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo». Nelle tre pagine inviate al premier Conte, e ai presidenti delle Camere Casellati e Fico, Mattarella segnala due «rilevanti perplessità» e chiede una parziale riscrittura della normativa. Un colpo di piccone a una norma che da più parti è stata ritenuta incostituzionale. Vediamo. La prima osservazione riguarda l’ammenda amministrativa fino a 1 milione di euro, che colpisce i comandanti delle navi. Una pena draconiana. Mattarella fa notare che, per effetto di un emendamento che ha modificato il decreto legge originario da lui firmato a giugno, la sanzione pecuniaria è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 nel massimo. Inoltre la multa non risulta più subordinata alla reiterazione della condotta. Infine il decreto non ha introdotto alcun criterio che distingua tra tipologia delle navi: così anche una persona in barca a vela che entra in porto dopo avere salvato un solo naufrago rischia una multa da un milione. Citando una sentenza della Consulta — la 112 del 2019 — il Quirinale ricorda «la necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti». Soprattutto, il decreto sicurezza bis non cancella affatto l’obbligo di salvare le vite umane. La seconda osservazione si riferisce alla parte del decreto sulle manifestazioni e l’ordine pubblico. Nello specifico viene criticato l’articolo 16 che disciplina l’oltraggio al pubblico ufficiale per un lungo elenco di figure, impedendo in questo modo al giudice di accertare la lieve entità che porta al non luogo a procedere, anche per fatti di minima importanza, come mandare a quel paese un postino per una raccomandata non consegnata immediatamente. In altre parole: il decreto non specifica una gradazione dell’ammenda. Si fa notare l’incongruenza di non avere compreso i magistrati tra i soggetti destinatari dell’oltraggio. Scrive Mattarella: «Non posso omettere di rilevare che questa norma — assente nel decreto legge del governo — non riguarda soltanto gli appartenenti alle forze dell’ordine, ma include i vigili urbani e gli addetti alla viabilità, i dipendenti dell’Agenzia delle entrate, gli impiegati degli uffici provinciali del lavoro addetti alle graduatorie del collocamento obbligatorio, gli ufficiali giudiziari, i controllori dei biglietti di Trenitalia, i controllori dei mezzi pubblici comunali, i titolari di delegazione dell’Aci allo sportello telematico, i direttori di ufficio postale, gli insegnanti delle scuole, le guardie ecologiche regionali, i dirigenti di uffici tecnici comunali, i parlamentari. Questa scelta impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere, il che solleva dubbi sulla sua conformità al nostro ordinamento e sulla sua ragionevolezza nel perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza». Il Parlamento ora non ha alcun obbligo di seguire i consigli del Capo dello Stato. Mattarella ha comunque fatto valere le sue prerogative, ritenendo tuttavia non congruo il rinvio alle Camere, che, in questo particolare momento, sarebbe stato preso probabilmente a pretesto dalla Lega per aprire la crisi.
Il costituzionalista De Siervo: “Testo sgangherato ma ha fatto bene a promulgarlo”. Se lo avesse respinto, le Camere lo avrebbero riapprovato: il Presidente sarebbe stato costretto a firmarlo. Non credo che questo Parlamento accoglierà i rilievi. Resta però sempre la possibilità di ricorrere alla Consulta. Liana Milella su Repubblica a pagina 13 intervista Ugo De Siervo.
De siervo
«Se il Parlamento fosse saggio dovrebbe cambiare subito il testo, ma dubito che lo farà”. È questo il commento dell’ex presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo. Mattarella firma il decreto sicurezza bis, ma ne boccia i due articoli vantati da Salvini come risolutori. Che ne pensa? «È un messaggio come al solito garbato nella forma, ma particolarmente duro nella sostanza». Mattarella avrebbe potuto bocciare il decreto? «Il presidente non può bocciare definitivamente un testo legislativo, ma solo chiedere al Parlamento di modificarlo per alcuni motivi che evidenzia. Ma se le Camere lo riapprovano, il presidente deve promulgarlo. Forse questa consapevolezza lo ha indotto a scegliere una via solo in apparenza meno efficace, ma che meglio fa notare alcuni difetti molto gravi del testo. Testo sempre impugnabile dinanzi alla Corte oltre che modificabile dal Parlamento, ove lo voglia». Scusi se insisto, ma se non l’avesse firmato proprio? «La maggioranza che lo ha adottato avrebbe potuto essere indotta abbastanza facilmente a confermare la propria volontà sulla base della difesa della complessiva autonomia parlamentare, mettendo così in grave difficoltà il presidente davanti all’opinione pubblica. Coi due rilievi analiticamente sviluppati invece egli pone in evidenza degli oggetti precisi alla stessa opinione pubblica e agli organi giurisdizionali». Ci sono gravi svarioni legislativi? «Il primo rilievo riguarda l’assurdità delle sanzioni previste, enormemente larghe, mentre vi sono una serie di accordi internazionali che impongono il salvataggio dei naufraghi. Per di più, come nota il presidente, il legislatore non ha affatto considerato la diversità dei possibili comportamenti. Si pensi alla diversità tra una nave che si impegni sempre nel salvataggio e altri natanti che episodicamente o casualmente operino per salvare vite umane. Anche entrando in una logica repressiva occorre distinguere situazioni molto diverse tra loro». Il presidente richiama la Consulta sulla proporzionalità tra sanzioni e comportamenti. Ma il decreto non è squilibrato con pene altissime? «Certamente il secondo rilievo riguarda l’estrema genericità della previsione di sanzionare anche comportamenti molto tenui nei riguardi di forme di resistenza o minaccia a una serie indefinita di pubblici ufficiali: non aver distinto con precisione a chi ci si riferisce porta al paradosso che ogni comportamento anche tenue di resistenza possa riguardare non solo i poliziotti, ma vigili urbani, i più diversi dipendenti pubblici, perfino gli insegnanti. Si tratta davvero di una norma a dir poco generica. E tutto ciò urta con i criteri di ragionevolezza e con la stessa giurisprudenza della Corte. I rilievi appaiono pesantissime critiche a queste due sgangherati cambiamenti introdotti nel dibattito parlamentare». Con la crisi in atto che accadrà? «Il Parlamento è sempre sovrano, se deputati e senatori avessero la lucidità di considerare la pesantezza dei rilievi presidenziali dovrebbero intervenire subito. Prima che lo debba fare qualche giudice rinviando queste e altre questioni alla Corte. Purtroppo ho dubbi sull’attuale lucidità di molti dei nostri parlamentari».
Foglio
Il senso di Mattarella per lo stato. Il richiamo sul decreto sicurezza è un messaggio doppio per il Truce.
Sul Foglio a pagina 3
Il presidente della Repubblica ha promulgato il secondo decreto sulla sicurezza, ma ha chiesto al governo e al Parlamento di correggere alcune norme che giudica “irragionevoli”. Si tratta della dimensione esorbitante delle sanzioni previste per chi vìola le acque territoriali e dell’abolizione delle attenuanti per l’ag – gressione a una serie di pubblici funzionari, lista dalla quale sono stati esclusi, forse non per mera dimenticanza, i magistrati. Qualcuno considererà eccessiva la prudenza del Quirinale, ma bisogna tener conto che una volta messe in luce le incongruenze si apre la strada per una serie di contestazioni in sede di giudizio destinate a sfociare in un intervento della Corte costituzionale. Questa prospettiva, assolutamente realistica, rimette il decreto al suo posto, quello di una grida manzoniana, di una operazione propagandistica destinata a finire nel nulla. D’altra parte è ragionevole che il Quirinale, cui non sfugge la delicatezza della situazione politica che sta rotolando verso una crisi dalla difficile soluzione, non voglia nemmeno apparire come corresponsabile del logoramento del quadro politico, anche per non esporsi poi a critiche retrospettive e infondate per le decisioni che dovrà assumere sulla sorte della legislatura. Matteo Salvini non può strillare contro i “poteri forti” che gli legano le mani, e il decreto vuoto farà la fine che si merita. Peraltro il fatto di aver prospettato i dubbi sulla ragionevolezza del decreto ai presidenti delle Camere è un passo più forte della semplice lettera di accompagnamento alla promulgazione, è un atto istituzionale che investe le Camere e ha quasi il significato di un messaggio presidenziale, che non sarà possibile ignorare. Anche la misura e il rispetto istituzionale esercitati in modo tanto rigoroso e persino scrupoloso da Mattarella suonano obiettivamente come un’implicita condanna del modo raffazzonato e muscolare con cui il ministro dell’Interno agisce anche in settori assai delicati. Come diceva un’antica pubblicità “è il confronto che convince”.
La vittoria dell’umanità
Luigi Manconi su Repubblica a pagina 34
manconi
P ossiamo leggerla come una stridente coincidenza simbolica e trovarvi motivo di riflessione e di inquietudine; oppure, come un messaggio aggressivo e sottilmente sedizioso inviato dal ministro dell’Interno al fine di sancire gli attuali rapporti di forza e scoraggiare quanti ritengono che un’opposizione sia possibile. Accade così che mentre nella lettera di accompagnamento alla legge di conversione del decreto sicurezza bis, il capo dello Stato esprime esplicite preoccupazioni e una critica puntuale a proposito di alcuni passaggi del provvedimento, da otto giorni una nave della Ong Open Arms non riceve alcuna risposta alla richiesta di sbarco in un porto sicuro delle nostre coste. A bordo, oltre un centinaio di naufraghi, dei quali trenta minori, in gran parte non accompagnati. Forse pensava a loro il presidente della Repubblica, quando ha scritto, in quella stessa lettera, che “resta l’obbligo di soccorso in mare”. Ecco, nonostante il richiamo solenne di Mattarella, e nonostante l’orientamento di una parte crescente dell’opinione pubblica e l’impegno delle chiese, da quelle evangeliche a quella cattolica,l’obbligo di soccorso in mare non sembra proprio appartenere alle politiche e alla visione del mondo dell’attuale governo. Del governo tutto, si deve dire, perché al vociare canagliesco degli esponenti della Lega si accompagna la pavidità obliqua di quelli del Movimento Cinque Stelle. Ma perché si è arrivati, con quest’ultimo decreto, a un’ulteriore forzatura dell’ordinamento e a tali lesioni, attuali e potenziali, allo Stato di diritto? È accaduto che il precedente decreto ha tradotto in legge solo parzialmente gli indirizzi relativi al progetto di controllo-repressione dei flussi migratori e degli sbarchi e a quello di governo “poliziesco” del territorio e dell’ordine pubblico. I sindaci, la magistratura e infine la Corte costituzionale sono già intervenuti limitando le velleità di accentramento del comando e del potere e scongiurando un’alterazione ancora più insidiosa degli equilibri istituzionali, garanzia primaria del buon funzionamento dello stato di diritto. Nei primi decenni di questo Dopoguerra le opposizioni definivano, spesso a ragione, “ministro di polizia” il titolare del dicastero dell’Interno, ma quelle violazioni delle prerogative e delle regole erano legate a particolari congiunture sociali e a temporanei stati di emergenza. Oggi quello che possiamo chiamare il governo del Viminale si affida, oltre che all’incontinenza rabbiosa di un leader afflitto dallo “stile paranoico del potere”, alle modifiche normative introdotte a viva forza (è il caso di dire) nel sistema di pesi e contrappesi dell’ordinamento democratico. Con il decreto sicurezza bis, non solo si è attribuito al ministro dell’Interno il potere di “limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale”, ma si è anche prevista l’applicabilità di rilevanti sanzioni pecuniarie nei confronti degli operatori che accompagnino i migranti, soccorsi in mare, nei pressi delle nostre coste, nonché nei confronti del comandante, armatore e proprietario della nave che violino il divieto di ingresso transito o sosta in acque territoriali italiane. Si tratta, in estrema sintesi, di presidi sanzionatori volti a rafforzare l’effettività dei provvedimenti di chiusura dei porti la cui competenza è ora attribuita al ministro dell’Interno. C’è un passaggio molto significativo nella lettera del capo dello Stato, laddove si evidenzia che la sanzione amministrativa è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 nel massimo, fino a un milione di euro per il comandante della nave che trasporta migranti. Cosicché quella che è prevista come sanzione amministrativa è paragonabile a una sanzione penale. Se ci pensate quella multa di un “milione” (in euro), oltre a esprimere una cattiveria un po’ sordida, tanto più se accostata al milione (in lire) del fortunato Signor Bonaventura, richiama il primitivo gioco maschile di chi la spara più grossa (in un bar, in uno spogliatoio, in un privé), in un clima dove la competizione non ha più alcunché di politico, ma si propone come colluttazione, agonismo da lotta nel fango e rito barbarico. In questo scenario, è pensabile che il governo del Viminale ascolti il richiamo di Sergio Mattarella all’obbligo di “soccorso in mare”? Temo che le residue speranze dei 121 naufraghi dell’Open Arms che, da una settimana, attendono “soccorso” – dall’Italia, dall’Europa, dagli uomini e dalle donne di buona volontà – siano destinate a rimanere deluse. Le conseguenze per loro sarebbero particolarmente dolorose, ma a pagare il costo di una tale ignominia saremo noi tutti. Il peccato dell’indifferenza, ha scritto Liliana Segre, è imperdonabile.
I saggi richiami del Capo dello Stato
SENZA RAGIONE E SENZA MISURA
DANILO PAOLINI
Avvenire
In un tempo e in un Paese in cui non si fa altro che parlare di “sicurezza”, la sicurezza delle norme che reggono la civile convivenza rischia, per amaro ma forse inevitabile paradosso, di essere ignorata. Altrimenti il presidente della Repubblica non sarebbe stato costretto – per altro in una giornata istituzionale particolarmente concitata, con il Governo sull’orlo della crisi (anzi, oltre) – ad accompagnare la promulgazione della legge di conversione del cosiddetto Decreto Sicurezza bis con una lettera ai presidenti delle Camere e del Consiglio in cui segnala due profili di quel testo «che suscitano rilevanti perplessità». Un messaggio, quello di Sergio Mattarella, che illumina con il rigore del giurista ma anche con la forza della logica, le sproporzioni (o le enormità?) contenute nel provvedimento. In origine un decreto legge, strumento teoricamente ammesso solo nei casi di «necessità e urgenza», a ben vedere pensato dal ministro dell’Interno contro le Ong e poi inasprito sull’onda emotiva dell’irritazione nei confronti, in particolare, di una persona: Carola Rackete, la comandante della nave “Sea Watch 3” che ha osato ribellarsi al divieto di entrare nel porto di Lampedusa con il suo carico di disperati raccolti in mezzo al mare. Così, il capo dello Stato non ha potuto fare a meno di osservare che, «per effetto di un emendamento» inserito durante l’iter parlamentare, le sanzioni per violazione del divieto d’ingresso nelle acque territoriali sono aumentate esponenzialmente, fino a raggiungere, nel massimo, il milione di euro. Una previsione «non ragionevole», non solo perché lasciata nell’ambito dell’atto amministrativo, ma perché l’obbligo per le navi di prestare soccorso ai naufraghi resta vigente, in quanto previsto dagli accordi internazionali. Quello del Quirinale, tra l’altro, è anche un richiamo alla linearità dell’operato del Parlamento, che ha modificato e aggiunto contenuti «non sempre in modo del tutto omogeneo» rispetto al testo originario. È il caso, oltre che delle sanzioni pecuniarie, della confisca delle navi, in un primo momento prevista solo in caso di “recidiva” e ora applicabile già alla prima violazione. Non meno importante il secondo rilievo del presidente della Repubblica, dal quale emerge con chiarezza ancora maggiore quanto l’irruenza, la parzialità e la smania poliziesca non si addicano al buon legislatore. Come si spiegherebbe, altrimenti, la norma che abolisce «la particolare tenuità del fatto» per resistenza, violenza, minaccia e oltraggio a pubblico ufficiale, la quale, così come è concepita, finisce per mettere sullo stesso piano chi aggredisce un agente di polizia e chi manda a quel paese il direttore di un ufficio postale? «Questa scelta legislativa – osserva Mattarella – impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere». Se tutto è sanzionabile, si rischia che niente lo sia. Da qui i «dubbi» del Colle sulla «ragionevolezza» di quella disposizione e sulla sua «conformità» al nostro ordinamento. Per sovrapprezzo, una dimenticanza (?) – anche questa rilevata dal presidente Mattarella – ha lasciato intatta la «particolare tenuità» dell’oltraggio quando è commesso nei confronti di un magistrato in udienza. In sostanza, il dirigente di un ufficio tecnico comunale è un pubblico ufficiale più tutelato rispetto al giudice di un processo di mafia. Per inciso, anche la norma sui pubblici ufficiali non era nel testo originario ed è stata introdotta in Parlamento. La cruda realtà è che il Decreto Sicurezza bis (e così la sua legge di conversione) è nato male e cresciuto peggio. Con pochi tratti di penna, il capo dello Stato ha ricordato una verità valida in ogni epoca storica: i cittadini non sono più sicuri soltanto perché chi li governa pro tempore si riempie la bocca della parola “sicurezza”. Lo sono, invece, se il diritto è certo, chiaro, quanto più possibile minimo, anche per questo umano. E retto.
DENUNCIA «DUE RILEVANTI CRITICITÀ» Mattarella affonda il decreto sicurezza bis e fa scudo alle Ong Il presidente firma ma «resta l’obbligo di salvare vite in mare». E chiede nuove leggi.
Biloslavo sul Giornale a pagina 8
Biloslavo
Il presidente della Repubblica, fa da scudo alle Ong demolendo, di fatto, il decreto sicurezza bis fortemente voluto dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha furbescamente promulgato il decreto facendolo diventare legge, ma sottolineando con forza tutto quello che non va e dovrebbe essere cambiato. In pratica ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte e ai presidenti di Camera e Senato esprimendo le sue «rilevanti perplessità». E invitando governo e Parlamento all’«individuazione dei modi e dei tempi di un intervento normativo sulla disciplina in questione». Ovvero una nuova legge che affossi il decreto sicurezza bis, che fa tremare le Ong. Non è un caso che la prima «perplessità» di Mattarella riguardi proprio l’impennata delle multe alle Organizzazioni non governative. «Nel caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali – scrive il capo dello Stato – la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 volte nel massimo, determinato in un milione di euro, mentre la sanzione amministrativa della confisca obbligatoria della nave non risulta più subordinata alla reiterazione della condotta». Forse nessuno lo ha informato che la democratica Spagna ha stabilito una multa che arriva fino a 901.000 euro proprio per Open Arms che ciondola con 121 migranti al largo di Lampedusa. E che i capitani delle navi delle Ong più estremiste cambiano ad ogni missione proprio per evitare la reiterazione del reato. La seconda mazzata presidenziale riguarda l’obbligo del salvataggio dei naufraghi. Per Mattarella «come correttamente indicato all’articolo 1 del decreto convertito, la limitazione o il divieto di ingresso può essere disposto «nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia», così come ai sensi dell’articolo 2 «il comandante della nave è tenuto ad osservare la normativa internazionale». E cita la Convenzione di Montego Bay, che obbliga al soccorso in mare, ma non al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le navi delle Ong spesso recuperano migranti su gommoni che non stanno affondando e soprattutto si sostituiscono agli Stati operando come vogliono in acque di ricerca e soccorso libiche e intralciando la Guardia costiera di Tripoli. Nelle ultime ore la nave Alan Kurdi, della Ong tedesca Sea-Eye, ha fatto una corsa in mare per recuperare un gommone di migranti, ma sul posto è arrivata prima una motovedetta libica. Alla fine il Quirinale nell’unico punto che forse coglie nel segno contesta la norma sull’oltraggio a pubblico ufficiale: «Non riguarda soltanto gli appartenenti alle Forze dell’ordine ma include un ampio numero di funzionari pubblici» compresi «i controllori dei biglietti di Trenitalia, (…) i direttori di ufficio postale, gli insegnanti» che sarebbero messi tutti sullo stesso piano.
9 Moscopoli
Le 17 missioni russe di Savoini, prima e dopo il Metropol
In alcuni viaggi era assieme a D’Amico: alla frontiera non venivano schedati. Paolo Brera su Repubblica a pagina 7.
Paolo brera
Prima e dopo quella mattina d’affari torbidi nella hall dell’hotel Metropol di Mosca, Gianluca Savoini – consigliere e amico di Matteo Salvini – ha fatto su e giù decine di volte: Milano-Mosca e ritorno, per lo più, con puntate toccata e fuga di un giorno o due. Almeno 14 missioni nel 2018, e almeno tre quest’anno. In molti di questi voli, accanto a lui c’era Claudio D’Amico, il consulente strategico di Salvini per gli affari internazionali. I loro nomi sono spesso insieme nell’elenco delle prenotazioni aeree divulgato ieri da un’inchiesta giornalistica internazionale che ha rivelato anche un altro mistero: Come fantasmi, i loro passaggi non lasciano tracce nelle registrazioni obbligatorie ai varchi aeroportuali. Nel database del ministero degli Interni russo, in cui i giornalisti dicono di avere spulciato, i loro nomi non ci sono. L’ultimo capitolo di Moscopoli, la trattativa sul petrolio russo con cui la procura di Milano sospetta che la Lega volesse finanziare la corsa alle Europee, è firmato insieme da BuzzFeed, Bellingcat e dal russo The Insider. L’elenco dei voli a cui ha preso parte Savoini, spiegano i tre media, è «in un database online non indicizzato (cioè non accessibile con i motori di ricerca, ndr) con le prenotazioni online, utilizzato da dipartimenti russi per la sicurezza aziendale». Dati che sono stati poi «incrociati con l’attività social» dei protagonisti. Per ogni viaggio vengono indicati la data e la rotta, la compagnia e il numero del volo. E si dà prudentemente atto che sono prenotazioni e non voli. Ma è il mondo dei social a collocare poi effettivamente Savoini in Russia in molte date compatibili con le prenotazioni. Un assiduo, Savoini. Nulla si sa del motivo di tutte quelle prenotazioni, di tutti quei voli ravvicinati, di quella lunga serie di blitz prenotati. Ma certo collima coi sospetti della procura di Milano: i magistrati che indagano sulla trattava del Metropol ipotizzano che il tentativo di portare a casa l’accordo sia durato molto più a lungo di una mattina di vodka e caffè nero nel lussuoso albergo dei misteri, il 18 ottobre. E Savoini, a Mosca, c’era. Vola quasi sempre Aeroflot. Prima dell’incontro al Metropol, i viaggi si infittiscono. Eccolo il 21 settembre sul “Su2415” da Milano a Mosca, con ritorno il 24 sul “Su2404”. Riparte il 4 ottobre e rientra il 6. Eccolo ancora a Mosca il 16, e il 18 – dopo la riunione al Metropol – riparte per Milano. Ma non passano sei giorni e riecco il suo nome: decollo il 24, rientro il 28. Altri due voli a novembre, con puntata interna a Kazan (andata e ritorno in giornata, da e per Mosca, il 30 novembre). E torna a Mosca a dicembre, a gennaio, a febbraio e a marzo di quest’anno. I tasselli dell’inchiesta giornalistica sono compatibili con quelli dell’inchiesta giudiziaria: la procura ipotizza una trattativa durata almeno fino a febbraio. L’ultimo volo scovato dai segugi dei media è il “Su2613” del 15 marzo, con rientro il 18 sul volo “Su2414”. Matteo Salvini ha più volte preso le distanze dal suo amico ed ex collaboratore Savoini con un’alzata di spalle. Ma non può fare altrettanto con D’Amico, il suo consulente strategico cofinanziatore con Savoini dell’attività economica di cui è stato direttore in Russia (la Orion Ltd): era con Savoini anche sul Milano-Mosca e ritorno di ottobre, alla vigilia e dopo l’incontro del Metropol. Ed era con lui almeno un paio di volte quest’anno, e un altro paio prima del Metropol. Eppure, nessuno dei due lascia le inevitabili tracce ai varchi obbligatori, quelli che registrano i dati di tutti gli ingressi e le uscite riversandoli nel “Database centrale per la registrazione degli stranieri” presso il ministero degli Interni russo. Evidentemente ricevevano un trattamento speciale.
9 Clima
La Terra divorata
AllarmeOnu:troppa carne in tavola, pesticidi nei campi,suolo prosciugato Il clima così va in crisi e si rischia la fame
Corriere p.15
L’allarme Onu sui cambiamenti climatici “Mediterraneo a rischio desertificazione”. Aumenteranno fame e migrazioni. Gli scienziati: dieta vegetariana per ridurre consumi di carne e CO2
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“La dieta può salvare il pianeta” L’Onu esorta a mangiare meno carne
Il rapporto del comitato scientifico: “La crisi climatica produrrà fame e migrazioni”. Su Repubblica a pagina 20
Semprini
La regione del Mediterraneo è una delle principali vittime del disastro climatico e dei flussi migratori compulsivi che da essi saranno generati. E’ questo il più recente monito lanciato dalle Nazioni Unite in materia di cambiamenti climatici, partendo da alcuni dati fondamentali. Il primo dei quali è che mezzo miliardo di persone già vivono in aree del Pianeta vittime della desertificazione, mentre l’erosione dei territori avviene a una velocità tra le 10 e le 100 volte superiore alla loro formazione. In un contesto dai toni già drammatici l’aumento delle temperature provocato dai gas serra emessi dall’uomo rende il fenomeno peggiore, agevolandone un’accelerazione in termini di aumento della siccità, ondate di calore e desertificazione. Fattori catastrofici che interessano «almeno» l’area del Mediterraneo avverte l’«Intergovernmental panel on climate change», il comitato scientifico dell’Onu sul clima, nell’edizione 2019 del rapporto «Cambiamento climatico e territorio». Al contempo si assiste a un’accelerazione degli eventi meteorologici estremi, come cicloni, uragani, tornado e alluvioni: più caldo vuol dire maggior evaporazione, e maggior vapore acqueo nell’atmosfera vuol dire piogge più intense. Quest’anno i ricercatori dell’Ipcc (un centinaio da 52 Paesi, fra cui l’italiana Angela Morelli) si sono concentrati sui rapporti fra il clima e la gestione del suolo. Ciò perché i fenomeni descritti nel rapporto danneggiano l’agricoltura e riducono la produzione di derrate alimentari. Le popolazioni dei Paesi più poveri sono quelle che ne risentono di più e quando non si ha più da mangiare si è costretti a spostarsi per cercare di sopravvivere, o a combattere per le poche risorse rimaste. Ed ecco allora l’aumento compulsivo dei flussi dal sud al nord del mondo, ovvero dalle zone afflitte dalla mancanza di mezzi di sussitenza a quelle che, almeno per ora, ne dispongono. Flussi che già interessano in particolar modo il Mediterraneo, ecco il perché dell’indicazione specifica contenuta nel dossier Onu. Un’area dove i fenomeni migratori insistono su varie direttrici e non solo dall’Africa verso l’Europa del sud. Il timore inol
tre è che questi processi di desertificazione e le conseguenti crisi alimentari esploderanno contestualmente in diversi continenti, come spiega Cynthya Rosenzweig, ricercatrice scientifica del Nasa Goddard Institute for Space Studies e una degli autori del rapporto. «Il rischio di un fallimento contestuale a diverse zone del Pianeta sta aumentando», dice la scienziata descrivendo un fenomeno simile a una bomba a orologeria. «Si prevede che Asia e Africa avranno la maggiore quota di popolazione colpita dall’aumento della desertificazione – si legge nel rapporto di 1.200 pagine -. I cambiamenti climatici possono amplificare le migrazioni. Eventi atmosferici estremi possono portare alla rottura della catena alimentare, minacciare il tenore di vita, esacerbare i conflitti e costringere la gente a migrare». Non a caso molti ritengono che tra le cause dei conflitti più recenti, assieme alle questioni politiche e gli interessi economici vi sia una componente relativa al fattore climatico, in particolare alle crisi alimentari e idriche. In un quadro tanto desolante c’è però una lettura in parte rassicurante, ovvero una buona gestione del territorio è uno strumento fondamentale per contrastare la crisi climatica. L’agricoltura sostenibile ferma erosione e desertificazione, il ripristino di terreni degradati e la difesa delle foreste e degli ecosistemi garantiscono l’assorbimento naturale dell’anidride carbonica da parte delle piante. Il rapporto sottolinea anche come combattere lo spreco di cibo abbatterebbe i gas serra. Oggi il 25-30% della produzione alimentare viene persa o finisce nella spazzatura, e tale spreco contribuisce per l’8-10% alla produzione di emissioni nocive. Strategica è anche la dieta: meno carne (non solo per motivi di salute, ma anche e soprattutto per le emissioni ad alto contenuto di metano prodotte dagli allevamenti bovini) e più verdure, chiosa l’Ipcc, «possono agevolare la riduzione potenziale fino a otto miliardi di tonnellate di CO2 all’anno». — cBY NC ND ALCUNI DIRITTI RISE
Il risultato del monitoraggio in occasione del “Keep Clean and Run” lungo il corso d’acqua dalla sorgente alla foce Anche i fiumi sono una minaccia per il mare Il Po riversa 11 tonnellate di plastica al giorno
I corsi d’acqua sono responsabili dell’80% dei rifiuti che finiscono negli oceani
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ALLARMEAMBIENTEGLOBALE: ILNAZIONALISMOÈ PERDENTE
Sos clima L’agenzia delleNazioniUnite ha appena diffuso un rapporto di dimensione inusuale, che suona il gong aisordi governanti dellaTerra
Valter velyroni sul Corriere
N el bel saggio di Kyle Harper pubblicato da Einaudi e intitolato «Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero», si dimostra come, all’origine del tramonto e poi deltracollo della grandezza di Roma, siano state mutazioni climatiche e, legate ad esse, pandemie devastanti. Fenomeni che interruppero il ciclo economicoedevastarono il tessuto sociale e umano della civiltà da cui la nostra storia trae tanta origine. Le stagioni della Terra sono state scandite da grandi eventi naturali. Ancora una volta l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di clima, con un rapporto di dimensione inusuale, ha suonato il gong ai sordi governanti della Terra. Ci ha ricordato che sono a repentaglio, per via dell’impressionante riscaldamento globale in corso, le risorse che la nostra specie ha considerato naturale fossero a disposizione: l’acqua, la terra da coltivare, quella dove abitare. Pochi giorni fa centinaia di studiosi italiani hanno sottoscritto un appello dell’Istituto di Scienze della vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa in cui si dice testualmente: «Gli scenari futuri “business as usual” (cioè in assenza di politiche di riduzione di emissioni di gas serra) prodotti da tutti i modelli del sistema Terra scientificamente accreditati, indicano che gli effetti dei cambiamenti climatici su innumerevoli settori della società e sugli ecosistemi naturali sono tali da mettere in pericolo lo sviluppo sostenibile della società come oggi la conosciamo e, quindi, il futuro delle prossime generazioni». Sembra poco? Basta aprire le finestre e, insieme, gli occhi. Abbiamo vissuto il luglio più caldo nella storia dell’umanità, i fenomeni atmosferici violenti conosciuti in una zona temperata come l’Italia hanno prodotto, secondo Coldiretti,14miliardididanni all’agricoltura. A Parigi si raccolgono in agosto le foglie dagli alberi, stremati dal caldo, in Siberia bruciano i boschi e in Groenlandia si sciolgono, in un giorno, 12 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Ad Anchorage, in Alaska, sono stati raggiunti i 32 gradi di temperatura, quando la media storica del periodo è 18 gradi. L’Ipcc dell’Onu, che raccoglie studiosi di tutto il mondo ci dice che il riscaldamento della Terra, al ritmo al quale siamo, porterà spaventosi problemi di approvvigionamento idrico. Per essere chiari: il rischio che si presenta, a breve,èquello della rottura del ciclo alimentare. La Terra è da anni, ormai,
sotto il dominio di una condizione ambientale sfuggita al controllo. I fenomeni sono violenti. I dieci anni più caldi degli ultimi132 sono tuttiracchiusi in un periodo che va dal 1998 ad oggi. Il nostro astronauta Luca Parmitano, che ha visto la Terra da una posizione unica, ha detto: «Negli ultimi sei anni ho visto deserti avanzareeghiacci sciogliersi. Spero che le nostre parole possano allarmare davvero verso il nemico numero uno di oggi». Scienziati, astronauti, meteorologi ci indicano il pericolo numero uno. Ma noi, come il capitano Smith del Titanic, «andiamo avanti, tranquillamente». Perché la nostra vita pubblicaèseminata di mille paure, ma non della più grande. Forse perché questa paura postula una risposta globale, non nazionalista, non sovranista. Infatti solo se le nazioni della Terra si accorderanno sulla limitazione delle emissioni in atmosfera, il mondo si salverà. Si parla ogni giorno di migrazione, si passano settimane a discutere di quarantadue esseri umani su una barca.Eci si dimentica che, dal 2008 al 2015, duecento milioni di esseri umani sono sfollati per ragioni ambientali. Ci sono isole inghiottite dal
mare, villaggi inondati o travolti dal fango. Rischiano le coste dell’America ricca, non solo le zone povere. Quasi metà dell’umanità vive in aree limitrofe al mare, quelle che saranno più interessate dall’innalzamento delle acque conseguente allo scioglimento dei ghiacciai. Cosa sarà di loro? Come affronteremo la migrazione di poveri e ricchi? In un film di qualche anno fa si prediceva la glaciazione degliUsaela fuga degli americani verso sud, alle frontiere col Messico. Frontiere che, per beffa, si immaginava fossero tenute chiuse… Il presidente brasiliano Bolsonaro dice di aver ripreso l’abbattimento degli alberi nella foresta amazzonica perché questo è un fatto che riguarda solo il Brasile e che il mondo si deve fare gli affari suoi. Non è la strada giusta. Nulla come l’ambiente infatti è sistemico, interdipendente, globalizzato. E, più dei dazi che stanno deprimendo l’economia mondiale, i potenti della Terra dovrebbero dar vita a un grande piano pubblico di riconversione ecologica dell’economia. Questa scelta potrebbe essere il driver di una nuova fase espansiva. Una scelta prodotta dalla paura genererebbe, per una volta, crescita economica, lavoro qualificatoesalvaguardia del nostro bene più prezioso. Dovremmo sempre ricordare un saggio proverbio indiano che dice: «Solo quando l’ultimo albero sarà abbattuto e l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato, cirenderemo conto che non possiamo mangiare il denaro». © RIP
L’Africa paga il prezzo più alto
Il commento di Mario Tozzi
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C i sono voluti anni per certificare ciò che era già chiaro fino dall’inizio della crisi: il cambiamento climatico accelerato, anomalo rispetto al passato e causato dalle attività produttive dei sapiens, ha un impatto sociale e umano devastante, soprattutto sulla parte povera del mondo. Un impatto che, però, si risentirà anche sulla parte più ricca, in termini di migranti e scarsità di risorse. I 240 milioni di persone che si metteranno in moto nei prossimi 20 anni saranno migranti climatici. E la gran parte si muoverà attraverso il Mediterraneo. Quello cui stiamo assistendo è un paradosso: il surriscaldamento atmosferico sta trasformando le regioni circum-desertiche in inferni in cui non è più possibile utilizzare la terra per l’agricoltura e la zootecnia, ma neppure per la raccolta spontanea. E anche le regioni tropicali sono flagellate da alluvioni e tempeste che rendono impossibile coltivare e vivere in sicurezza. Tutto ciò dipende, ormai senza dubbi consistenti, dalle attività produttive degli uomini, che recano, però, vantaggio solo alla parte ricca e fortunata del pianeta. Mentre la parte povera e sfortunata si prende solo gli svantaggi. In altre parole noi abbiamo tratto una grande ricchezza da quelle attività, subendone solo piccoli svantaggi, mentre gli africani non hanno ricavato alcun vantaggio dallo sviluppo economico che sta cambiando il clima, subendone invece la perdita delle terre dove sono vissuti da generazioni. Come da sempre, l’Africa è terra di rapina, di uomini, di corpi, di minerali e di fonti energetiche. E di terreno, il land-grabbing, che somma ormai 15 milioni di ettari (di terra «buona») che non sono più nella disponibilità degli autoctoni. Non funziona poi più dire «aiutiamoli a casa loro»: come sarebbe possibile, se il posto dove sono nati non ha più alcuna risorsa, non è possibile coltivare né allevare e il deserto mangia abitazioni e infrastrutture? E come prestare fiducia a chi dice di volere aiutare, se si tratta degli stessi che hanno distrutto il territorio? Se poi volessimo davvero farlo, dovremmo prima ricostruirla noi, quella casa, lasciando all’Africa le sue ricchezze, destinando risorse economiche ad hoc e fermando il cambiamento climatico. Siamo sicuri che funzionerebbe meglio delle frontiere armate per cercare un nuovo equilibrio nella redistribuzione della ricchezza, visto che la nostra è stata guadagnata a discapito degli altri. Altrimenti quei sapiens continueranno a migrare dall’Africa, come hanno fatto i nostri e i loro antenati, da 45.000 anni a questa parte. — cBY NC ND
Clima, partiamo dalla spesa. La corsa a produrre più cibo.
Carlin Petrini su Repubblica a pagina 34
Carlin
N essuna novità. Purtroppo il rapporto dell’Onu sui cambiamenti climatici presentato ieri mette nero su bianco quanto studiosi e associazioni dicono da anni: dobbiamo intervenire subito per fermare il riscaldamento globale altrimenti si rischia la scomparsa. L’allarme era stato lanciato in maniera inequivocabile durante l’incontro di tutti gli Stati del mondo (o almeno della stragrande maggioranza) durante la Cop 21 di Parigi del 2015, che si chiuse con un accordo per fissare l’obiettivo di limitare l’incremento del riscaldamento globale a meno di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali. Ma si è fatto e si sta facendo ben poco. Poco o nulla è cambiato, se non in peggio. In questi giorni, è in corso un incendio di portata catastrofica in Russia e per giorni nessuno è intervenuto perché la legge russa prevede che le azioni di spegnimento siano messe in atto quando il fuoco minaccia la città. La conseguenza sono ettari ed ettari di bosco bruciato e una riduzione del polmone verde e un aumento del riscaldamento globale. Dall’altra parte il presidente degli Usa nega addirittura il fenomeno. Il nuovo rapporto dell’Onu evidenzia, se mai non ce ne fossimo accorti, un’accelerazione dei fenomeni legati alla crisi climatica con conseguenze sempre più disastrose e che toccano in maniera più o meno visibile tutto il mondo. Tra le aree più colpite l’Asia e l’Africa, ma anche il Mediterraneo è fortemente a rischio e con lui le nazioni rivierasche. Questo rapporto più di altri si concentra sulla relazione fra il cambiamento climatico e la salute del suolo, studiando le ricadute del surriscaldamento globale su agricoltura e foreste. Proprio l’agricoltura e la produzione di cibo svolgono una funzione importante. Fondamentali per la riduzione del gas serra, e quindi del riscaldamento globale, la produzione sostenibile del cibo, la riduzione degli sprechi e la tutela delle foreste (sacrificate per lasciare spazio a coltivazione di soia Ogm per grandi allevamenti). La corsa forsennata a produrre più cibo sta causando sconquassi ambientali e sociali spaventosi. Questo sistema ha fallito e sta facendo fallire il pianeta impoverendo la terra e aumentando i livelli di Co2. La desertificazione e fenomeni atmosferici violenti e improvvisi pregiudicano la produzione agricola e la sicurezza delle forniture alimentari. Allora non stupiamoci se ci sono ondate migratorie così consistenti. Sono persone che fuggono da condizioni precarie e senza futuro. Pagano anni di disastri creati della nostra economia. In attesa che i potenti del mondo prendano coscienza della crisi climatica, noi nel nostro piccolo possiamo quotidianamente fare qualcosa di importante. Partiamo dalla spesa e da alcuni accorgimenti: fare acquisti oculati, non sprecare, cucinare l’occorrente, ridurre drasticamente il consumo di carne, scegliere cibi di stagione e da agricoltura biologica e di prossimità, evitare prodotti con confezioni di plastica, impegnarsi nella raccolta differenziata. C’è bisogno di una nuova visione sistemica, che metta in evidenza le esternalità positive di queste pratiche a dispetto di una economia che dilapida le risorse ambientali. Se ciò non avverrà, il dazio che dovremo pagare sarà impressionante e i costi che dovranno pagare le future generazioni diventeranno insostenibili. Ecco il terreno su cui si dovrà discutere nei prossimi anni di nuovo umanesimo, su cui si potrà costruire una politica degna di questo nome e vivere in una economia che non distrugge il bene comune, ma lo tutela e lo difende. È finito il tempo dell’indignazione o peggio dell’indifferenza. Bisogna agire e anche velocemente.
Ma la rivoluzione nei campi non è sufficiente. Tutti i Paesi, compresi gli Stati Uniti, devono rendere sostenibili l’industria e l’energia
Roberto Iotti sul Sole a pagina 16
sole
Al di là delle cifre e delle prospettive a dir poco catastrofiche indicate dal rapporto dell’Ipcc, va sottolineato un aspetto importante: l’agricoltura del mondo è chiamata in prima linea nella lotta al cambiamento climatico, al surriscaldamento del pianeta, alla desertificazione. È e sarà l’agricoltura a doversi fare carico di un cambiamento epocale per poter produrre derrate con tecniche sempre più sostenibili. La missione è indicata chiaramente dagli esperti dell’Ipcc: l’agricoltura dovrà puntare «alla produzione sostenibile di cibo, alla gestione sostenibile delle foreste, alla gestione del carbonio organico nel suolo, alla conservazione degli ecosistemi, al ripristino del territorio, alla riduzione della deforestazione e del degrado, alla riduzione della perdita e dello spreco di cibo». In questa sorta di chiamata alle armi c’è però una distonia. Già da anni, con l’implementazione dei programmi Fao per esempio, i sistemi agricoli meno evoluti nel mondo hanno già compiuto passi da gigante sulla strada indicata dall’Ipcc. Dalle Ande fino alle pianure dell’India e dell’Africa non c’è coltivatore che non sappia quanto valga la preservazione del suolo e dell’acqua. Anche i sistemi agroeconomici più evoluti – Nord America ed Europa in primis – già da tempo applicano l’agricoltura sostenibile, quella di precisione e adottano i principi dell’economia circolare. I coltivatori sono i primi a sapere che il risparmio sulle quantità dei fattori della produzione si traduce in maggiore redditività della coltura. Soprattutto oggi con scenari di grande volatilità dei prezzi agricoli sui mercati mondiali. La distonia: nonostante questi progressi nel campo produttivo e ambientale, l’agricoltura mondiale – da sola – non può sovvertire le previsioni formulate dall’Ipcc. Tutti sappiamo che in fatto di contrasto all’inquinamento ambientale, al surriscaldamento dell’atmosfera, in fatto di emissioni di gas serra e inquinanti, di utilizzo dell’acqua le Nazioni del mondo hanno posizioni e strategie di intervento molto differenti. L’industria valuta il fattore ambiente come un costo, ma può essere anche un plus. Un generatore di valore aggiunto. Tuttavia solo in Europa si stanno perseguendo programmi impegnativi di uso razionale delle risorse, dell’energia e di miglioramento delle emissioni. Gli Stati Uniti di Trump hanno invece disdettato in buona parte gli accordi della conferenza mondiale sul clima di Parigi: gli oneri derivanti dalla lotta all’inquinamento sono giudicati come un elemento che falsa la concorrenza internazionale. Ogni giorno Paesi quali la Cina e l’India – ma non solo – riversano nelle acque e nel cielo gas e inquinanti. In Africa l’estrazione delle terre rare, così preziose per l’industria tecnologica, non va tanto per il sottile nella distruzione degli ecosistemi. Così come sembra inarrestabile la corsa ai legnami pregiati che sta rosicchiando ogni anno migliaia di ettari di foreste pluviali in Amazzonia. A questo punto appare quasi lapalissiano dire che per arginare il cambiamento climatico occorre il concorso e la forza di tutti i sistemi produttivi. Sarà ovvio ma è così.
Parla Riccardo Valentini, l’italiano nel team che ha vinto il Nobel: “La speranza sono i ragazzi della generazione Greta. I giovani sanno che saranno loro a pagare i nostri errori e adesso sono pronti a combattere f Dobbiamo imparare a mangiare meno carne: gli allevamenti intensivi sono molto inquinanti”.
Luca Fraioli su Repubblica a pagina 20.
Fraioli
«Stiamo usando male la Terra. Se continuiamo così presto il Pianeta, complice il riscaldamento globale, non riuscirà più a produrre risorse per tutti. Ma c’è una speranza, ed è rappresentata dai ragazzi: hanno capito che è in gioco il loro futuro e stanno agendo di conseguenza. Anche tra i miei studenti molti rinunciano alla carne per incidere meno sulle emissioni di CO2». Riccardo Valentini insegna ecologia all’Università della Tuscia, è membro del Centro mediterraneo per i cambiamenti climatici, ma soprattutto è uno degli autori principali del rapporto presentato ieri dall’Ipcc sulla relazione tra suolo e global warming. Così come era tra gli autori del celebre rapporto che nel 2007 valse all’Ipcc il Nobel per la pace, insieme ad Al Gore. Professor Valentini, qual è in sintesi il messaggio che gli scienziati dell’Ipcc hanno lanciato ieri? «Che la Terra è ormai sottoposta a pressioni fortissime per la produzione di cibo e per l’estrazione di risorse. Il cambiamento climatico ha un impatto importante sul suolo. Senza una inversione di rotta il Pianeta avrà sempre più difficoltà a soddisfare le nostre esigenze». Dunque meglio essere un po’ meno esigenti? «Esatto. A cominciare dal cibo. Dovremmo imparare a mangiare meno carne, perché la metà del metano (gas a effetto serra come la CO2) rilasciato in atmosfera proviene dagli allevamenti. E poi dovremmo sprecare meno: con gli alimenti che buttiamo nei paesi ricchi potremmo sfamare quattro volte la popolazione mondiale senza cibo». Voi continuate a stilare rapporti e a suggerire rimedi. Ma chi vi ascolta? «Dovrebbero farlo i politici: è loro compito guidare il cambiamento degli stili di vita, far ridurre gli sprechi, innovare i metodi di produzione in modo che abbiamo un impatto ridotto sull’ambiente. Purtroppo, però, non esistono più veri leader, statisti capaci di indicare la strada. Oggi i politici decidono che misura adottare dopo aver visto sui social cosa vogliono gli elettori». A cominciare dal presidente della nazione più potente, che ha persino rinnegato l’accordo di Parigi sul clima. «Già, l’America di Trump è il vero convitato di pietra nei summit sul riscaldamento globale. Eppure non bisogna disperare. Mi conforta il caso della Cina: fino a pochi anni fa i suoi politici erano refrattari a qualsiasi misura per la difesa della Terra, ora invece sono in prima linea. E hanno trasformato la lotta al global warming in un business. Si pensi ai pannelli fotovoltaici o alle auto elettriche, settori in cui le aziende cinesi hanno la leadership mondiale. Forse prima o poi lo capiranno anche i politici di altre nazioni». Nel frattempo? «Nel frattempo l’unica vera speranza sono questi ragazzi che protestano sulla scia di Greta Thunberg. Sanno che saranno loro a pagare i nostri errori e sono pronti a combattere e a modificare il proprio stile di vita». Persino cambiare dieta pur di salvare il Pianeta? «Certo. Dal prossimo ottobre all’Università di Parma e in altri atenei europei, oltre che in alcune aziende, le mense adotteranno un menù concepito per ridurre le emissioni di gas serra. L’obiettivo del progetto, elaborato con la Fondazione Barilla Center for food and nutrition, è di scegliere i cibi in modo da tagliare in un anno 5000 tonnellate di CO2». Ma gli studenti troveranno altrettanto gustoso il loro pasto? «Questa è la vera sfida, ma lo sapremo solo alla fine della sperimentazione». La politica non ascolta voi scienziati ma neppure i giovani di Fridays for Future. Perché? «Perché non votano, per ora. Ma presto lo faranno e i politici dovranno adeguarsi. Fosse per me, darei da subito più potere a questi ragazzi, noi vecchi non siamo più capaci di cambiare le cose”.
La Terra bollente moltiplica i migranti. Il riscaldamento aumenterà la fame, il Mediterraneo è a rischio desertificazione. Alluvioni, siccità e caldo ridurranno il cibo. Africa e Asia le prime vittime. Valeria Robecco sul Giornale a pagina 9
Robecco Giornale
Progressiva desertificazione, crisi alimentari, drammatica accelerazione dei flussi migratori. Sono queste in sintesi le fosche previsioni delle Nazioni Unite contenute nell’ultimo rapporto sugli effetti del riscaldamento climatico. Il dossier del comitato scientifico dell’Onu sul clima, l’Ipcc, preparato da oltre 100 esperti provenienti da 52 paesi, mostra che alluvioni, siccità e tempeste minacciano di ridurre nel tempo l’offerta di cibo globale, pregiudicando la produzione agricola e la sicurezza delle forniture alimentari. L’agricoltura però non è soltanto la vittima del riscaldamento globale provocato dai gas serra emessi dall’uomo, ma anche uno strumento per combatterlo, purché sia sostenibile e accompagnata da una buona gestione del suolo, con riforestazione e difesa degli ecosistemi. L’Ipcc lo scorso ottobre avvertiva che rimanevano solo una dozzina d’anni per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi dai livelli pre-industriali (l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi sul clima). E ora sottolinea che fa aumentare siccità, ondate di calore e desertificazione, ma anche eventi meteorologici estremi come cicloni e alluvioni. Pure il Mediterraneo è ad alto rischio di desertificazione e incendi, ma a pagare le conseguenze maggiori saranno in particolare le popolazioni più povere di Africa e Asia. Questo potrebbe aumentare un flusso di immigrazione che sta già ridefinendo le politiche in Nord America, Europa e altre parti del mondo. Gli eventi atmosferici estremi possono infatti portare alla rottura della catena alimentare, minacciare il tenore di vita, esacerbare i conflitti e costringere la gente a migrare, sia all’interno dei paesi che fra un paese e l’altro. «La vita delle persone sarà influenzata da massicci flussi migratori», afferma Pete Smith, professore di scienze delle piante e del suolo all’University of Aberdeen e uno dei principali autori del rapporto: «Le persone non rimangono e muoiono dove sono, ma migrano». Durante la presentazione del documento di 1.200 pagine Valerie Masson-Delmotte, co-presidente di uno dei tre gruppi di lavoro, spiega che «oggi 500 milioni di persone vivono in aree soggette a desertificazione», e chi «si trova in aree già degradate subisce sempre più l’influenza negativa dei cambiamenti climatici». Un altro rischio per gli esperti è che le crisi alimentari si possano sviluppare contemporaneamente in diversi continenti, come fa sapere Cynthia Rosenzweig, un’altra delle autrici dello studio e ricercatrice presso il Goddard Institute for Space Studies della Nasa. Inoltre, dalla ricerca emerge anche come livelli aumentati di CO2 possano abbassare le qualità nutritive dei raccolti. Si intravedono spiragli, però, se verrà effettuata una rivalutazione dell’uso del suolo e dell’agricoltura, ad esempio aumentando la produttività della terra, o riducendo lo spreco di cibo. Nonostante i recenti dati secondo cui nel mondo ci sono oltre 820 milioni di persone denutrite, il rapporto fa sapere che «oggi il 25-30% della produzione alimentare viene persa o finisce nella spazzatura». Se si eliminasse questo spreco, si taglierebbero anche i gas serra. E contano anche le scelte alimentari dei singoli: una dieta con più vegetali e meno carne riduce in modo significativo le emissioni di gas serra, «potrebbe liberare diversi milioni di km quadrati di territorio e fornire un potenziale tecnico di mitigazione da 0,7 a 8,0 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 all’anno».
10 Intervista al Papa
PAPA FRANCESCO “L’Europa non deve sciogliersi, bisogna salvarla, ha radici umane e cristiane. Una donna come Ursula von der Leyen può ravvivare la forza dei Padri Fondatori” “Il sovranismo mi spaventa, porta alle guerre”
La sovranità va difesa, ma il sovranismo è un’esagerazione che finisce sempre male
Fuggono da guerre e fame. Mai tralasciare il diritto più importante: quello alla vita
In un Paese europeo ci sono cittadine semivuote: si potrebbero portare lì comunità di profughi
Stampa a pagina 2 e 3
intervista
Il Papa apre la porta puntuale alle 10,30, con il suo sorriso gentile. Entra in una delle stanze che usa per ricevere la gente, arredata con l’essenziale, senza distrazioni o lussi, solo un crocifisso appeso alla parete. Siamo arrivati dall’ingresso del Perugino, il più vicino a Casa Santa Marta. Scenario abituale: qualche tonaca, gendarmi e guardie svizzere. Sullo sfondo, il Cupolone di San Pietro. In Vaticano il solito tran tran è rallentato dall’afa e dal clima vacanziero. Per Papa Francesco non è un giorno qualunque: è il 6 agosto, 41° anniversario della morte di san Paolo VI, pontefice a cui è particolarmente affezionato: «In questa giornata cerco sempre un momento per scendere nelle Grotte sotto la Basilica – rivelerà – e sostare, da solo, in preghiera e silenzio davanti alla sua tomba. Mi fa bene al cuore». I convenevoli durano poco, in un attimo siamo nel pieno della conversazione. Francesco è allegro e rilassato. E concentrato. Impressiona la sua capacità di ascolto. Guarda sempre negli occhi. Mai l’orologio. Si prende le pause necessarie prima di esprimere un pensiero delicato. Parla di Europa, Amazzonia e ambiente. Il colloquio è intenso e senza interruzioni. Il Papa non beve neanche un sorso d’acqua. Glielo facciamo notare, lui scuote le spalle e risponde, sorridendo: «Non sono l’unico che non ha bevuto». Santità, Lei ha auspicato che «l’Europa torni a essere il sogno dei Padri Fondatori». Che cosa si aspetta? «L’Europa non può e non deve sciogliersi. È un’unità storica e culturale oltre che geografica. Il sogno deiPadri Fondatori ha avutoconsistenzaperchéèstata un’attuazione di questa unità. Ora non si deve perdere questopatrimonio». Come la vede oggi? «Si è indebolita con gli anni, anche a causa di alcuni problemi di amministrazione, di dissidiinterni. Mabisognasalvarla. Dopo le elezioni, spero che inizi un processo di rilancio e che vada avanti senza interruzioni». È contento della designazione di una donna alla carica di presidente della Commissione europea? «Sì. Anche perché una donna può essere adatta a ravvivare la forza dei Padri Fondatori. Le donne hanno la capacità di accomunare,di unire». Quali sono le sfide principali? «Una su tutte: il dialogo. Fra le parti,fragliuomini.Ilmeccanismo mentale deve essere “prima l’Europa, poi ciascuno di noi”. Il “ciascuno di noi” non è secondario, è importante, ma conta più l’Europa. Nell’Unione europea ci si deve parlare, confrontare, conoscere. Inveceavoltesi vedonosolo monologhi di compromesso. No: occorreanche l’ascolto». Che cosa serve per il dialogo? «Bisogna partire dalla propria identità». Ecco, le identità: quanto contano? Se si esagera con la difesa delle identità non si rischia l’isolamento? Come si risponde alle identità che generano estremismi? «Le faccio l’esempio del dialogo ecumenico: io non posso fare ecumenismo se non partendo dal mio essere cattolico, e l’altro che fa ecumenismo con me deve farlo da protestante, ortodosso… La propria identità non si negozia, si integra. Il problema delle esagerazioni è che si chiude la propria identità, non ci si apre. L’identità è una ricchezza – culturale, nazionale, storica, artistica – e ogni paese ha la propria, ma va integrata col dialogo. Questo è decisivo: dalla propria identità occorre aprirsi al dialogo per ricevere dalle identità degli altri qualcosa di più grande. Mai dimenticare che il tutto è superiore alla parte. La globalizzazione, l’unità non va concepita come una sfera, ma come un poliedro: ogni popolo conserva la propria identità nell’unità con gli altri». Quali i pericoli dai sovranismi? «Il sovranismo è un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre». E i populismi? «Stessodiscorso.All’iniziofaticavo a comprenderlo perché studiando Teologia ho approfondito il popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di sentire, di valutare), invece i populismiciportanoasovranismi: quel suffisso, “ismi”, non famaibene». Qual è la via da percorrere sul tema migranti? «Innanzitutto, mai tralasciare il diritto più importante di tut
ti:quelloallavita.Gliimmigrati arrivano soprattutto per fuggire dalla guerra o dalla fame, dal Medio Oriente e dall’Africa.Sullaguerra, dobbiamoimpegnarci e lottare per la pace. La fame riguarda principalmente l’Africa. Il continente africano è vittima di una maledizione crudele: nell’immaginariocollettivosembrache vada sfruttato. Invece una parte della soluzione è investire lì per aiutare a risolvere i loro problemi e fermare così i flussi migratori». Ma dal momento che arrivano da noi come bisogna comportarsi? «Vanno seguiti dei criteri. Primo: ricevere, che è anche un compito cristiano, evangelico. Le porte vanno aperte, non chiuse.Secondo:accompagnare. Terzo: promuovere. Quarto integrare. Allo stesso tempo, i governi devono pensare e agire con prudenza, che è una virtù di governo. Chi amministra è chiamato a ragionare su quanti migranti si possono accogliere». E se il numero è superiore alle possibilità di accoglienza? «Lasituazionepuòessererisolta attraverso il dialogo con gli altri Paesi. Ci sono Stati che hanno bisogno di gente, penso all’agricoltura.Hovistocherecentemente di fronte a un’emergenza qualcosa del genere è successo: questo mi dà speranza. E poi, sa che cosa servirebbeanche?». Che cosa? «Creatività. Per esempio, mi hanno raccontato che in un paese europeo ci sono cittadine semivuote a causa del calo demografico: si potrebbero trasferire lì alcune comunità di migranti, che tra l’altro sarebbero in grado di ravvivare l’economiadella zona». Su quali valori comuni occorre basare il rilancio dell’Ue? L’Europa ha ancora bisogno del cristianesimo? E in questo contesto gli ortodossi che ruolo hanno? «Ilpunto di partenza e di ripartenza sono i valori umani, della persona umana. Insieme ai valori cristiani: l’Europa ha radici umane e cristiane, è la storia che lo racconta. E quando dicoquesto,nonseparocattolici, ortodossi e protestanti. Gli ortodossi hanno un ruolo preziosissimoperl’Europa.Abbiamo tutti gli stessi valori fondanti». Attraversiamo idealmente l’Oceano e pensiamo al Sudamerica. Perché ha convocato in Vaticano, a ottobre, un Sinodo sull’Amazzonia? «È “figlio” della “Laudato si’”. Chi non l’ha letta non capirà mai il Sinodo sull’Amazzonia. La Laudato si’ non è un’enciclica verde, è un’enciclica sociale, che si basa su una realtà “verde”, la custodia del Creato». C’è qualche episodio per Lei significativo? «Alcuni mesi fa sette pescatori mi hanno detto: “Negli ultimi mesi abbiamo raccolto 6 tonnellatediplastica”.L’altrogiorno ho letto di un ghiacciaio enormeinIslandachesièscioltoquasi deltutto:gli hanno costruito un monumento funebre. Con l’incendio della Siberia alcuni ghiacciai della Groenlandia si sono sciolti, a tonnellate. La gente di un paese del Pacifico si sta spostando perché fra vent’anni l’isola su cui vive non ci sarà più. Ma il dato che mi ha sconvolto di piùè ancora unaltro». Quale? «L’Overshoot Day: il 29 luglio abbiamoesauritotuttelerisorse rigenerabili del 2019. Dal 30 luglio abbiamo iniziato a consumare più risorse di quellecheilPianetariescearigenerare in un anno. È gravissimo. Èuna situazionedi emergenza mondiale.EilnostrosaràunSinodo di urgenza. Attenzione però: un Sinodo non è una riunione di scienziati o di politici. Non è un Parlamento: è un’altra cosa. Nasce dalla Chiesa e avrà missione e dimensione evangelizzatrici. Sarà un lavoro di comunione guidato dallo SpiritoSanto». Ma perché concentrarsi sull’Amazzonia? «È un luogo rappresentativo e decisivo. Insieme agli oceani contribuisce in maniera determinante alla sopravvivenza delpianeta. Granpartedell’ossigeno che respiriamo arriva da lì. Ecco perché la deforestazione significa uccidere l’umanità. E poi l’Amazzonia coinvolge nove Stati, dunque non riguarda una sola nazione. E penso alla ricchezza della biodiversità amazzonica, vegetalee animale:è meravigliosa». Al Sinodo si discuterà anche la possibilità di ordinare dei «viri probati», uomini anziani e sposati che possano rimediare alla carenza di clero. Sarà uno dei temi principali? «Assolutamente no: è semplicemente un numero dell’Instrumentum Laboris (il documentodilavoro,ndr).L’importantesarannoiministeridell’evangelizzazionee idiversimodidi evangelizzare». Quali sono gli ostacoli alla salvaguardia dell’Amazzonia? «La minaccia della vita delle popolazioni e del territorio deriva da interessi economici e politici dei settori dominanti dellasocietà». Dunque come deve comportarsi la politica? «Eliminare le proprie connivenze e corruzioni. Deve assumersi responsabilità concrete, per esempio sul tema delle miniereacieloaperto,cheavvelenano l’acqua provocando tante malattie. Poi c’è la questionedeifertilizzanti». Santità, che cosa teme più di tutto per il nostro Pianeta? «Lascomparsadellebiodiversità. Nuove malattie letali. Una deriva e una devastazione della natura che potranno portarealla mortedell’umanità». Intravede una qualche presa di coscienza sul tema ambiente e cambiamento climatico? «Sì, in particolare nei movimenti di giovani ecologisti, come quello guidato da Greta Thunberg, “Fridays for future”. Ho visto un loro cartello chemi hacolpito:“Ilfuturosiamonoi!”». La nostra condotta quotidiana – raccolta differenziata, l’attenzione a non sprecare l’acqua in casa – può incidere o è insufficiente per contrastare il fenomeno? «Incide eccome, perché si tratta di azioni concrete. E poi, soprattutto, crea e diffonde la cultura di non sporcare il creato».—
11 F35 e altro
L’INDECISIONE SUGLI F-35 RISCHIA DI AVERE UN COSTO ALTO PER L’ITALIA
Stefano Stefanini sulla Stampa
Crisi, non crisi o rimpasto: è troppo ricordare al governo che, quale sia l’esito, c’è anche l’ordinaria amministrazione? A maggior ragione quando ne dipendono capacità di difesa nazionale, ritorni industriali e tecnologici e il rapporto con il nostro principale alleato strategico (gli Stati Uniti)? Da dicembre scorso l’Italia deve confermare l’impegno per l’acquisto di 28 Joint Strike Fighters (F-35) cacciabombardieri americani della quinta generazione. L’incertezza (voluta?) mette a rischio il futuro dello stabilimento novarese di Cameri che ne produce le ali più parte della fusoliera ed effettua l’assemblaggio. L’incuria fa a pugni con quell’interesse nazionale che nel “contratto per il governo del cambiamento” straripa. A parole. Abbiamo già acquistato 27 velivoli in una fornitura complessiva di circa 90. Partecipiamo alla produzione di quelli destinati all’Italia e all’Olanda. Il dado è tratto. L’impegno specifico, da comunicare adesso al Pentagono, è la conferma della seconda mandata di altri 28 JSF (tecnicamente sono i lotti 15-16-17) che andrebbero in assemblaggio a Cameri nel 2023. Non rappresenta una novità né militare né economica. Non risulta ci siano obiezioni di Palazzo Chigi. Salvo alchimie governative (versante giallo), la ministra della Difesa è pienamente abilitata a darla. L’indecisione comporta tre ordini di conseguenze. Primo, i velivoli in questione sono essenziali per la difesa nazionale. Tutti i Paesi, amici o meno, con i quali ci confrontiamo si stanno dotando di cacciabombardieri della quinta generazione, F-35, Rafale, Mig o Sukhoi. La nostra scelta, evidentemente in ambito occidentale, è caduta su quello più avanzato e performante. Li abbiamo ridotti al minimo necessario. Siamo circondati da mari che si pattugliano anche dall’aria. Ci sono ben altre minacce che i gommoni carichi di migranti. Secondo, niente conferma dei lotti 15-16-17, niente lavoro per Cameri a partire dal 2023 salvo qualche rimasuglio olandese. Sono a rischio circa 600 posti di lavoro a tempo interminato, più indotto. Sarebbe invece il momento di cogliere l’opportunità di estendere l’assemblaggio effettuato a Cameri ad altri acquirenti di F-35, come Belgio e Polonia, e di candidare l’industria italiana a riempire il vuoto lasciato nel programma dal forzato ritiro di Ankara, causa l’acquisto delle batterie S-400 russe. L’industria turca sta amaramente piangendo lavoro e ritorni tecnologici persi. Terzo, il ritardo sta creando una palpabile irritazione a Washington nei confronti di un’Italia che, fra balletti con Mosca e Pechino, ritrosia sull’Iran e continua maretta in ambito Ue, appare sempre meno l’alleato affidabile e coerente che possa vantare un rapporto bilaterale privilegiato. Le epidermiche simpatie con l’amministrazione Trump non bastano. Nell’attuale stato della coalizione governativa la conferma dell’impegno – già esistente – per i prossimi 28 F-35 può apparire un dettaglio trascurabile. Rivela però inettitudine a gestire la cosa pubblica e distacco dai problemi reali del Paese. Si governa con scelte non con Rousseau. La Tav ha già messo a nudo una deriva pentastellata verso la de-industrializzazione. Per uscire dalla stagnazione prolungata gli italiani vogliono posti di lavoro e grandi opere, come negli anni ’50 e ’60. Non panem (reddito di cittadinanza) et circenses (legge sullo sport).—
AI MILLENNIALS AMERICANI IL COLLEGE NON SERVE PIÙ
Vittorio Sabadin sulla Stampa
I l 49% dei millenials americani, i giovani nati alla fine del secolo scorso, non pensa che frequentare il college e prendere una laurea sia importante per il proprio futuro. Anche la Generazione Z, quella nata in questo secolo, è totalmente d’accordo: i tempi sono cambiati, esistono strade diverse e più dirette di approccio al lavoro, la laurea in molti casi fa perdere solo tempo e denaro. Un sondaggio su 3000 adulti condotto da Td Ameritrade e pubblicato su Marketwatch svela quanto stia cambiando il modello sul quale la borghesia americana ha fondato i propri valori: finita la high school, i ragazzi partivano per il college e tornavano dopo quattro anni con una laurea che avrebbe procurato loro un lavoro ben pagato e un riconosciuto prestigio sociale. Oggi non è più così. Nel 2012 il presidente Barack Obama aveva definito la laurea “un imperativo economico che ogni famiglia in America deve essere in grado di permettersi”, ma secondo il Bureau of Labor Statistics meno del 20 % dei lavori disponibili nel 2018 negli Stati Uniti richiedeva una laurea. Entro il 2026, prevede il New York Times, questa percentuale dovrebbe salire un poco, ma non oltre il 25 %. Se ci sono troppi laureati rispetto ai posti disponibili i loro salari scendono, e infatti è dal 2000 che rallenta la crescita del divario salariale tra liceali e laureati: oggi in America il 25% di chi esce dal college non guadagna più di un diplomato medio. La Generazione Z si sta domandando se ne valga la pena. Il college costa molto, gli studenti si indebitano per frequentarlo e il debito complessivo da loro accumulato ha raggiunto 1,5 trilioni di dollari, quasi il triplo dei 600 miliardi di 10 anni fa. Ogni studente al momento della laurea ha in media un debito di 37 mila dollari, che dovrà ripagare con i primi stipendi. La scelta, ha detto a Marketwatch Malavika Vivek, una studentessa che ha rinunciato al Caltech per un apprendistato in un’azienda farmaceutica, “è tra pagare e non avere alcuna esperienza del mondo reale, o tra essere pagati e avere esperienza del mondo reale”. Lei ha scelto la seconda opzione, convinta che il college non crea il tuo futuro, né può distruggerlo se non ci vai. “Oggi le opzioni sono diverse – spiega Dara Luber, ricercatrice di Ameritrade -. Sempre più studenti seguono corsi online, si iscrivono alla scuola locale, fanno il pendolare da casa o frequentano un istituto professionale”. Anche in Gran Bretagna ci si domanda se la laurea valga il denaro speso, visto che, ha scritto il Financial Times, il 33% dei laureati ha stipendi inferiori o pari a quelli dei non laureati. Gli studenti ricevono pessimi servizi da facoltà costose: lo studio è indubbiamente un valore di per sé, ma non è sempre riconosciuto in busta paga. Se poi è esteso a tutti non ne beneficia più nessuno: anche i laureati sono senza lavoro. L’intero sistema educativo va rivisto, scrive l’esperto Bryan Caplan in “The case against education”, perché è diventato troppo dispersivo e inefficiente per le esigenze del mondo contemporaneo. —
1 JUVe e napoletani
Napoletani banditi dallo Juve Stadium: “Qui non entrate”
” La società di Agnelli nega i biglietti non solo ai residenti ma a tutti i nati in Campania. La Questura si dissocia
Fatto pagina 15
Così sei poco Signora. Gaffe o discriminazione, Juventus-Napoli vietata a chi è nato in Campania Bufera per le restrizioni all’acquisto dei biglietti Il club: «Comunicate agli uffici competenti»
Sul Giornale a pagina 28.
Se la Juve discrimina i napoletani
Niente stadium per i Caracciolo e mister Sarri
Tony Damascelli sul Giornale
Damascelli
Torino vietata ai napoletani. Lo ha deciso la Juventus, negando i biglietti di accesso all’Allianz stadium per la partita tra Juventus e Napoli, in programma il 31 di agosto, non soltanto ai residenti in Campania, come già imponeva l’Osservatorio del Viminale, per motivi di ordine pubblico, ma addirittura a chi in Campania è nato. Il comunicato emesso dal club bianconero è goffo, ridicolo, razzista ma è, soprattutto, miserabile, figlio di una arroganza e di una ignoranza dinanzi alle quali non c’è alibi, non c’è soluzione, se non quella delle scuse, prima, delle dimissioni e licenziamento, subito dopo. La mediocrità etica impressionante, con il silenzio complice delle istituzioni calcistiche, deve essere censurata dal presidente della Juventus, Andrea Agnelli. A corredo paradossale, ieri, allo stesso Agnelli è stato (…)
(…) assegnato, dalla Camera di Commercio, il riconoscimento dl Torinese dell’anno 2018, per i meriti imprenditoriali nella valorizzazione del marchio Juventus diventata un colosso commerciale e uno dei principali motori dell’economia turistica di Torino. Turisti non napoletani, aggiungo io. Il comunicato della Juventus, infatti, ha aspetti che sfiorano il grottesco: Maurizio Sarri è nato a Bagnoli, anch’egli non potrebbe entrare allo stadio, va da sé, come provocazione, che la famiglia Caracciolo, da cui donna Allegra, madre di Andrea, discende, abbia chiarissime origini napoletane, dunque si porti appresso il marchio indegno come i giornalisti al seguito della squadra. Il delegato alla sicurezza dello stadio, che ha firmato il comunicato, le cui generalità restano misteriose perché cancellate nella pubblicazione (ma del quale si conoscono nome e cognome), i partenopei non hanno diritto di cittadinanza calcistica all’Allianz il trentuno prossimo venturo anche se tifosi bianconeri. Difficile trovare parole per spiegare tanta rozzezza di pensiero, tanto analfabetismo civico. Inutile battersi per scudetti revocati quando si perde la battaglia del rispetto di un ospite nella tua casa. Scontata la colata lavica di insulti nei confronti del club e della squadra bianconera. Non c’è avvocato (con la a minuscola perché con l’A maiuscola non sarebbe mai arrivato a tanto) che possa montare una memoria difensiva sull’accaduto, lo stesso silenzio ufficiale del club conferma che oltre all’imbarazzo resista una supponenza già conosciute. Ma tant’è, il misfatto è compiuto, qualunque smacchiatore non potrà cancellare questo oltraggio all’intelligenza e all’educazione. Non sono meravigliato se penso alle figure alle quali è stata delegata la sicurezza dello stadio, fra queste anche chi si è reso protagonista di collegamenti con la criminalità dedita al bagarinaggio. Questo è il passato ma il futuro prossimo preoccupa, le partite contro il Napoli, già cariche di tensione, si trasformano in momenti di allarme, l’immagine del club bianconero ne esce sporcata, qualche anima, fintamente astuta, sostiene che sia lo stesso dispositivo della scorsa stagione poi modificato dal Viminale, ciò significherebbe che la correzione dell’osservatorio è stata ignorata e l’errore è stato ribadito. Tutto vero, tutto scritto, tutto pubblicato. Tutto molto vergognoso. La Juventus, da sempre, gioca contro tutti. Stavolta ha perso contro se stessa.
1 Diabolik
CosìDiabolik è caduto in trappola L’ultràdellaLaziouccisoalparco.Chiavrebbedovutoincontrare?Ilbodyguardsalvoperl’armainceppata
Corriere
Roma, agguato a Diabolik la pista della mafia albanese. La scorta, l’arma inceppata, l’autista nuovo tutto quello che non torna dell’omicidio.
Messaggero a pagina 13
Una trappola per Diabolik I pm: omicidio di mafia Piscitelli aspettava qualcuno. Con lui sulla panchina l’autista, ma la pistola del killer si è inceppata Pista della droga, l’ipotesi del debito mai pagato con i gruppi organizzati italiani o albanesi. Su Repubblica a pagina 18
Salta la pax criminale. Adesso Roma teme la guerra della droga. Dopo l’uscita di scena di Carminati non c’è più un mediatore degli equilibri tra clan. E ora si rischia il caos. Floriana Bulfon su Repubblica a pagina 19.
Buolfon
L’unica certezza è che quell’omicidio è un pessimo affare. Lo sanno tutti a Roma che le pallottole mettono a rischio la linfa criminale della metropoli, quell’enorme fiume di droga distribuito in cento piazze di spaccio e smistato all’ingrosso in tutta Italia. Chi ha deciso la morte di Fabrizio Piscitelli, il Diabolik delle trame in Curva Nord e della mala rampante capitolina, si è assunto una grande responsabilità. Ha infranto la pax mafiosa che regola “il mercato ideale” delle cosche, come lo definiva il procuratore Giuseppe Pignatone citando l’intercettazione di un ’ndranghetista: il posto perfetto dove arricchirsi e riciclare, così vasto e affamato di cocaina da offrire spazio a chiunque. A patto però di non sparare. Anche per questo gli investigatori sono convinti che si tratti di un delitto di rango, ma non escludono che il movente possa essere più personale che commerciale. Una circostanza che però non nega il danno commesso dal killer, tale da incrinare il complesso equilibrio che permette alle filiali delle mafie italiane e straniere di convivere e siglare alleanze con i boss nativi. Un accordo che si regge su un solo pilastro: non attirare l’attenzione e governare il mercato senza scontri. Vale per tutti, dai capi del narcotraffico agli operai della dose come Alessandro. «Me danno cent’euro, faccio il turno del pomeriggio perché la mattina vado a scuola» racconta. Ha sedici anni e se ne sta seduto sotto a una scala sgarrupata a ridosso di quel Grande raccordo anulare, dove Roma sembra finire e si aprono i self service della droga. A Tor Bella Monaca e a San Basilio non c’è tregua, si spaccia sempre. Un sistema industriale, protetto da vedette, telecamere, pusher che lavorano su tre turni e “capi scala” che controllano. Chili nascosti nei doppi fondi delle auto, importazione dal Sud America, con transito dai porti olandesi e dalla Spagna: per citare le fiction, Suburra ormai si è trasformata in Narcos. Nessuno sa quanto valga il business ma sulle strade si raccolgono decine di milioni a settimana: il fatturato della sola Tor Bella è stimato in cento milioni l’anno. Per questo le cosche del Sud hanno stretto accordi di mutuo soccorso e reciproco vantaggio appoggiandosi alla criminalità autoctona, quella che tiene in mano il territorio usando una violenza molto calcolata. Roma città aperta, sì: a tutte le mafie. Le relazioni della Dia offrono l’elenco della colonizzazione, con i nomi che rappresentano il gotha delle cosche. È presente l’intero vertice della ’ndrangheta dai Gallico di Palmi, agli Alvaro di Sinopoli, fino ai Marando di Platì e agli emissari di Africo e San Luca. Poi ci sono i siciliani e i padrini campani che considerano Roma la porta della cocaina. Sanno che qui c’è un consumo senza pari in Italia e un porto sicuro per i traffici internazionali. Domenico Tassone, un calabrese da anni trasferito a Ostia, spiegava di gestire «una fetta delle importazioni da lui quantificata nel 75% del totale. In Italia solo due o tre persone potevano vantare la stessa disponibilità». Un eldorado dai profitti infiniti, che però funziona solo se si tengono ferme le armi. Diabolik, capo ultrà laziale arrestato in passato per traffico di droga, viene indicato dagli investigatori alla testa di una “batteria” attiva tra i lucchetti dell’amore eterno di Ponte Milvio, nella zona da sempre sotto l’influenza di Massimo Carminati. Aveva agli ordini uno stuolo di picchiatori albanesi e lavorava per conto dei fratelli Salvatore e Genny Esposito. Sono i figli del boss Luigi “Nacchella” legati a Michele Senese: un pezzo da novanta della camorra, forse il primo a creare una mafia ibrida, tanto che uno dei suoi diceva di essere «un napoletano della Tuscolana». Il contatto tra gli Esposito e Senese, detto ‘o pazzo per le tante perizie psichiatriche grazie alle quali evitava il carcere, avviene in una casa di cura romana. Da quel momento i fratelli Esposito crescono e collaborano con la ’ndrangheta attiva a San Basilio, con gli albanesi. Il problema di Roma però è da sempre lo stesso, sin dagli anni Settanta: nessuno comanda ma tutti devono trovare degli equilibri. Prima c’era Massimo Carminati, «elemento di raccordo e di coordinamento», come recita una sentenza di patteggiamento. Dopo il suo arresto, gli atti investigativi non hanno più registrato una figura di “grande mediatore”. A spiccare ci sono stati solo Salvatore Nicitra, ex della Banda, intercettato mentre mette fine a una controversia da 800mila euro tra Senese e Franco Gambacurta, il “ras di Montespaccato”. E Francesco D’Agati, 83 anni, chiamato “Zio Ciccio” come tributo alla sua autorevolezza. È il fratello del capo mandamento di Villabate ed è stato braccio destro nelle ambasciate capitoline di Pippo Calò. Sarebbe stato lui a mediare la “tregua della costa” laziale, ponendo fine a uno stillicidio di duelli calibro nove tra i padrini di Ostia. E si racconta di un suo consulto, poche ore prima che i funerali con carrozza ed elicottero rendessero nota a tutta la città la morte di Vittorio Casamonica: “Zio Ciccio” ha ricevuto a casa Guerino Casamonica, pronipote del patriarca rom, insieme ad alcuni palermitani. D’Agati e Nicitra però da alcuni mesi sono sotto stretta sorveglianza. Ed è sempre più complesso tenere in riga un crogiolo di interessi criminali. Imponendo limiti ai nuovi arrivati, albanesi e slavi, abituati a farsi spazio con i kalashnikov. Tenendo a freno l’esuberanza delle seconde generazioni di pregiudicati calabresi, campani, siciliani cresciuti al fianco degli eredi di usuari e rapinatori romani. O le tentazioni offerte dai vuoti creati dalle retate delle polizie, come quelle ai danni dei Casamonica. Solo le prossime settimane permetteranno di capire se la rete globale dei narcointeressi sarà in grado di frenare gli appetiti dei singoli.
1 stabiloimento razzista
“Qui i neri non li vogliamo” Stabilimento chiuso per razzismo
Su Repubblica a pagina 29
Stabilimento razzista
«Tu non puoi entrare, perché sei nero». È la sera del 21 luglio, un ragazzo 18enne di origine etiope sta per entrare a una festa al Cayo Blanco, un locale di Sottomarina, la spiaggia di Chioggia. È insieme ad alcuni amici, vogliono ascoltare un po’ di musica e ballare. Loro possono entrare, lui no. I bodyguard gli si parano davanti, sbarrano l’ingresso. Mettendo in chiaro le cose: qualche giorno fa un gruppo di ragazzi di origine africana ha rubato alcune collanine all’interno del locale, quindi i neri non entrano più. Inutili le proteste, è costretto a restare fuori. A distanza di poco più di due settimane dall’episodio di razzismo, ieri è arrivato il provvedimento del questore di Venezia, Maurizio Masciopinto, che ha disposto la sospensione per 15 giorni della licenza allo stabilimento balneare. Un provvedimento cautelare, in base all’articolo 100 del testo unico di pubblica sicurezza, per una serie di episodi violenti e razzisti dei quali è accusato il personale di sicurezza della struttura. «Una misura che conferma la gravità del fatto», racconta Barnaba Busatto, avvocato a amico di famiglia del ragazzo, un ex calciatore delle giovanili della Spal residente ad Adria (Rovigo). È stato proprio a Busatto che il ragazzo, quella stessa sera, ha telefonato per raccontargli, in presa diretta, la discriminazione di cui era vittima. «Ha cercato di passarmi i buttafuori», aggiunge il legale, «ma non hanno voluto parlarmi, spiegando che è un loro diritto decidere chi può entrare e chi no». Episodi di razzismo e anche di violenza. Il 3 agosto un 43enne è stato allontanato e poi colpito con calci e pugni da un buttafuori dello stabilimento, riportando la frattura di perone e mascella, con una prognosi di 30 giorni. «Ci stanno diffamando, non siamo razzisti», la replica del locale.
ECONOMIA
1 bce
Bce pronta a intervenire Un nuovo bazooka in arrivo a settembre “Serve ancora una politica monetaria accomodante” Così i tassi resteranno molto bassi ancora a lungo
«Si prevede una crescita più debole nel secondo e terzo trimestre del 2019»
Stampa pagina 20
LaBce:avanti conglistimoliall’economia.Borse su
Corriere o.32
Bce in trincea “Pil europeo fermo interventi pronti”. Inflazione bassa, Brexit, dazi e crisi industriale in Germania e Italia giustificano un altro stimolo monetario.
Tonia Mastrobuoni su Repubblica a pagina 31
Tonia
Jean-Claude Trichet, passaporto francese, è stato il più tedesco dei banchieri centrali europei. Rigorosissimo, commise persino l’errore di alzare i tassi di interesse all’inizio della Grande crisi per eccesso di ortodossia. Perciò la sua intervista a tutta pagina sull’Handelsblatt uscita ieri è sicuramente un appello ascoltato da molti, nel paese di Angela Merkel. «La Germania ha avuto una sana politica fiscale in passato. Ma ora è necessaria una politica fiscale più attiva, a vantaggio delle infrastrutture pubbliche e per rafforzare la domanda» ha sottolineato. E occorre incoraggiare anche maggiori aumenti salariali per spingere la domanda interna, ha aggiunto l’ex capo dei guardiani dell’euro, l’ultimo a predicare costantemente, a suo tempo, la moderazione salariale. Ieri anche il bollettino mensile della Bce ha ribadito lo stesso messaggio di Trichet, che peraltro era stato espresso già a chiare lettere da Mario Draghi a fine luglio. I paesi che hanno i margini di bilancio, dovrebbero sfruttarlo, dovrebbero mettere sul piatto pacchetti di stimolo. Intanto, a fronte di un indebolimento della domanda nel secondo e terzo trimestre, i guardiani dell’euro sono convinti che un “significativo” stimolo monetario resti necessario. Il bazooka della Bce è pronto e molti analisti si aspettano che inizi a sparare già a settembre. Nell’eurozona il Pil si è fermato allo 0,2% nel secondo trimestre, e con un settore manifatturiero che in Paesi come l’Italia e la Germania è in pieno “shock idiosincratico” e rischia di andare “sempre peggio” secondo Draghi, la Bce si attende un ulteriore peggioramento. E dunque, molti si attendono già a breve, al consiglio direttivo del 12 settembre, un taglio dei tassi sui depositi da -0,4 a -0,5%, con buona pace delle banche, soprattutto tedesche, che hanno già avviato la contraerea, minacciando di trasferirli sui correntisti e aumentando la pressione sull’opinione pubblica. Del resto, anche le incognite derivanti dalla crisi di governo aperta ieri dal vicepremier Matteo Salvini rischiano di agitare il mercato dei redditi. Già nelle ultime ore gli spread hanno ricominciato a salire, in attesa dei giudizi imminenti delle agenzie di rating e alla grande incognita della manovra d’autunno. Anche l’inflazione si è fermata all’1,1%, motivo in più per la Bce per mantenere la guardia alta. Anche nel bollettino di ieri c’è un accenno a un nuovo giro di acquisti di bond sovrani e privati, il famoso quantitative easing che vale già 2.600 miliardi di titoli pubblici che restano ancora in pancia alla Bce e che “continueranno ad essere reinvestiti” alla scadenza, come ha ribadito ieri. La maggior parte degli analisti si attende un riavvio degli acquisti da gennaio del 2020. Nel bollettino si evocano poi le nubi che stanno oscurando già l’orizzonte dei mesi autunnali, e due in particolare rischiano di fare l’effetto di uno tsunami sull’area euro. Spaventa il timone del primo ministro britannico Boris Johnson sempre più puntato verso un’uscita disordinata dall’Unione; spaventa la “crescente minaccia del protezionismo” aizzata dal presidente americano Donald Trump. Una dinamica che ha spinto in territorio negativo i tassi delle principali banche centrali. Venerdì scorso è precipitata sotto zero addirittura l’intera curva dei rendimenti dei bund tedeschi. Ma anche i bond sovrani di Paesi extra euro come la Svezia, la Danimarca, la Svizzera e in Giappone sono sotto pressione. E la tensione globale sta schiacciando persino i treasuries americani: il rendimento del decennale si è quasi dimezzato dal 3,25% dello scorso novembre all’1,72% attuale. Il tutto mentre sulla Federal Reserve aumenta il mobbing di Trump, che vorrebbe tagli dei tassi a livelli forsennati.
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Addio a Saccomanni, l’ex ministro gentiluomo Già direttore generale della Banca d’Italia, era presidente diUnicredit
Corriere p.32
Rossi
«Un italiano serio e capace, il Paese ha perso una guida»
Il ricordo F abrizio Saccomanni è stato un mio amico, oltre che un capo, una guida, un predecessore. La notizia della sua morte improvvisa mi ha colpito come fosse stata quella di un fratello. Ma il mio legame personale con lui qui non conta,resterà un fatto privato. Conta il fatto che Saccomanni è stato un grande italiano. Fra i tanti suoi incarichi, anche internazionali, spiccano quelli di Direttore generale della Banca d’Italia, presidente dell’Ivass (l’autorità che vigila sulle assicurazioni), ministro dell’Economia e delle finanze, presidente di Unicredit. Non inganni la sua bonomia romanesca, da cultore del Belli qual era: in tutte quelle vesti, e nelle altre che non ho citato, ha messo rigore analitico, capacità negoziale, grande forza morale. Dimostrando al mondo, che lo conosceva bene, quanto un italiano possa essere serio e capace. Al nostro Paese ha dato molto, la sua scomparsa è una perdita pertutti.
Salvatore Rossi su Corriere pagina 32
Addio a Saccomanni civil servant con il sorriso
Stroncato da un malore il primo giorno di vacanza in Sardegna Presidente di Unicredit aveva 76 anni una vita in Bankitalia e ministro con Letta
Andrea Greco su Repubblica a pagina 31
Greco
Un infarto al primo giorno di vacanza porta via Fabrizio Saccomanni, presidente di Unicredit dopo 46 anni in Bankitalia e uno da ministro del Tesoro nel governo Letta. L’economista di Roma solo mercoledì aveva partecipato al cda della banca e alla conferenza stampa, dov’era apparso in buone condizioni e come sempre gioviale. Un arresto cardiaco lo ha colpito ieri all’ora di pranzo sugli scogli della Gallura vicino al golf di Puntaldia, rendendo inutili i tentativi di rianimazione medica e l’elicottero del soccorso. Avrebbe compiuto 77 anni il 22 novembre. «Scompare un uomo di solida caratura internazionale, al quale il Paese si è affidato in più occasioni, attribuendogli significativi incarichi», lo ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Imperturbabilmente cordiale — dote rara nel mondo della finanza — era tra i pochi banchieri della sua generazione a vantare solide esperienze ed entrature internazionali; tra cui gli anni londinesi alla vicepresidenza della Bers (2003-2006). «A nome di tutto il cda e di tutte le persone di Unicredit voglio esprimere l’immenso dolore per l’improvvisa scomparsa — ha scritto l’ad della banca, Jean Pierre Mustier — . Per me scompare anzitutto un amico di grande intelligenza e umanità, colto, competente e arguto. È una perdita per l’intero Paese». In attesa della nomina di un nuovo presidente la banca ha fatto sapere che le funzioni vanno al vice presidente vicario Cesare Bisoni. «Unicredit perde un presidente di grandissimo livello e spessore che ha guidato il cda in una fase caratterizzata da sfide impegnative, con grande equilibrio e trasparenza, visione strategica limpida, forte senso della direzione di marcia», ha aggiunto l’ad. Quando in aprile 2018 Saccomanni diventò presidente della banca, fonti attendibili rivelarono che proprio il carismatico banchiere francese ebbe l’ultima parola nella scelta, a scapito di Massimo Tononi (oggi presidente di Cassa depositi per conto delle Fondazioni azioniste), di cui temeva il piglio più operativo e diretto. Quel misto di bonomia, ironico garbo, competenza e lealtà alle istituzioni, erano già valsi a Saccomanni l’assegnazione di delicati incarichi nelle istituzioni, a farne un membro d’onore della pattuglia di “servitori dello Stato” oggi piuttosto vituperata. Entrato nel 1967 in Banca d’Italia, divenne direttore generale nel 2006, fino alla chiamata di Enrico Letta (su consiglio del Quirinale) nell’aprile 2013 a capo del Tesoro. Durò 10 mesi, fino al governo Renzi. Le stesse caratteristiche avevano anche reso Saccomanni un candidato per altri incarichi di prestigio. Come nel 1998 per il consiglio della Bce, poi toccato a Tommaso Padoa-Schioppa, amico dai tempi degli studi in Bocconi. O la volata per diventare governatore di Banca d’Italia nel 2011 (poi vinta da Ignazio Visco). O la presidenza di Intesa Sanpaolo, per cui nel 2016 fu antagonista di Gian Maria Gros-Pietro. Saccomanni fu anche il ministro del Tesoro che a metà 2013 trattò con il commissario Ue Almunia un raffazzonato rilancio di Mps, che sarà nazionalizzata dal Tesoro di Pier Carlo Padoan tre anni dopo. E fu il ministro che in quei mesi sdoganò la direttiva Ue sul fallimento “privato” delle banche (bail in) senza ottenere clausole di salvaguardia sui bond subordinati diffusi tra i risparmiatori italiani. Lo scorso febbraio, in Senato, il ministro del Tesoro Giovanni Tria disse che Saccomanni «fu praticamente ricattato dal ministro delle finanze tedesco» a riguardo. Ieri Tria ha espresso «profondo cordoglio» per «una grande risorsa di statura anche internazionale» persa dal Paese.
Addio a Saccomanni super-banchiere della Repubblica
Stampa pagina 21
SAC C O M A N N I , LA CARRIERA I N C O M P I U TA DI UN TECNICO »
STEFANO FELTRI sul Fatto
Feltri
Fabrizio Saccomanni è morto all’i m p ro vviso, a 76 anni. Chi lo ha conosciuto ricorda ora il suo carattere solare, la simpatia romanesca che declinava anche in versi, l’a p p arente leggerezza con cui affrontava incarichi gravosi. I siti web gli attribuiscono come qualifica “pr es i de nt e di Unicred it ”, perché questo era l’i nc arico che ricopriva da un anno. Eppure Saccomanni aveva passato la carriera dall’altra parte, dal lato dei vigilanti, non dei vigilati. Una carriera tutta in Banca d’Italia, fino al secondo gradino più alto, quello di direttore generale. Saccomanni era sicuro di raggiungere anche l’ultima tappa, quella di governatore. Ma è rimasto stritolato in una partita di potere: nel 2011 era l’erede naturale di Mario Draghi, in procinto di passare alla Bce. Ma per la poltrona correva anche Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro che vantava (o millantava) il sostegno del grande nemico di Draghi, l’allora ministro Giulio Tremonti. E c’era pure Lorenzo Bini Smaghi, di ritorno da Francoforte. I veti incrociati produssero la nomina di Ignazio Visco. Gli ultimi anni di Saccomanni sono stati un lungo e insoddisfacente risarcimento: direttore generale onorario di via Nazionale, poi ministro dell’Economia nel governo Letta e, infine, membro del cda di Unicredit al posto di uno dei simboli del potere bancario più vischioso, Fabrizio Palenzona. E poi presidente, succeduto all’o ttu age nar io Giuseppe Vita. Fuori da Bankitalia la giovialità di Saccomanni è stata messa a dura prova. Si è trovato bersaglio del rimpallo di responsabilità s ul l’adozione disinvolta da parte dell’Italia delle nuove regole sui fallimenti bancari, quelle che hanno bruciato azioni e obbligazioni subordinate nel 2015 per Banca Etruria e gli altri tre istituti collassati. Nel 2017 lo stesso Ignazio Visco attribuisce al governo di cui Saccomanni faceva parte la colpa di aver gestito male la trattativa poi l’attuale titolare del Tesoro Giovanni Tria racconta in Parlamento che “S a c c omanni fu praticamente ricattato dal ministro delle Finanze tedesco”, il quale disse che se l’Italia non avesse accettato “si sarebbe diffusa la notizia che il nostro sistema bancario era prossimo al fallimento”. Chissà se la prematura scomparsa renderà più facile usarlo come capro espiatorio di responsabilità collettive o prevarrà un po’ di ritegno.
Una lunga militanza nell’esercito della Competenza. L’eredità di Saccomanni
Sul Foglio a pagina 4
Foglio
Fabrizio Saccomanni è stato un alto dirigente delle istituzioni pubbliche. Uno di quelli, e sono tanti, che nel corso della propria lunga carriera ha sempre avuto in mente l’interesse generale. Come altri prima di lui è passato dalla Banca d’Italia al ministero dell’Economia e delle Finanze. Due delle poche scuole di alta direzione ancora presenti nel paese. L’ho conosciuto già ministro: mi assunse alla fine di maggio 2013 come suo portavoce, al termine di una selezione condotta sulla base di curriculum e colloqui. Un piccolo segnale di quella attitudine ad affidarsi alle competenze piuttosto che alla fedeltà, che distingue i tecnici dai politici. Fu ministro del governo del “cacciavite”: quella era la metafora scelta da Enrico Letta per caratterizzare il suo gabinetto. Una metafora efficace, adottata da chi conosce la difficoltà del governare, da chi è consapevole di quanto lunga sia la strada per riformare una comunità di individui organizzati in piccoli gruppi, arroccati a piccoli privilegi e avversi a qualsiasi rischio associato con la trasformazione. Metafora risultata sfortunata in un’epoca di frustrazioni, nella quale molti giudicano il passato migliore del presente e pretendono che il governo risolva tutti i problemi cambiando radicalmente tutto e subito, a condizione che il cambiamento non li riguardi se impone qualche sacrificio. L’epoca della coltivazione del consenso a ciclo continuo, che divorerà un leader politico dietro l’altro nei sei anni successivi. In cui si parla molto ma si fa poco, ché le dirette Facebook sono sempre più facili da farsi mentre scema il numero di quelli capaci di usare un cacciavite. Consapevole che un ministro svolge sempre un ruolo politico, quale che sia la sua estrazione, non ha avuto il tempo di comprendere a fondo la politica e i suoi meccanismi. Come accade a chiunque nell’Italia di questi anni, entrato negli uffici di Via XX settembre ha dovuto occuparsi soprattutto di emergenze: la crisi economica, con la seconda recessione 2012-2013 che non mollava il paese dopo quella più profonda e globale del 2008-2009; la richiesta dell’alleato Berlusconi di cancellare la tassa sulla prima casa, in contrasto con l’esigenza di migliorare i conti pubblici e allontanare dall’Italia il rischio di insolvenza che alla fine del 2011 aveva portato al governo Mario Monti, a danno proprio del Cavaliere; una Comunicazione della Commissione europea che cambiava le regole per la gestione delle crisi bancarie – rendendo all’Italia impossibile l’utilizzo di denaro pubblico per effettuare il salvataggio di intermediari finanziari insolventi (impossibile per norma, dato che l’elevato livello di debito pubblico rendeva già pressoché impossibile il ricorso al deficit per interventi di questo tipo); il difficile negoziato sulla nuova direttiva bancaria dell’Unione europea, con la quale si introdusse il principio del bailin, nel quale l’Italia era completamente isolata tra i 28, stretta in una morsa, tra la necessità di opporsi all’introduzione pro-ciclica di una regola sgradita e l’inopportuni – tà di mostrare ai mercati le debolezze che emergeranno da lì a poco con l’esplosione delle sofferenze bancarie. Aveva uno spirito arguto ed era capace di battute fulminanti, probabilmente merito della passione per Giuseppe Gioachino Belli. Eppure la lunga militanza nell’esercito della Competenza, tra le fila degli Esperti, gli rendeva difficile entrare in sintonia con il senso comune. E quando in televisione difendeva la “burocrazia”, il telespettatore che dall’altra parte dello schermo si irrigidiva sul divano – al pensiero così evocato di lunghe code in polverosi uffici – certo non immaginava che il ministro si sentisse in dovere di difendere quegli alti funzionari dell’Amministrazio – ne che cercano faticosamente di lavorare a un futuro migliore per il paese, spesso tra gli strali della fast politics. Roberto Basso
ADDIO A SACCOMANNI, CIVIL SERVANT ITALIANO DALLO SPIRITO EUROPEO
Davide Colombo sul Sole a pagina 14
Colombo sole
Un civil servant di tradizione bocconiana. Fabrizio Saccomanni, 76 anni, morto ieri in una località di vacanza, aveva militato in quel partito trasversale di europeisti convinti che negli anni della costruzione dell’Unione monetaria vide tra i suoi protagonisti uomini come Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa. Era talmente preso dal progetto europeo che nel 2003, come lui stesso dichiarò, in dissidio con l’euroscettico Antonio Fazio, decise di lasciare la “sua” Banca d’Italia per diventare vicepresidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo dei Paesi dell’Europa centroorientale. Fu Mario Draghi a richiamarlo a Palazzo Koch dopo questo periodo di “esilio” all’estero, e gli affidò l’incarico di Direttore generale, ruolo che ricoprì per due mandati dal 2006 al 2013, avendo visto sfumare la nomina a governatore che lo stesso Draghi nel 2011, in procinto di passare alla guida della Bce, aveva sostenuto davanti al Consiglio superiore della Banca d’Italia. Il governo Berlusconi puntava su un altro candidato: Vittorio Grilli, all’epoca direttore generale del Tesoro. Nessuno dei due uscì vincitore e la scelta cadde su Ignazio Visco. «La Banca è in buone mani», commentò Saccomanni in un’intervista all’Espresso di qualche settimana dopo, e liquidò la sua mancata nomina come «una grave ingiustizia commessa per futili motivi». Uno degli appellativi più ricorrenti scelti in virtù della sua lunga carriera internazionale era quello di «ministro degli Esteri della Banca d’Italia». Aveva rappresentato la Banca nei lunghi anni dei negoziati per la costruzione dell’Unione monetaria e non gli dispiaceva sentirselo dire, come è capitato ancora in questi mesi in qualche presentazione del suo ultimo (fondamentale) libro “Le crepe del sistema” (Il Mulino), un’appassionata analisi dell’eredità della Grande crisi e il progressivo indebolimento delle istituzioni della cooperazione internazionale. Per Saccomanni, compagno di corso in Bocconi di Mario Monti, la politica era sinonimo di servizio pubblico. E con quello spirito accettò di entrare nel governo di Enrico Letta come ministro dell’Economia. Toccò a lui, nel giugno del 2013 dare la notizia più bella: la chiusura della procedura di infrazione per deficit eccessivo e il ritorno dell’Italia nel gruppo dei Paesi virtuosi dell’Unione. In via XX Settembre arrivò con lui anche il nuovo Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, un altro collega di Bankitalia, e fu sua la prima nomina di un commissario alla di Davide Colombo spending review: scelse Carlo Cottarelli, tecnico che aveva conosciuto nei cinque anni passati al Fondo monetario internazionale. Schietto, sincero, dall’inconfondibile accento romano e con la battuta sempre pronta, Saccomani era un appasionato di musica classica e lo scorso dicembre era stato nominato presidente del Cda della Filarmonica della Scala. I membri del Direttorio e tutto il personale di Bankitalia hanno espresso profondo dolore per la sua scomparsa ma tutto il mondo della politica e della finanza ieri gli ha tributato un commosso omaggio. «La Repubblica gli è riconoscente per i servigi prestati e partecipa al cordoglio per la sua morte» ha scritto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ne ha ricordato i numerosi incarichi in Banca d’Italia e l’impegno assunto come ministro: «Seppe esprimere anche in quell’occasione il rigore della sua formazione di economista, unito a integrità e comprensione dei fenomeni sociali». Infine l’ultimo impegno, alla presidenza di UniCredit, ricordato dall’amministratore delegato Jean Pierre Mustier. Appena due giorni fa Saccomanni aveva partecipato a Milano alla presentazione del bilancio semestrale: «Con Fabrizio – ha detto Mustier – il confronto è stato di grande stimolo e praticamente quotidiano. UniCredit perde un presidente di grandissimo livello, che ha guidato il consiglio della banca in una fase caratterizzata da sfide impegnative, con grande equilibrio e trasparenza, una visione strategica limpida, un forte senso della direzione di marcia». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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«Pronti a investire fino a 58 miliardi perfavorire crescita e sviluppo del Paese» «Siamo in 60 Stati, anche questo è made in Italy»
GIANFRANCOBATTISTI IL NUMEROUNODI FS
Daniele Manca a pagina 30
Gianfranco Battisti non è uomo di molte parole. Un passato nel gruppo Fiat e poi l’ingresso nel 1998 nel gruppo delle Ferrovie dello Stato lo ha portato oggi a essereil numero uno della società di trasporti.Azienda che ha il primato degli investimenti nel nostro Paese. Le cifre raccontano un impegno che nei prossimi cinque anni raggiungerà i 58 miliardi. Di questi 42 in infrastrutture tra opere ferroviarie (28 miliardi), strade (14), treni e bus (12). Numeri che danno la dimensione di quanto siano strategiche e snodo essenziale per lo sviluppo del Paese le Fs. Battisti si è fatto carico anche di un rilancio non proprio semplice di una compagnia come Alitalia con la visione di mettere assieme treni e aerei, facile a dirsi meno a farsi. Ma anche qui con la convinzione che iltrasporto intermodale (che mette in comunicazione cioè i diversi sistemi) sia fondamentale per un Paese come l’Italia che deve poter disporre di infrastrutture logistiche che facciano da supporto all’industria manifatturiera. Senza dimenticare però le enormi potenzialità legate al turismo, facendone anzi un volano di sviluppo. Legatoaquel patrimonio, vero e proprio giacimento ancora quasi tutto da esplorare, rappresentato dalle città, dai luoghi, dai monumenti, dalle testimonianze della storia passata che sparsi per il territorio devono essere riconnessi e resi accessibili a un turismo mondiale che questo ci chiede. Da un anno Battisti è alla guida del gruppo, ma alle spalle ha 21 anni di lavoro nelle Fs a tutti i livelli. Quello di cui va più fiero dopo un anno da amministratore delegato fa uscire l’anima del ferroviere.Il profilo basso— dice—di chi vuole far parlareifatti. «Aver portato la puntualità reale dell’Alta velocità dal 50% all’80% è la cosa che mirende più orgoglioso». Che significa puntualità reale? «Quella che il cliente percepisce. Adesso ho davanti a me un enorme monitor, in tempo reale mi dice che l’indice di puntualità è dell’80,6%. Sui treni regionali è del 92%, sui treni cargo 65%. Aver guadagnato 30 punti sull’Alta velocità è un risultato straordinario, ma ancora migliorabile. È il nostro biglietto da visita fondamentale per il rapporto con i clienti innanzitutto. E per la nostra credibilità in Italia e all’estero». Quale estero? «Ogni tanto sfugge il fatto che siamo presenti in 60 Paesi con 71 società. Che in Gran Bretagna dovremmo aver vinto proprio in queste ore un’altra gara. Ma anche che in consorzio gestiamo le linee 3, 4, 5, 6 della metropolitana di Riad. Che a Johannesburg stiamo creando il principale polo intermodale in Sud Africa. Che progettiamo le linee ferroviarie inSerbia, Romania. Possediamo quelle greche. Anche questoèmade in Italy». Un tempo la capacità di creare infrastrutture, si pensi alle grandi dighe nel mondo, era punto di vanto per il nostro Paese. «Non “era”, “è” un punto di vanto. Stiamo partecipando a programmi a Los Angeles per 10 miliardi di dollari eaWashingtonper 12. Trump ha detto che nei prossimi anni negli Stati Uniti verranno investiti 1000 miliardi di dollari in infrastrutture». In infrastrutture non solo in treni. «Anche qui si sottovaluta come le Fs siano un gruppo che fa treni, ma anche strade, partecipa a progetti per le città intelligenti. Riqualifica intere porzioni di città. Pensi solo a Milano e alla riqualificazione degli scali, un progetto da un milione e 300 mila metri quadri che contribuirà alla grande trasformazione urbanistica della città. SempreaMilano a PortaRomana verrà poi costruito anche il villaggio per le Olimpiadi del 2026. Per rimanere nel nostro Paese. Ma si calcola che nei prossimi 15-20 anni gli interventi in infrastrutture ferroviarie e stradali varranno nel mondo qualcosa come ventimila miliardi di euro». D’accordo ma tutto questo non distrae dal core business deitreni? «Affatto. Anzi. La priorità delle priorità per me rimangono i treni regionali peri pendolari in Italia». Ma questo come si combina con il resto? «Il puntoèproprio questo. Sinora si è ragionatoacompartimenti stagni. Da quando ho ricevuto il nuovo incarico, avendo trascorso 21 anni in questo gruppo ho capito che andava cambiato l’approccio. Non dovevamo offrire solo un servizio il migliore possibile, ma occuparci delle persone conipropri bisogni mettendole al centro del nostro modello di sviluppo». Sì ma concretamente? «Concretamente sono 600 nuovi convogli dei quali 239 anticipati entro il 2023 per un valore complessivo di6miliardi .Eiprimi sono già entrati in servizio in Emilia Romagna. L’86% della domanda è concentrata proprio nel trasporto regionale. Ecco perché è importante proprio nel trasporto regionale migliorare il modello di offerta. Abbiamo iniziato mettendo il servizio di assistenza alla clientela dedicato ai pendolari nelle principali stazioni, security e customer care sui treni a maggior domanda assumendo circa 2 mila nuove persone. Ma dietro tutto questo c’è un nuovo modello di business». Quale? «L’intermodalità. Occuparsi di mobilità significa capire che i clienti non devono avere un servizio da stazione a stazione ma “doorto door”, da punto di partenza a punto di arrivo. E che nel tragitto potranno usare diversi mezzi. Vanno messi in rete stazioni, aeroporti e porti come porte di accesso al Paese attraverso treni, aerei e bus». Insomma ci sta dicendo che siete entrati nell’avventura Alitalia perché cambiava il modello di business anche di Fs? Nessuno però al mondo lo fa. «All’Italia serve questo approccio. Un turista che da New York vuole andareaFirenze avrà un biglietto unico, atterrerà a Fiumicino, e troverà un Freccia rossa che lo porterà in centroaFirenze. Una semplicità che potrà aiutarlo ad aver voglia di visitare anche Siena, Pisa. Pensi, che abbiamo collegato attraverso un sistema di accessibilità diffuso 252 destinazioni in Italia a forte vocazione turistica. E questo va incontro anche all’esigenza di redistribuireiflussi turisti oggi troppo concentrati sulle destinazioni tradizionali come solo Roma, Firenze, Venezia». E quando cominciate? «Il 15 settembre dovremmo fare l’offerta affidandoci a un management solido». Ma sarà sostenibile per Fs il rilancio di una compagnia che tantoècostata ai contribuenti? «Siamo con la prima compagnia al mondo che è Delta, con Atlantia che è una delle maggiori al mondo nel suo settore, dobbiamo metterci di impegno per non riuscire. Anche perché noi pensiamo ai passeggeri, ma non dimentichiamo che siamo la seconda manifattura d’Europa e che quindi merci e logistica saranno anch’essi volano di sviluppo». Ma la logistica italiana è così frammentata. «Sì, c’è troppa polverizzazione, 16 mila imprese sono troppe. E intercettare solo il 16% del mercato è poco. Dobbiamo diventareipiù grandi. Per questo avremo 100 nuovi locomotori, 714 nuovi carri. E non mi accontento certo di una puntualità al 65%. Come vede gli investimenti in infrastrutture pagano due volte, nel momento nel quale si fanno e quando messi in opera agevolano l’intera economia». ©
4 truffati
Banche, sì airimborsi aitruffati: 6 mesi perle domande La Lente di Diana Cavalcoli L a lunga attesa dei risparmiatori truffati dalle banche è finita. Potranno chiedere il rimborso. Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha firmato il decreto che fissa i termini perla presentazione delle domande al Fondo Indennizzo Risparmiatori (Fir). Uno strumento istituito dalla legge di bilancio 2019 che conta una dotazione di 1,5 miliardi di euro. «Il decreto—spiega ora il Mef — dovrà essere registrato dalla Corte dei conti». Ma cosa fare per chiedere il rimborso? Per consentire l’erogazione delle prestazioni del Fir, le domande devono essere inviate entro 180 giorni dal giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale. Possono accedere al Firi risparmiatori, i piccoli imprenditori e le microimprese. Le richieste corredate dall’idonea documentazione possono essere inviate esclusivamente in via telematica utilizzando i moduli presenti sulla piattaforma informatica gestita da Consap. Soddisfatta anche l’Unione nazionale consumatori. «Bene, ottima notizia. Si chiude, finalmente, un lungo percorso», ha detto il rappresentante legale dell’associazione Corrado Canafoglia. ©
Banche fallite il decreto indennizzi arriva al traguardo.
Rosaria Amato su Repubblica a pagina 30
Amato
Via libera agli indennizzi per i risparmiatori truffati dalle banche: ieri, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha annunciato la firma dell’ultimo dei decreti di attuazione del Fir, il Fondo da un miliardo e mezzo di euro istituito dall’ultima legge di Bilancio. Tutti gli interessati, gli ex azionisti e obbligazionisti delle banche poste in liquidazione coatta amministrativa dopo il 16 novembre 2015 e prima del 1° gennaio 2018, hanno adesso 180 giorni di tempo (a partire dalla pubblicazione di quest’ultimo decreto sulla Gazzetta Ufficiale) per registrarsi sulla piattaforma informatica gestita dalla Consap, allegando la documentazione richiesta, che serve a dimostrare di aver subito un danno ingiusto (la legge parla di «violazione massiva») a causa del mancato rispetto degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza, buona fede oggettiva e trasparenza. L’annuncio di Tria arriva con un notevole ritardo rispetto ai tempi previsti (alcune associazioni venete si erano già organizzate per i festeggiamenti per il 3 agosto, con una “Festa mondiale del risparmio indennizzato”, che è stata rinviata) ma viene accolto con molta soddisfazione dalla quasi totalità dei risparmiatori: «Il governo ha mantenuto la parola, ora molte persone potranno dormire meglio la notte», commenta Patrizio Miatello, dell’associazione trevigiana Ezzelino III da Onara. Molto critico, invece, il Codacons: «Migliaia di piccoli risparmiatori truffati attendono giustizia da ben 6 anni — obietta il presidente Carlo Rienzi — e la firma tardiva del decreto ministeriale porterà i rimborsi ad essere erogati tra molto tempo, non prima della primavera del 2020». Al Mef si intestano il successo dell’operazione sia il sottosegretario leghista Massimo Bitonci, che parla di «promessa della Lega mantenuta», che il sottosegretario grillino Alessio Villarosa: «Il M5S è coerente — rivendica — avevamo promesso le giuste tutele ai risparmiatori e mi sono impegnato in prima persona per realizzarle». Entrambi ricordano le ultime modifiche alla normativa, che hanno permesso di ampliare la platea dei beneficiari dei rimborsi automatici (riservati a chi non supera i 35 mila euro di reddito o i 100 mila di patrimonio mobiliare).
5 Fca Peugeot
Cinesi in uscita da Peugeot, ipotesi Fca Dongfeng verso la cessione delle quote del costruttore francese,sul mercato andrebbe il14%
Il gruppo cinese Dongfeng pare deciso ad uscire dal capitale del costruttore francese Psa (detiene il 14,1%), per monetizzare l’acquisizione fatta nel 2014, quando Dongfeng era entrata in Peugeot insieme allo Stato francese. A quel tempo iltitolo della casa transalpina valeva 7,50 euro, mentre ieri, alla Borsa di Parigi, le azioni sono quotate circa 20 euro. Chi potrà acquistare questa partecipazione? Carlos Tavares, capo da cinque anni di Psa (include i marchi Peugeot, Citroën, DS e Opel, quest’ultimo in attivo dopo venti anni di rosso e 19 miliardi di perdite accumulate), recentemente ha dichiarato: «Staticamente penso che ci saranno altre opportunità di alleanze». La stessa affermazione è stata fatta da Mike Manley, ceo di Fiat Chrysler, confermata anche dal p residente John Elkann. La famiglia Peugeot è nella società con una quota del 14,1% e tra i clan Elkann/
Corriere pagina 31
lsls
6 alitalia
Nuova Alitalia, dubbi su Delta e si rifà avanti Lufthansa
Voli, alleanze e royalties Vacilla lo schema di newco tra Atlantia, Fs e gli americani. I tedeschi sarebbero disponibili a rivedere il piano di tagli al personale
Su Repubblica a pagina 30
Alitalia
Quaranta giorni per salvare Alitalia prima che si esauriscano le risorse residue del prestito ponte e del ricavato dei biglietti dei voli estivi. Il tempo stringe mentre c’è da decidere il piano industriale, un tema delicato che potrebbe far riemergere da dietro le quinte l’alternativa Lufthansa. I tedeschi starebbero solo aspettando un passo falso di Delta. Che in queste ore, assieme a Fs e Atlantia, deve decidere il nuovo assetto di Alitalia. La linea aerea Usa che dovrebbe entrare nella newco con un impegno compreso tra il 10 e il 20%, ha di fatto escluso il vettore romano dalla nuova joint venture transatlantica Blue Skies, che però resta forse l’unica ragione per allearsi con Delta. «Alitalia — accusano i sindacati del personale di bordo della federazione che unisce Anpac, Anp e Anpav — è oggi ridotta a partner irrilevante in Blue Skies, l’accordo commerciale fra Delta, Air France-Klm e Virgin Atlantic sottoscritto per rafforzare la presenza nei collegamenti verso il Nord America». Ed è stata di fatto sostituita da Virgin «a conferma dell’inadeguatezza del top management che va cambiato» dicono con rabbia i sindacalisti che hanno sempre guardato con favore ad un ingresso soft e a esuberi zero di Lufthansa. Come se ciò non bastasse, Delta ha impostato il progetto di rilancio puntando sul taglio del medio raggio di Alitalia e di alcuni voli intercontinentali e portando una buona fetta dei collegamenti dall’Italia verso Parigi, la casa dell’alleato Air France-Klm di cui gli americani hanno il 10% del capitale. Un accordo a senso unico che lascerebbe solo le briciole dei collegamenti di lungo raggio al nostro Paese e in particolare allo scalo di Fiumicino, gestito dalla controllata di Atlantia, Aeroporti di Roma. Altro nodo che andrà presto sciolto riguarda le percentuali dei compensi richiesti da Delta per “permettere” ad Alitalia di sopravvivere e volare sulle ghiotte — ma ridotte al lumicino per quantità — rotte dall’Italia al Nord America: questi accordi ormai residuali sulle royalties, secondo indiscrezioni, arriverebbero fino al 30%. Un salasso che accanto al taglio di una ventina di aerei della flotta Alitalia rischia di vanificare qualunque ipotesi di rilancio favorendo unicamente gli americani e in parte Air France. Altro tema sul tavolo proprio quello del rinnovo della flotta. Gli aerei col tricolore hanno un’età media di 13 anni mentre il concorrente Ryanair si ferm a 8 anni e easyJet 7. Ecco perché queste tensioni, a 40 giorni dalla partenza della Nuova Alitalia, rischiano di alimentare le incertezze e i dubbi sul bisogno di mantenere in piedi un accordo con il partner statunitense che cerca di girare il piano industriale a proprio favore. Una partita a poker che sta riaccendendo i motori di Lufthansa: i tedeschi, secondo quanto apprende Repubblica, sarebbero ancora disponibili a scendere a patti rispetto alla proposta (bocciata dal governo) fatta lo scorso anno. Al punto che alcuni ambasciatori del vettore tedesco starebbero provando a riallacciare il dialogo. Un dialogo che troverebbe favorevoli la Lega e alcuni sindacati di categoria, a patto di azzerare i tagli draconiani alla forza lavoro. L’ultimo scoglio da superare riguarda il nome dell’amministratore delegato: un bel problema visto che intorno ad Alitalia c’è il deserto e nessun manager di settore, al momento, è pronto a scommettere su una compagnia in perenne stato comatoso. Inoltre, si sta ragionando sul mantenimento all’interno del perimetro della nuova compagnia dell’handling, il servizio bagagli, mettendo in salvo 3.500 posti di lavoro. Altri lavoratori potrebbero mantenere l’occupazione se dovesse maturare l’ipotesi della creazione di un importante polo per la manutenzione. I tempi però restano strettissimi. E Alitalia rischia di concludere la sua storia nel peggiore dei modi, come tante altre compagnie blasonate in crisi fallite (quasi) sempre a fine estate o allo scoccare dell’autunno quando scarseggiano i passeggeri.
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ESTERI
1 fiamme
Fiamme tra i missili nucleari L’estate nera dell’armata russa Nuovo incidente in una base militare: due morti e timori perla fuga diradiazioni
Incidente ● Ieri si è verificato un incendio nella base russa di Nyonoska, regione di Arcangelo, dove vengono condotte ricerche sui motori dei missili intercontinentali destinati ai sottomarini
Corriere p.12
Ancora fiamme in una base militare In Russia è allarme fuga radioattiva L’incidente nel poligono sul mar Bianco dove vengono assemblati i missili per i sommergibili atomici Due morti e sette feriti. Il giallo del rilascio di radiazioni: il ministero della Difesa corregge le autorità locali
Repubblica a pagina 14
2 Olga
Olga “Noi giovani non abbiamo paura. Cambieremo Mosca”. Nelle manifestazioni per le elezioni libere, la 17enne Misik si è messa a leggere i diritti sanciti nel Paese ed è stata fermata. “Finire in cella non è un grande prezzo per la libertà. Volevo solo ricordare le nostre libertà fondamentali: la libertà di parola, il diritto alle riunioni pacifiche, a eleggere e a essere eletti Il mio sangue ribolle per la volontà di cambiare le cose. Non so se passerà con l’età, ma ora come ora ho più che mai voglia di combattere. Sarà pure una velleità d’adolescente ma io sono pronta a dedicare la vita alla causa di una Russia libera e, se necessario, a sacrificarla”. Rosalba Castelletti su Repubblica a pagina 15.
Olga
Olga Misik tornerà a sfilare lungo le strade moscovite anche domani. Anche a costo di essere portata di nuovo in carcere. «Non è un prezzo così alto da pagare per i diritti e le libertà». Dice con la fiducia acerba dei suoi 17 anni in una Russia «libera e giusta». E la convinzione che «noi giovani possiamo fare tutto, cambiare il mondo e costruire un futuro più luminoso». Come quando, il 27 luglio, si è seduta gambe incrociate sull’asfalto e si è messa a leggere la Costituzione, incorniciata da una falange di minacciosi agenti con i loro grotteschi caschi antisommossa. Lo scatto che l’ha resa simbolo di una resistenza pacifica e democratica. Senza fucile, senza pietre. Solo la legge fondativa della Russia post-comunista che oggi manganella e ingabbia inermi dimostranti contro l’esclusione di candidati indipendenti dalle prossime elezioni moscovite. Una protesta che ha il sapore di una favola. La bambina contro i giganti, come la Nobel Malala Yousafzai o la coetanea Greta Thunberg. Come mai hai deciso di leggere la Costituzione alla manifestazione? «Volevo ricordare quali sono i nostri diritti fondamentali. Ho letto l’articolo 29 sulla libertà di parola, il 31 sul diritto alle riunioni pacifiche, il 32 sul diritto di eleggere ed essere eletti che era anche il motivo principale di quella protesta. E poi ancora l’articolo 3 secondo cui il popolo è l’unica fonte di potere nello Stato, l’articolo 21 sul divieto di tortura, altro tema spaventosamente attuale. E infine l’articolo 42 sull’obbligo di custodire l’ambiente. In Siberia bruciano le foreste, ma per le autorità spegnere gli incendi non è “economicamente vantaggioso”». Non hai ancora l’età per votare. Perché ritieni così importanti le elezioni moscovite di settembre? «Perché le conseguenze mi riguarderanno. La Duma di Mosca regola la vita nella capitale, decide a cosa assegnare i fondi. Avere deputati onesti influisce sulla vita di tutti. È anche diventata una protesta di principio: dimostriamo che non intendiamo sopportare l’illegalità che piace tanto alle autorità». Ci sono stati oltre mille fermi nel quarto fine settimana di proteste. Che cosa temono le autorità? «Sono in un tale vicolo cieco che hanno letteralmente paura di tutto. Perfino di una minorenne con la Costituzione in mano. Per non parlare dei cittadini in strada pacifici e disarmati: sono l’incarnazione degli incubi del sindaco Serghej Sobjanin». Come ti sei avvicinata alla politica? «È con la manifestazione del 9 settembre 2018 contro la riforma delle pensioni che è iniziato il mio percorso. Paradossalmente, fino a un giorno prima, la politica non mi interessava. Ma da allora non mi sono mai voltata indietro». Fai parte del movimento “Bessrochka”, Protesta perpetua. Qual è il suo obiettivo? «Bessrochka è una protesta pacifica decentralizzata. Non ha struttura, né partecipanti o leader, ha solo sostenitori: è ciò che lo distingue da altri movimenti. La sostanza è che non si deve smettere di manifestare neanche per un minuto, non si abbandonano le manifestazioni dopo che sono finite e bisogna fare costantemente qualcosa per il bene della rivoluzione. Chiunque faccia una di queste cose, senza volerlo diventa attivista di Bessrochka. Anch’io ci sono capitata per caso, giusto perché sostengo qualsiasi iniziativa. Abbiamo canali su YouTube e Telegram, una pagina Facebook e diverse chat. Lo slogan è: “Non ci fidiamo dei politici, ci fidiamo di noi stessi”». Come mai, così giovane, avevi sentito il bisogno di protestare contro la legge sulle pensioni? «Il mio sangue ribolle per la volontà di cambiare le cose. Non so se passi con l’età, ma ora come ora sono più che pronta a combattere». A quante proteste hai partecipato? «Dieci. Ma la mia protesta non si ferma mai, nemmeno per un minuto. Mi dedico all’attivismo e alle campagne online. Inventiamo in continuazione qualcosa di nuovo, partecipiamo ai picchetti e organizziamo mini-proteste». E quante volte sei stata fermata? «Quattro. Il 12 giugno alla protesta a sostegno del giornalista Ivan Golunov, il 26 luglio mentre distribuivo volantini, il 27 perché indossavo l’uniforme di Bessrochka e infine sabato scorso mentre tornavo a casa la sera. Ai poliziotti non è piaciuto che sia corsa alla loro vista». Che cosa rischi dopo i fermi? «Il totale dell’eventuale multa è di 650mila rubli (9mila euro, ndr), ma sono sicura che non dovrò pagare tutto: i fermi erano illegali, i verbali sono stati redatti in modo errato e i rapporti della polizia erano falsi». Non hai paura? «Non ho paura né di arresti, tribunali, multe, scontri con la polizia né di essere torturata o sbattuta in una cella. Sfortunatamente, tutto questo è prassi frequente in Russia. L’unica cosa che mi preoccupa è la salute di mia madre. È sfinita dai miei continui problemi legali. I miei genitori non approvano il mio attivismo. Mio padre è un putinista». E i tuoi coetanei? «La maggior parte dei miei amici mi sostiene, mio fratello minore è molto orgoglioso di ciò che faccio». Non tutte le reazioni sono state positive… «La Russia non è un Paese amichevole. Molta gente ha iniziato a inventare le balle più stupide su di me. E mi sorprende moltissimo questa brama di distruzione anziché di creazione. Di me parlano persino i principali “propagandisti”, come il corrotto “giornalista” Vladimir Solovjov. Però devo dire che tutto sommato ci sono più parole buone e oneste che cattive e ingannevoli». Senti il peso di essere diventata tuo malgrado un simbolo? «Sabato scorso camminavo sull’Arbat e ho sollevato la Costituzione come simbolo della mia protesta personale. Solo dopo un po’ mi sono accorta di guidare una folla. Eppure mi sembrava tutto così normale». Vuoi diventare giornalista. Ti ispiri a qualcuno? «Vorrei dire alla gente la verità, vorrei cambiare il mondo con l’aiuto delle parole. Non ho modelli né in politica né nel giornalismo. Mi entusiasma solo l’idea di una me stessa migliore». In che Russia vorresti vivere? «Una Russia libera e giusta». Che cosa può fare la tua generazione per cambiare le cose? «Possiamo fare tutto. Il futuro appartiene ai giovani. Siamo pronti a costruirlo. Non abbiamo paura. Io sono pronta a dedicare la mia vita a questa causa e, se necessario, a sacrificarla. Sarà pure una velleità giovanile, ma morire per un futuro più luminoso è la migliore morte e il miglior futuro che io possa sognare».
3 Il szoldato che leggeva Grosman
Il soldato che leggeva Grossman. Ucciso a 19 anni, shock in Israele. Dvir Sorek stava rientrando nel kibbutz religioso dove studiava. L’esercito avvia una maxi caccia all’uomo. Con lui aveva libri appena acquistati. Lo scrittore: “So bene come soffre la famiglia”. Esultano Hamas e Jihad. Vincenzo Nigro su Repubblica a pagina 16.
Nigro
Ritornava da Gerusalemme nel suo insediamento in Cisgiordania. Portava con sé i libri che aveva acquistato, alcuni testi religiosi per i rabbini della sua scuola. Ma fra le braccia stringeva anche un altro libro, l’ultimo di David Grossman, Con me la vita gioca molto. Dvir Sorek, un giovane soldato-studente religioso israeliano di 19 anni, è stato ucciso a coltellate nella notte fra mercoledì e giovedì mentre rientrava nella sua colonia nei Territori palestinesi. L’assassinio di un ragazzo che tutti descrivono come una giovane colomba, un esempio di virtù e pacifismo e che rischia di infiammare le lunghe settimane che rimangono fino alle elezioni del 17 settembre. Dvir mercoledì sera rientrava a casa, nell’insediamento di Ofra, pochi chilometri da Gerusalemme; attraversava i Territori palestinesi che Israele occupa ormai da anni. A mezzanotte i suoi genitori avvertono la polizia: «Dvir non è rientrato, non ha avvertito, non è mai successo». L’esercito lo ritrova alle 2.30 del mattino, a poche decine di metri da un altro insediamento storico, quello di Gush Etzion, il corpo trapassato da molte coltellate. L’esercito e i servizi di sicurezza partono immediatamente, lanciano una caccia all’uomo come decine e decine di volta hanno fatto. Un altro colono ebraico ucciso nei Territori palestinesi, un’altra vittima di una catena di sangue che da decenni non risparmia ebrei e palestinesi. Nessun gruppo terroristico rivendica l’omicidio, anche se immediatamente Hamas e la Jihad palestinese esultano per il colpo, usano la morte di Dvir per lanciare i loro messaggi. »L’attacco dimostra il fallimento di Israele nell’ostacolare la nostra resistenza», dice Hamas. Immediato parte il coro dei capi politici israeliani: sono sotto elezioni, e non possono mostrare nessuna incertezza sull’omicidio di un giovane studente di una yeshiva, una scuola talmudica. Il premier Benjamin Netanyahu, che in mattinata inaugura la costruzione di altre 700 case in un insediamento anche questo in Territorio palestinese, dice che «le nostre forze di sicurezza non si fermeranno finché non avranno trovato i colpevoli di questo atto di terrorismo». Benny Gantz, l’ex capo dell’esercito che ora guida il primo partito di opposizione a Netanyahu, se possibile è ancora più duro, deve dimostrare di saper essere violento con i terroristi: «Faccio le mie condoglianze alla famiglia di Dvir Sorek, i nostri soldati daranno la caccia e prenderanno i terroristi. Vivi o morti!» Il copione è noto. Tutti i capi dei partiti, i ministri e gli ex ministri israeliani lanciano i loro messaggi di “guerra al terrore”, messaggi di forza per rassicurare i loro concittadini elettori. Ma chi conosceva Dvir racconta la storia di un soldato che non era ancora inserito nell’esercito, che rientrava a casa vestito da studente rabbinico, in borghese, e senza armi. Il direttore della scuola religiosa, Kenneth Brander, lo ricorda con parole di pace: «Dvir era un ragazzo meraviglioso, pieno di talento: era un poeta, un musicista, devoto alla natura, un giovane uomo che credeva fosse necessario trattare ogni essere umano come Dio ci ha insegnato, non importa quale religione segua». I suoi compagni di scuola diffondono un comunicato per dire che «noi continueremo a credere che bisogna costruire lo Stato di Israele seguendo l’idea di amore per Israele e di amore per l’umanità». Tutti descrivono il giovane come un ragazzo mite, studioso, uno dei 7 figli di Yoav, il direttore di una rivista storica ebraica, e di Rachel, un’artista. Suo nonno materno, il rabbino Benjamin Herling, fu uno dei promotori del movimento dei coloni ebraici: anche lui fu ucciso, nel 2000, in un attacco di militanti palestinesi. E nonostante questo la famiglia aveva continuato a vivere nei Territori palestinesi, seguendo lo stile di vita impostato a una stretta osservanza dei principi religiosi ebraici. Per ultimo parla lo scrittore David Grossman, lui che 13 anni fa ha perso un figlio in una delle guerre che Israele ha combattuto in Libano. Lui che scopre che quel ragazzo fra le mani aveva ancora il suo libro. «Non lo conoscevo, ma da quanto ho capito era un ragazzo che diffondeva luce attorno a sé, che era illuminato, che aveva uno spirito da artista. So bene cosa attende adesso la sua famiglia, lo so per esperienza personale», aggiunge Grossman. E il riferimento è al figlio scomparso in Libano. «L’immagine di lui che abbraccia il mio libro mi spezza il cuore».
4 Libia
Il ministro Trenta e i soldati in Libia
I missili che sfiorano gli italiani “sono molto precisi”. Sospiro di sollievo!
Sul Foglio a pagina 3
Ieri il Foglio ha fatto notare che il contingente italiano in Libia è sfiorato dai missili sparati dalle forze del generale Haftar contro l’aeroporto di Misurata e il governo (si fa per dire) da Roma non pronuncia nemmeno una sillaba a proposito. I bombardamenti su quel luogo sono già stati tre in dieci giorni e colpiscono a cinquecento metri dai soldati. Il contesto è una guerra civile che sconvolge il paese e in cui i governi stranieri si intromettono molto volentieri con aiuti militari. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, in mattinata ha risposto con una dichiarazione che conferma tutto, anche se usa una definizione – “base italiana” – che il ministero della Difesa aveva finora evitato con accortezza perché la missione italiana si occupa di un ospedale da campo e non vuole sembrare altro. Comunque ecco la dichiarazione: “Negli ultimi due giorni gli aerei del generale (Khalifa) Haftar hanno colpito anche l’aeroporto di Misurata, dove si trova la base italiana. Si tratta di attacchi molto precisi, che non hanno coinvolto in alcun modo gli italiani e il nostro ospedale e tale precisione indica che certamente non siamo noi l’obiettivo degli attacchi. Noi non siamo un target per nessuna delle due fazioni”. Dopo la dichiarazione siamo rincuorati. Si tratta di attacchi “molto precisi, che non ci prendono di mira”. Droni cinesi pilotati da militari degli Emirati Arabi Uniti bombardano nel cuore della notte aerei cargo che trasportano armi e munizioni in prossimità del contingente italiano, ma adesso sappiamo che la cosa non ci riguarda. Il C-130 che doveva rifornire gli italiani non è riuscito ad atterrare ed è tornato indietro, ma tiriamo un sospiro di sollievo: non siamo noi il target per nessuna delle due fazioni. Ci chiediamo se altre nazioni tollererebbero la situazione. In pratica siamo al grado zero della politica italiana in Libia. Da qui si può soltanto risalire. Sparano sopra la testa ai soldati, ma confidiamo che i libici abbiano una buona mira e si ammazzino tra loro senza colpire il nostro contingente.
5 Usa
Usa, retata anti-migranti Arrestati 700 irregolari. Blitz in Mississippi Mentre trump era a el paso. Decine di bambini separati dai genitori Si dimette la sottosegretaria Breier
Stampa pagina 11
6 frigo solidale
Parigi ha un cuore Contro gli sprechi c’è il frigo solidale
Un’idea per conservare il cibo avanzato che così diventa accessibile ai poveri. Parla l’ideatrice
Su Repubblica a pagina 17.
7 portogallo
L’antipopulismo del Portogallo fa ingolosire gli investitori
Micol Flammini sul Foglio a pagina 3
portogallo
Il 2018 è stato per il Portogallo il terzo anno di crescita consecutivo, la nazione cresce e diventa sempre più appetibile per gli investimenti stranieri nel suo essere una piccola e virtuosa anomalia europea. Ha un forte governo socialista che probabilmente, secondo i sondaggi, verrà riconfermato dopo le elezioni che si terranno a ottobre, è stato attraversato da una profonda crisi economica – con il rapporto deficit/pil che nel 2011 sfiorava l’11 per cento e la disoccupazione era al 17 – dalla quale è uscito, senza far troppo rumore, dopo tre anni di austerity. Oggi il Portogallo è una storia europea di successo in tanti settori, anche nella gestione dell’immigrazione. Il governo di António Costa, durante la ripresa, si è anche trovato a dover affrontare il problema della forza lavoro, il paese ha un tasso di natalità tra i più bassi in Europa e in costante calo (1,31 nascite per donna nel 2016) e, mentre il Portogallo cominciava a riprendersi, mancavano le energie per far ripartire l’economia. La possibilità di accogliere migranti è parsa per il governo socialista come una soluzione e nel 2015, quando la Commissione europea chiese ai paesi membri che ciascuno si assumesse le sue responsabilità e accogliesse migranti, Lisbona rispose che era pronta a far entrare quattromila rifugiati. Nel 2017 ne aveva accolti 2.951 e a tenerli sul suo territorio, in un paese in crescita ma non ricco, aveva anche fatto fatica: secondo il rapporto Relocation and Resettlement, emesso dalla Commissione, dopo 18 mesi, molti cercavano di nuovo di cambiare paese. L’immigrazione tuttavia è stata un tassello importante nel rilancio dell’eco – nomia e, ora che la situazione è più stabile, che il rapporto deficit/pil è sceso allo 0,5 per cento e che il paese cresce dell’1,7 per cento – più della Germania – il Portogallo sta iniziando ad attrarre tutto un altro tipo di immigrazione: investitori che vedono nella crescita e nell’at – teggiamento aperto del paese nei confronti degli stranieri un’opportunità. Per attrarre gli investitori stranieri la nazione ha anche iniziato a offrire agevolazioni fiscali, adottando un sistema che in altri paesi europei è visto come controverso, ha deciso di dare dei “visti d’oro” ai cittadini di paesi terzi che spendono più di cinquecentomila euro per acquistare una proprietà o che creano posti di lavoro. In questo modo ha attirato brasiliani, israeliani, americani e russi, affascinati non soltanto da questi privilegi fiscali. Come spiega il Financial Times sono anche il clima sociale e politico a fare del Portogallo una meta attraente per imprenditori. Il paese ha il tasso di criminalità più basso d’Europa, un fattore che di recente ha richiamato l’atten – zione di migliaia di immigrati dal Brasile che invece ha uno dei tassi di omicidi più alto al mondo, ed è considerato libero da divisioni generate da populismo, nazionalismo e sentimenti anti immigrazione. Per chi decide di investire in Unione europea, stabilità politica e pace sociale sono tra i criteri più importanti tra quelli che vengono presi in considerazione dagli imprenditori. António Costa, il premier socialista, è dato dai sondaggi al 40 per cento e il suo partito con ogni probabilità vincerà di nuovo le legislative di ottobre. Questo crea un clima di affidabilità e dà anche sicurezza di stabilità. La pace sociale, l’apertura della nazione e la sua impermeabilità al populismo sono considerati dei vantaggi competitivi. Lo scorso anno il numero di residenti stranieri è arrivato a 93.000 e i progetti di investimenti diretti sono stati valutati intorno ai 3 miliardi di sterline nel 2018, il livello più alto da un decennio. Micol Flammini
7 kashmir
Niente web né corrente Kashmir isolato dal mondo «Arrestati 500 attivisti» `Strade deserte e negozi chiusi dopo la fine dello status speciale decisa dall’India. Modi: «Era la base del terrorismo pakistano». Islamabad blocca i collegamenti ferroviari con Dehli. Ma punta sulla diplomazia: «nessuna guerra». Messaggero a pagina 12
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GIUSTIZIA
1 Fuori e di nuovo dentro
NUOVA FINE PENA: 2027 Sbagliati i calcoli, ritorna in carcere il boss Paviglianiti
LALIBERTÀ del boss è durata meno di 48 ore. Domenico Paviglianiti, 58enne, uno dei capi storici della ’n d ra n – gheta reggina, uscito dal carcere di Novara lunedì per un guazzabuglio giudiziario, è stato ripreso ieri dai carabinieri con un intervento svolto in collaborazione con la polizia. “Vi state sbagliando – ha detto – perché io per i giudici sono un uomo libero: ci sono calcoli precisi che mi danno ragione”. Il “boss dei boss”, come lo chiamavano le cronache degli anni Ottanta e Novanta, era così sicuro di sé che non si era ancora mosso da un bed&breakfast a Torino. Fino a lunedì scorso Paviglianiti era un ergastolano. Poi un giudice di Bologna, accogliendo uno dei ricorsi che gli avvocati difensori non hanno smesso di inoltrare fin dal 2015, lo ha trasformato in un condannato a trent’anni. Nel 1999 Paviglianiti era stato estradato dalla Spagna (fu catturato tre anni prima): le autorità iberiche aveva dato il via libera a condizione che l’uomo non fosse sottoposto a una “carcerazione a vita”. Roma dovette fornire una serie di garanzie. Secondo gli ultimi calcoli il fine pena è nel 2027. Così è scattato il nuovo arresto.
Fatto a pagona 8
2 Rossi e arezzo
Bonafede: “Via Rossi da Arezzo, immagine alterata su Etruria” Le motivazioni del parere negativo sul procuratore capo che indagava sul pad re della Boschi ed era consulente del governo: “Condotte inopportune e avventate”
Fatto pagina 8
3 omicidio stradale
L’omicidio stradale a Bergamo e il ruolo del gip. L’ennesimo caso di cronaca mistificato dalla giustizia populista di Salvini. Ermes Antonucci sul Foglio a pagina 2
Omicidio stradale
Roma. Il vicepremier Matteo Salvini ha criticato pubblicamente la decisione del gip di Bergamo di scarcerare e porre agli arresti domiciliari l’uomo accusato di aver travolto e ucciso, lo scorso sabato notte ad Azzano San Paolo, due giovani ragazzi di 18 e 21 anni che viaggiavano su uno scooter, dopo una lite in discoteca. Il gip ha riqualificato l’ipotesi di reato a carico dell’uomo da duplice omicidio volontario a omicidio stradale aggravato dall’omissione di soccorso. “Una persona che uccide due giovani è già fuori dal carcere dopo nemmeno quattro giorni. Una decisione che lascia sconcertati e offende le famiglie delle vittime”, ha scritto Salvini sui propri profili social. “E’ pro – prio vero che serve una riforma della giustizia che preveda la certezza della pena”, ha poi aggiunto il leader della Lega, spazzando via in un colpo solo secoli di conquiste di civiltà giuridica nel nostro paese e inventando un nuovo principio del diritto penale populista: la certezza della pena durante le indagini. Evidentemente per un ministro dell’In – terno abituato a mettere continuamente alla gogna chi è accusato di aver commesso reati (specialmente se immigrato) è normale concepire l’indagine come la semplice anticipazione della pena e non una fase in cui, come previsto dal nostro ordinamento, al massimo possono essere adottati provvedimenti di custodia cautelare quando necessari. Nell’interrogatorio di convalida dell’ar – resto, l’uomo (che è stato anche trovato positivo all’alcol test) ha fornito la sua versione dei fatti: “Ho sentito un botto e sono andato nel panico, non volevo uccidere”, ha raccontato riferendosi al lunotto posteriore della sua auto, frantumato lungo la strada (non si sa ancora da chi e come) dopo avere lasciato la discoteca e prima di travolgere i due ragazzi in scooter. Ancora non è chiaro se il vetro sia stato rotto durante la lite da uno dei due amici poi deceduti. Alla luce delle prime indagini e della versione fornita dall’uomo, il gip di Bergamo ha ritenuto che non ci fossero elementi sufficienti per provare la dolosità della condotta e ha così riqualificato l’ipotesi di reato in omicidio stradale aggravato, concedendo gli arresti domiciliari. Ovviamente non siamo di fronte ad alcuna sentenza definitiva, come Salvini vorrebbe far intendere, ma soltanto a una decisione di carattere cautelare e temporanea, peraltro suscettibile di cambiare nelle prossime ore se dovessero emergere elementi utili dal prosieguo delle indagini, ad esempio dall’autopsia sul corpo dei due giovani che verrà effettuata venerdì. Anche nel caso in cui pm e giudice delle indagini preliminari dovessero rintracciare nuovi elementi a carico dell’uomo, sarà comunque il processo a chiarire le dinamiche dell’incidente e le responsabilità penali, come previsto in un normale Stato di diritto, anche se ciò pare inaccettabile per i cultori della giustizia “fast food”, come Salvini, impegnati a individuare subito il colpevole ogni qualvolta vi sia un caso di cronaca pur di raccattare like sui social. Se usassimo la stessa logica, per giunta, dovremmo considerare già colpevoli le oltre novemila persone che – stando ai dati dello stesso ministero della Giustizia – sono detenute nelle carceri italiane e ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Ma l’idea che più fa rabbrividire è che la Lega intenda riformare la giustizia italiana sulla base di un inarrestabile desiderio di giustizia sommaria e con l’annientamento dei diritti fondamentali degli indagati e imputati.
Letture
5 Prodi Ottanta anni
Intervista a Romano Prodi. «In Italia vedo troppi solisti serve un leader che unisca»
Parla l’ex premier e presidente della Commissione Ue: «Così non si va avanti»
«Ho ancora la speranza che l’Europa cambi il mondo, ma gli artefici ora sono Usa e Cina». Non siamo riusciti a liberare la globalizzazione dalle diseguaglianze sono preoccupato ma non pessimista. La molla di un paese è la fiducia e noi la stiamo perdendo. I segnali sono il crollo demografico e la fuga dei migliori. La mia vita politica? Rifarei tutto. Qualche sorpresa c’è stata: sconfitto non da avversari ma da amici. Non sono spaesato, coltivo rapporti sono sempre curioso. Festeggiamenti? Li ho fatti per i 50 anni di matrimonio.
Mario Ajello sul Messaggero a pagina 11
ajello
P rofessore, compie 80 anni. Festeggia con la sua tribù? «Si festeggia una volta all’anno. E ho già festeggiato i 50 anni di matrimonio». Quindi, niente? «Gli 80 anni sono per me oggetto di riflessione«. Si possono avere 80 anni in molti modi. Quello nostalgico, quello recriminatorio, quello improntato alla serenità… «Lamia è senz’altro lamodalità numero tre. Con il riconoscimento che siamo stati una generazione fortunata. Io studiavo a Milano, e lì mi sono laureato nei primi anni ‘60 alla Cattolica in giurisprudenza con l’economista keynesiano Siro Lombardini, e non c’era dubbio, tra di noi, che Milano avrebbe superato New York». Così non è stato? «Avevamo l’idea che l’Italia e il mondo sarebbero diventati migliori, che ci sarebbe stato uno sviluppo senza sosta. Siamo stati una generazione fortunata, perché avevamo questo tipo di convinzione». Quindi il suo attuale approccio sereno è una sorta di eredità genetica? «Certamente. Non riesco ad essere del tutto pessimista». Neanche preoccupato? «Questo, sì. La società che pensava di diventare migliore di New York non solo non lo è diventata ma oggi ha paura di tutto. L’idea di Ulivo e l’idea di Europa sono state eredi e espressioni del mio ottimismo personale e generazionale. Nonostante tutte le difficoltà, c’era l’idea che con l’Ulivo si potesse cambiare l’Italia e che con l’Europa possa cambiare il mondo. Quest’ultima speranza mi è rimasta». Gli anziani spesso si abbandonano alla deprecatio del presente. Lei griderebbe mai: o tempora omores? «Ma figuriamoci. Il problema è quello di diventare anche noi protagonisti del cambiamento, non demonizzarlo. Io credo che se riusciamo ad essere uniti in Europa possiamo ancora partecipare alle grandi trasformazioni del mondo. Abbiamo però poco tempo per imparare a guidare anche noi le innovazioni in corso. Gli artefici del cambiamento per ora sono americani e cinesi». Dica la verità, non si sente un po’ smarrito in questo tempo in cui le categorie a cui era abituato – la forza della cultura o lo spirito di solidarietà – sembrano veniremeno? «Smarrito? No. Perché leggo, scrivo, cerco di capire. Sono curioso come una scimmia». Anche le scimmie possono sentirsi spaesate. «Non è il mio caso. Ogni cosa che accade attira la mia attenzione. Pensi che io, al contrario, di molti coetanei sono uno che non rilegge i libri della gioventù o della vita. Tranne quando servono». Esempio? «Tucidide. Ho appena riletto la Guerra del Peloponneso, per vedere se davvero vi è una similitudine tra Atene e Sparta – l’una come potenza arrembante e l’altra come forza stabilizzata – e la Cina, arrembante, e gli Stati Uniti, stabilizzati. E mi auguro che stavolta le cose finiscano in maniera diversa: cioè con la pace e non con la guerra». Ciò non significa però non essere spaesato o non sentirsi superato. «Spaesato vuol dire rompere i rapporti. Io li coltivo. Con gli amici di sempre a Bologna e nel resto d’Italia, con gli studenti, con i vicini di casa, con i colleghi politici, con i leader, soprattutto stranieri. Negli ultimi 15 giorni ho avuto incontri con giovani che mi spiegano le innovazioni tecnologiche. Persone intorno ai 30 che hanno nel sangue il cambiamento. Cerco di capire da loro e con loro le conseguenze sociali e globali di ciò che sta accadendo. Quanto agli aspetti tecnici delle innovazioni, mi astengo: quelli non li capirò mai». E che cosa sta capendo? «Che la prima conseguenza di ciò che sta accadendo è l’aumento delle diseguaglianze. Abbiamo contribuito a creare la globalizzazione, che è stato un fenomeno positivo, ma non siamo stati capaci di liberarla dall’aumento delle diseguaglianza. La chiave del futuro è avere coscienza che un cambiamento così iniquo non può durare all’infinito». Non teme che questa sia una preoccupazione figlia soprattutto della sua cultura di base, del suo cattolicesimo democratico? «No, è una grande preoccupazione generale, mondiale. Poi ci sono le preoccupazioni europee. La prima è il crollo demografico. Mi fa particolarmente impressione perché significa sfiducia nel futuro». E l’Italia? «La fuga di molte delle energie migliori è il problema più serio. La differenza tra il mio dopo laurea e oggi è anche in questo. Pure noi andavamo all’estero, a studiare e a fare esperienze, ma sapendo che ci andavamo per poi tornare in Italia. E la speranza di tornare c’è sempre stata nei nostri emigranti. La molla di un Paese è la fiducia e noi la stiamo perdendo». Non teme, come accade a molti anziani, specie se intellettuali, di diventare un trombone? «Oddio, spero di no. Anche se non si sa mai. Io posso salvarmi da questo, perché cerco di suonare poco e sempre in orchestra». In politica, non sarebbe stato meglio se avesse fatto di più da solo, senza ascoltare troppo i partiti di sinistra in guerra tra di loro e contro di lei? «Rifarei quello che ho fatto. Il problema dell’Italia è cantare in coro, non avere dei solisti. Ce ne sono anche troppi. E come vediamo in queste ore, non leggono nemmeno lo stesso spartito. A questo punto, mi viene in mente la “Prova d’orchestra” di Fellini. Crisi o non crisi, andando avanti così non si va da nessuna parte». La ferita politica che le sanguina ancora è quella dei 101 pugnalatori sulla via del Colle? «Non è una ferita. Avevo fatto bene i miei conti e sapevo di non avere possibilità. Naturalmente qualche sorpresa c’è stata, perché i no sono stati più del previsto. Nella mia vita politica non ho mai ricevuto sconfitte a causa degli avversari, ma sempre da parte degli amici». Lei e la classe dirigente di cui fa parte non avete cambiato l’Italia. La delusione è fortissima? «Non provo delusione, prendo atto. Nel mio privato sono felice e tranquillo. Per quanto riguarda la sfera pubblica, sono preoccupato perché alla speranza collettiva si è sostituito un messaggio per illudere l’oggi e non per preparare il domani». Lo vede che in fondo è pessimista? «Il pessimista pensa che le cose non cambino. Io invece constato i cambiamenti ma ne vedo anche le tante criticità. Oggi credo che in Italia, per rendere concreta una speranza collettiva, occorrerebbe un leader morale non necessariamente politico. Servirebbe qualche grande pensatore, qualche grande scienziato, una figura nella quale riconoscersi». Uno che unifica? «Sì. Perché la società si è radicalizzata troppo. Quando vado in giro, tantissima gente mi abbraccia e dice di rimpiangere il passato. Ma tanti mi insultano. Né l’una né l’altra cosa accadevano negli anni scorsi. Perciò dico che ci vuole qualche figura che unifichi, che impersonifichi l’intera società». Lei, da ottantenne, prega più di prima? «Se mi sta chiedendo se il senso religioso agisce in me con più profondità di prima, le rispondo di sì».
Gli 80 anni di Prodi l’unico leader a sinistra che ha vinto le elezioni L’inventore dell’Ulivo che ha battuto Berlusconi una volta e mezza. La passione per l’Europa e il fattore C. Il Quirinale perso per gli errori di Bersani e Renzi. Nella partita per il Colle mandato allo sbaraglio dal Pd Una carriera senza scandali. Filippo Ceccarelli su Repubblica a pagina 10
Ceccarelli
Oltre agli auguri per i suoi 80 anni, se non suonasse un po’ retorico si potrebbe sostenere che Romano Prodi merita anche un grazie per come li ha vissuti al servizio della politica; e se servisse a qualcosa, questo 9 agosto sarebbe pure l’occasione buona per riconoscere che forse gli spettano addirittura delle scuse. Tanto vale allora cominciare da queste ultime, usurpandole a nome del centrosinistra nelle sue varie stagioni e terminazioni nervose; scuse per non aver saputo approfittare fino in fondo dell’intelligenza e del senso pratico del Professore, della sua visione, della sua competenza e della sua placida solidità umana, col bel risultato di averlo trattato, in cronologica sequenza, prima come un intruso, poi come un rompiscatole fissato, quindi come uno da togliersi dalle scatole; salvo poi ancora invocarlo come il messia, quindi di nuovo come uno scocciatore da levare di mezzo, pussa via, finendo così per aver fatto di chi era senz’altro il migliore leader su piazza una figura-chiave nella quale, senza colpa, ma certo ai suoi danni, meglio di chiunque altro si rispecchia il fallimento della sinistra di governo in Italia e un po’ anche in Europa, amen. Ottant’anni, comunque, e ben vissuti, nonostante tutto. Fin da quando il bimbo Romano, figlio di cattolici che abitavano in un appartamento di proprietà del Pci (A Reggio Emilia poteva accadere), e che aveva nove fratelli e per questo dovette imparare il prima possibile a parlare, ma anche a stare zitto, vide nel cortile di casa le prove delle cerimonie comuniste per la morte di Stalin; e presto si comprese che sarebbe stato per sempre un primo della classe, però aperto, curioso, la parrocchia, il catechismo, i viaggi; una guida morale come don Pippo Dossetti, un maestro come Nino Andreatta; e il prima possibile divenne un professore di economia, però viva – distretti, piastrelle, lavoro, contratti – senza astrattezze né spocchie accademiche; insomma, una carriera folgorante, l’Inghilterra, l’America, il Mulino, i consigli a De Mita, al Papa, poi perfino alla Goldman Sachs, e oggi ai russi e ai cinesi. Ministro mezzo tecnico e mezzo democristoide a poco più di trent’anni; una moglie-compagna per nulla vistosa, ma decisiva, e impegnata nel sociale; vacanze con famigliona-tribu nella casona con letti a castello, calciobalilla e concerti domestici, figli scout, Bologna insieme piccola e grande. Quando il 9 agosto di 25 anni orsono, appena tornato da un pellegrinaggio ciclistico a Compostela, an nuncia il suo impegno politico nell’Italia berlusconizzata, Prodi non è esattamente un frullino del potere. È stato due volte presidente dell’Iri, lì ha negoziato con Cuccia, ha detto no a Craxi, né luciderà “le maniglie di casa Agnelli”. «Lo chiamano Mortadella – dice Bettino – ma è il più duro di tutti». Aspetto un po’ goffo, pronuncia marcata, ma spiccatissima comunicativa, scrivono che “gronda bonomia dagli artigli”, cauto, spiritoso, permaloso, vendicativo. Intuisce l’Ulivo, fa correre il Pullman, a tutt’oggi resta l’unico che ha battuto una volta e mezzo Berlusconi, anche se nel 2006 è un pareggio, e il secondo governo un calvario. Ma prima, con Ciampi, taglia il traguardo dell’Europa. Tra le due esperienze la guida della Commissione europea, anche lì gioie e dolori, in ogni caso un rango che pone Prodi al di sopra di qualsiasi altro statista – e mai macchiato, tocca aggiungere, da scandali di Prima, Seconda e Terza Repubblica. A un certo punto si diffuse la voce che portava fortuna, donde il celebre “fattore C”. Ma è un assunto più che discutibile, considerato il logoramento cui lo sottopose D’Alema, le continue liti e bizze degli “alleati”, la fregola obamiana di Veltroni, la dabbenaggine con cui Bersani lo mandò allo sbaraglio sul Quirinale e infine la superbia autolesionista di Renzi. Osservato con gli occhi di oggi, e un filo di inevitabile malinconia, si può ragionevolmente far pesare che tuttora il Prof incarna una politica – e a suo modo anche un potere – che si connota come quanto di più antico e lontano dalla brutale esibizione del proprio ego nevrotico oggi all’ordine del giorno. In nessun altro leader come in Prodi i contenuti e la competenza ancora prevalgono sull’immagine, la visione internazionale sull’esteriorità e l’improvvisazione, la prudenza, la pazienza e l’ostinata trattativa sulla battutona social, la laicità sul bacione al crocifisso e la Madonna del telefonino, l’equilibrio e la misura sull’odierno ballo di San Vito. E se 80 anni sono tanti, alla luce di questo elenco la speranza è che siano anche pochi.
7 curve
Cambio di rotta. Questa è l’estate del trionfo curvy. Tutti hanno diritto a essere rappresentati. Prima eravamo emarginate, adesso siamo l’ago della bilancia. Da mercato di nicchia, la moda “morbida” è dilagata e tra i brand è una corsa all’inclusività. Non sempre sincera.
Srena Tibaldi su Repubblica a pagina 27.
Le curve
«Non sono un momento. Sono una forza da non sottovalutare». Dice così la ventiduenne rapper americana Chika mentre, in reggiseno e slip Calvin Klein (foto in alto), se ne sta sullo stesso divano su cui, 25 anni fa, era stata ritratta una giovane e nuda Kate Moss (per la cronaca, era la campagna del profumo Obsession). Ma tanto era eterea Kate e tanto è massiccia Chika, a sorpresa protagonista dello spot per la lingerie del marchio. Il succo però non cambia: entrambe sono state scelte perché rompono gli stereotipi. In questo il brand ha dimostrato un notevole tempismo, perché se è vero che da tempo si discute su un’idea di bellezza più universale di quel che è stato sinora, è adesso che le cose stanno davvero cambiando. Questa è l’estate del trionfo curvy. Basta guardarsi attorno: da mercato di nicchia che era, la moda “morbida” sta dilagando; in teoria perché era il momento di andare oltre certe convenzioni, in pratica perché funziona tanto nella comunicazione quanto a livello commerciale. Difficile farne a meno. «In passato la moda si basava sull’essere esclusiva, per pochi. Ora, più persone veste un brand e più è desiderato», spiega l’antropologa Simona Segre Reinach, autrice del volume The size effect. E cosa c’è di più inclusivo di un ideale che va oltre la taglia campionario? «Un cambiamento epocale per un sistema che ha sempre esaltato la taglia 40». Per tornare a Chika, si capisce anche come mai questa rivoluzione abbia colpito il mondo dei costumi da bagno e della lingerie: lì i corpi sono scoperti e, di conseguenza, esaltati. Il messaggio è forte anche per questo. Il tema offre molto da dire e da fare, nel bene e nel male. Rientra nel primo caso l’ultima Swimsuit Issue della rivista Sports Illustrated, sinora basata sull’assioma “fanciulla filiforme, meglio se bionda, in tanga su una spiaggia”. Di fronte al calo d’interesse tra i più giovani, molto attenti a certe tematiche, la testata già nel 2016 aveva tentato di mettersi in pari mettendo in copertina Ashley Graham, star della moda curvy. Quest’anno sono andati oltre: ci è finita la 45enne curvilinea Tyra Banks, e nello stesso numero hanno trovato posto, tra Halima Aden in burkini e Paulina Porizkova, 54 anni, ben tre modelle formose: la bionda Hunter McGrady, la polinesiana Veronica Pome’e e Tara Lynn, considerata una delle icone del settore. «Tutti abbiamo diritto a essere rappresentati. Dove prima eravamo considerate una nicchia, adesso siamo l’ago della bilancia: facciamo la differenza», conferma Tara. Ma c’è pure chi ha capito troppo tardi la portata del fenomeno, e ne paga le conseguenze. È di pochi giorni fa la notizia che Victoria’s Secret, il colosso della lingerie e dello swimwear “sexy”, non produrrà più la sua annuale sfilata televisiva, affollata di (magrissime) top in completi striminziti e ali da angelo. Colpa del crollo negli ascolti e nelle vendite, originati proprio dal rifiuto del marchio di aprirsi ai nuovi standard: nemmeno un anno fa il direttore marketing Ed Razek tuonava contro le modelle più floride, salvo annunciare poi in pompa magna le prime due testimonial “fuori taglia”, Barbara Palvin e Lorena Duran, rispettivamente una 42 risicata e una 44 abbondante. Non è ovviamente bastato: è di questi giorni l’annuncio che Razek va opportunamente in pensione e il coinvolgimento del brand nello scandalo Jeffrey Epstein — una prossimità inaccettabile in epoca #metoo — è stata l’ultima goccia, che nemmeno l’ingaggio della modella transgender Valentina Sampaio è riuscito a mitigare. Un errore di giudizio grossolano il loro, perché le potenzialità di questo mondo sono evidenti: alla Miami Swim Week, enorme rassegna di moda mare, modelle curvy e “classiche” ormai si equivalgono; uno dei brand che oggi più fa parlare è Aerie, che fa costumi dalla xxs alla xxl, e le start-up promettenti come Third Love e Lively (creata da un’ex dipendente di Victoria’s Secret) puntano alle formose. Resta da capire quanto di questa mobilitazione sia sincera, e quanto frutto del marketing. «Impossibile stabilirlo ora», riflette Simona Segre Reinach. «Solo sulla lunga distanza se ne vedranno gli effetti reali». È d’accordo Tara Lynn: «Ovviamente molti brand si stanno buttando sull’inclusività solo per cogliere il momento, senza un progetto reale. Però, spesso, quest’opportunismo è il solo modo che hanno le minoranze per iniziare a farsi considerare. Quindi, a me sta bene così».
Dolce&Gabbana. “Le nostre donne ideali sono formose: e ora vestiamo anche la 54”.
Su Repubblica a pagina 27.
Non ci sono stati annunci ufficiali, ma la decisione di Domenico Dolce e Stefano Gabbana è suonata come una rivoluzione: d’ora in poi le loro collezioni saranno prodotte sino alla taglia 54, senza alcuna distinzione tra plus size e non. «Proprio perché per noi non c’è differenza tra una small e una large abbiamo deciso di non comunicare la cosa», spiegano i due. «Ricevevamo molte richieste in tal senso dalla Russia, e abbiamo capito che si trattava di un mercato dalle grandi potenzialità in tutto il mondo. C’è poi da dire che le nostre donne hanno sempre avuto corpi dalle curve accentuate. Questa è la femminilità che amiamo e che abbiamo sempre vestito, perciò è la naturale evoluzione della nostra identità».
8 Un paese cattivo
Ritratto di un Paese cattivo
Natalia Aspesi su Repubblica a pagina 34.
Natalia
Ma come è potuto succedere così velocemente? Perché eravamo un Paese quasi normale, col bello e il brutto, e in un paio d’anni siamo diventati un popolo con tutta la ferocia che si vuole dare adesso a questa definizione? L’assalto di insetti sconosciuti, lo scioglimento dei ghiacciai, il mago Merlino redivivo, l’invasione degli ultracorpi come nell’omonimo spaventosissimo film di Don Siegel del 1956? Tutte le risposte fino ad ora non sono convincenti: si vorrebbe che per dare un senso a questa deriva, a questa mutazione forse genetica, forse negromantica, forse diabolica, quel che resta degli intelligentoni, dei professoroni, insomma delle stimabili persone ancora in grado di ragionare, organizzassero un convegno il più possibile scientifico allo scopo di trovare una risposta e una soluzione; ammesso che un tale consesso non in mutande da bagno e senza bambini al di sotto dei 30 anni, non possa essere considerato ‘una nuova fattispecie delittuosa’ da Sicurezza bis e quindi subito sciolto a manganellate. Di manganellate già ne riceviamo da togliere il fiato, più volte al dì: e ogni volta ci indigniamo, ci spaventiamo, gridiamo contro, auspichiamo interventi divini non potendo più contare su quelli umani. Visto che non si sa da che parte cominciare a frenare questo Paese in picchiata, né noi popolino stancamente democratico, né quelli che sarebbero stati votati per farlo ma non ne hanno il tempo perché devono sistemare cose loro più urgenti. È la velocità del disastro che spaventa noi sempliciotti che nulla sappiamo né abbiamo doni profetici come i signori e le signore dei talk show. Stiamo lì a lamentarci per l’ennesima porcata e ormai temiamo che ne arriverà subito un’altra e un’altra ancora, imprevedibile nella sua iniquità. Su Facebook di cui nulla so e non so gestire, ricevo quasi esclusivamente post che potremmo definire di sinistra, o meglio contro ogni parola o azione, sempre riprovevoli, di chi al famoso popolo piace moltissimo. Tutti soverchiati da più sensate ricette alla besciamella, purtroppo pessime, foto di gattini o di luoghi stupendissimi dove c’è chi passa le vacanze, e anche di abiti tutti uguali a basso prezzo, e dialoghi in greco antico e ricordi di concerti per oboe indimenticabili e di inimitabili film anni ’70. Però riesce a farsi strada il dibattito politico, vuoi sarcastico vuoi dolente, tutto contro Salvini, Di Maio, Meloni, Berlusconi: poi sempre da sinistra, contro Zingaretti, Renzi e chiunque osi aprir bocca o post per affrontare la continua apocalisse. Insomma o sei da una parte o NON sei dall’altra. Ci sono delle accanite antidestra che arrivano a criticare Moro perché ‘nessuno va in spiaggia vestito’, ma c’è anche per fortuna chi riporta bellissime dichiarazioni democratiche: però di grandi leader del passato e ormai del tutto straniere. Ma i post antigovernativi, roba facile dato i suoi protagonisti, o cattivi o incapaci, non servono a nulla, soprattutto perché ognuno si lamenta per sé dimenticando l’antica bizzarria dell’unione che fa la forza; ma anche perché pur raffinatissimi martellatori di sghignazzi, troppi si sono lasciati contagiare dalle parolacce e dall’insulto, quando la buona creanza e il pensiero non ridotto a invettiva poteva essere almeno un’ultima spiaggia. Certo c’è ancora qualche innocente che vorrebbe sapere cosa mai hanno fatto di terribile questi immigrati da adesso condannati a morte e i loro ormai impossibili salvatori condannati alla miseria, visto che almeno negli ultimi mesi, fanciulli mascalzoni, maschiacci (e qualche signora nervosa) uxoricidi, imbroglioni e lestofanti, spacciatori, ubriachi e drogati che spiaccicano o sono spiaccicati in auto o assassinano carabinieri, o buttano cassonetti sulla testa di ragazzini, insomma tutti i protagonisti della cronaca nera, sono italiani o comunque bianchi (tranne i tre marocchini italianizzati di scorta agli assassini allo spray della discoteca di Corinaldo). Anche nel delinquere, prima gli italiani! Ormai si prevedono disastri sempre più irrimediabili, e cominciamo ad essere rassegnati, noi che possiamo solo subire: il pensiero che conforta allora è: prima ci autosotterriamo prima ritorneremo alla luce. 20 anni, 30? Vedremo. Il tempo adesso a noi pare scaduto, qualunque sia l’iniziativa, governo horror che continua, governo che cade nell’horror, non tormentateci più. Ci dedicheremo alla caccia alle farfalle, alla rilettura del Manzoni, allo Judo, alle ricette senza besciamella, all’esperanto, ci iscriveremo al gruppo terrapiatta o a quello forse più attuale che sostiene l’estinzione del genere umano. Basta non vedere più la faccia demoniaca del nostro secondo figlio della povera Maria Vergine che chissà come è pentita di quel peccato. Dimenticare. Aspettare. Sperare in nuovi ultracorpi che invadano il Papeete Beach e altri luoghi di culto, per ridare il senno e la vita agli italiani attualmente sostituiti dai famosi non-morti del Trono di Spade.
9 Camus
Camus giornalista in rivolta. Maria Santos-Sainz ha raccolto in un saggio gli articoli del Premio Nobel: “Era un cronista libero, oggi un modello contro le fake news”. È sempre stato dalla parte degli ultimi e degli oppressi. Nei tempi bui diceva: resistere è non consentire menzogne.
Anais Ginori su Repubblica a pagina 37.
Camus
Partiva con il taccuino per fare reportage nelle zone più remote dell’Algeria, raccontava fatti di cronaca e processi, incrociava fonti, denunciava casi di corruzione, scriveva appassionati editoriali e intanto ripensava le regole dell’informazione. Prima di essere scrittore e intellettuale, Albert Camus è stato un giornalista. Un mestiere che ha praticato durante tutta la sua vita. A raccontare il volto meno noto del premio Nobel è Maria Santos-Sainz, docente alla facoltà di giornalismo dell’università di Bordeaux, che ha raccolto e commentato in un saggio lunghi estratti di articoli, tra cui diversi inediti. «La passione e il rigore di Camus sono un esempio ancora oggi» spiega l’autrice che ha dedicato il volume ai suoi giovani studenti e a tutti quelli che ancora sognano di intraprendere questo mestiere. Molti ricordano il Camus editorialista a Parigi, lei invece mostra che la sua carriera nei giornali comincia già prima, in Algeria, come semplice cronista. «Dopo qualche articolo per una rivista studentesca, nel 1938, a soli venticinque anni, entra a far parte della redazione del quotidiano Alger Républicain, chiamato da un collega più anziano, Pascal Pia, con il quale formerà una sorta di sposalizio professionale. Camus gli dedicherà poi Il Mito di Sisifo. Quando il giornale verrà censurato e poi chiuso dalle autorità algerine, si ritroveranno in Francia a Combat, la rivista fondata da un gruppo di resistenti durante l’Occupazione». Che tipo di giornalista era Camus? «È stato cronista di giudiziaria e nera, ha scritto reportage, organizzato inchieste, è stato editorialista ma anche caporedattore e segretario di redazione a Paris-Soir». Quali sono gli articoli più importanti? «Camus è ricordato soprattutto per il suo impegno a Combat che gli aveva procurato dei falsi documenti, si faceva chiamare Albert Maté, per lavorare durante l’Occupazione. I suoi editoriali fanno parte del patrimonio giornalistico non solo francese ma anche europeo. Penso alla serie “Né vittime né carnefici”. Ha parlato della banalità del Male prima di Hannah Arendt. All’indomani della Liberazione ha fatto pubblicare la testimonianza di un sopravvissuto al lager di Dachau. Ed è stato anche uno dei pochi giornalisti occidentali a essere insorto dopo i bombardamenti americani a Hiroshima e Nagasaki. Nel 1939 aveva scritto un Manifesto del giornalista libero». Cosa diceva nel manifesto? «Illustrava quattro comandamenti: lucidità, rifiuto, ironia, ostinazione. La lucidità, spiegava, è la capacità di resistere all’ingranaggio dell’odio e al culto della fatalità. Il rifiuto, continuava, si rende talvolta necessario davanti a quella che chiamava “marea montante della stupidità”. L’ostinazione era per lui una virtù cardinale, insieme all’ironia, straordinaria arma contro i potenti». Aveva tutte queste qualità che ha appena descritto? «Il reportage “Miseria della Cabilia” pubblicato a puntate su Alger Républicain è un buon esempio. Camus era partito per dieci giorni, muovendosi a piedi e in autobus in una delle regioni più remote dell’Algeria. Era il contrario della rapidità che vediamo oggi. Diceva: “Non bisogna arrivare per primi, ma essere i migliori”». C’era anche una forma di militanza nei suoi articoli? «È sempre stato dalla parte degli ultimi, degli oppressi. Non dimenticava le sue origini. Era un giornalista in rivolta, come il titolo di un suo famoso libro. Ma non piegava i fatti alle idee. Le sue cronache sulla povertà della Cabilia erano coraggiose, denunciava lo schiavismo dei coloni nei confronti di queste popolazioni. Sono articoli puntuali, accompagnati da cifre. I prezzi dei generi alimentari, l’importo dei salari, il numero di medici o funzionari. Per me è stato quasi un precursore di quello che chiamiamo data journalism». Quanto il giornalismo ha influenzato i suoi libri? «Il processo raccontato ne Lo Straniero è ispirato a quello dell’affaire Hodent che Camus aveva seguito da cronista per Alger Républicain. Hodent era un funzionario arrestato dopo aver tentato di denunciare la speculazione e la corruzione nel commercio del grano. Camus si era battuto per farlo assolvere, aveva scritto una lettera al governatore di Algeri che per me è dello stesso livello del J’accuse di Émile Zola». Com’era il suo stile? «Asciutto, potente, attento alle parole. “Nominare male le cose, è partecipare all’infelicità del mondo” aveva detto. Utilizzava spesso la prima persona, talvolta si rivolgeva direttamente al lettore per renderlo partecipe. Se faceva un errore, non aveva paura di ammetterlo e correggersi nell’articolo successivo». È un modello ancora attuale? «Dico spesso ai miei studenti: volete ritrovare credibilità e lottare contro le fake news? Leggete gli articoli di Camus. La sua integrità deontologica e morale è un modello. È stato censurato ed espulso dall’Algeria per i suoi articoli da cronista. Dopo essere stato uno degli editorialisti più famosi di Combat ha scelto di andarsene perché la proprietà non era più dei giornalisti e non voleva scendere a patti con altri editori. Era convinto che la qualità di un Paese si riconosca dal valore della stampa. Aveva una bella definizione del giornalismo nei tempi bui: “Resistere è non consentire la menzogna”. Mi sembra ancora d’attualità». Gli ultimi articoli furono pubblicati su L’Express, cinque anni prima di morire. «L’esperienza è durata poco e non è andata bene. La sua posizione sull’Algeria non è stata compresa. È stata la sua ultima esperienza nei giornali. Qualche tempo dopo, aveva confidato all’amico Jean Daniel di avere nostalgia del mestiere. Considerava il giornalismo come una vocazione, non una semplice lavoro».
10 Di maio Termini imerese
IL GOVERNO TERMINI, PLEASE Il disastro Di Maio spiegato con Termini Imerese, a un passo da una morte che si poteva evitare se il ministro non avesse fatto scappare dall’Italia un investitore chiave. Inchiesta
La parabola dell’ex stabilimento Sicilfiat è l’emblema di un processo che ha subìto una brusca accelerata: la deindustrializzazione italiana
Di Maio non ha dato il benestare all’accordo siglato da Invitalia e Blutec per la restituzione dei finanziamenti e un piano industriale
Venne individuato un investitore estero, i cinesi dell’azienda Jiayuan, disposti a investire 50 milioni per il rilancio dell’impianto. Poi la fuga
Gli incompetenti sono riusciti così a far sfumare la firma del memorandum d’intesa prevista per lo scorso 23 marzo
L’inchiesta di Annalisa Chirico sul Foglio a pagina 1
Termini imerese
Esistono molti modi per uccidere una fabbrica: affidarsi agli incompetenti è uno di questi. Termini Imerese non trova pace. La parabola dell’ex stabilimento Sicilfiat, realizzato nel 1970 a pochi passi dal mare, in prossimità dell’autostrada e della ferrovia per agevolare la logistica della cosiddetta “zona industriale”, è l’emblema di un processo annoso che con il governo gialloverde ha subìto una brusca accelerata: si chiama “deindustrializzazione”. E dire che negli anni Ottanta la fabbrica aveva raggiunto i tremiladuecento addetti, oltre il doppio rispetto al primo giorno. Poi il declino. Dell’impianto, del Mezzogiorno, dell’Italia. Se è chiamato ad occuparsi di lavoro e sviluppo economico chi non ha mai avuto dimestichezza né con l’uno né con l’altro, non resta che farsi il segno della croce. A Termini Imerese lo sanno bene gli operai che da giorni protestano davanti ai cancelli dello stabilimento, senza cassa integrazione da due mesi “per problemi tecnici”, si dice, e adesso assistono all’ennesima piroetta dell’ennesimo ministro del Lavoro che annuncia l’ennesima “norma d’urgen – za” per l’ennesima proroga degli ammortizzatori sociali. Luigi Di Maio promette una nuova iniezione di soldi pubblici, a carico dei contribuenti. Senza un progetto, senza una visione. Già questo sarebbe di per sé grave per il governo che ha promesso il “cambiamento”, insieme all’abroga – zione della povertà, e rispolvera invece le peggiori ricette assistenzialiste della Prima Repubblica. Ma nel caso di specie, nel caso di Termini Imerese, c’è di più. Quando nel 2011 Sergio Marchionne chiude lo stabilimento della Lancia Ypsilon ritenuto troppo piccolo, scomodo e poco produttivo, il ministero di via Veneto e Invitalia tentano diversi esperimenti per tenere in vita il polo industriale. Si susseguono una catena di fallimenti, tra avventurismi e scandali vari, fino all’ingresso nel 2015 di Blutec, società del gruppo Metec Stola del torinese Roberto Ginatta, vicino alla famiglia Agnelli (in particolare, ad Andrea e a Lapo Elkann). Il piano è quello di produrre componentistica per auto ibride ed elettriche, i privati siglano un accordo con Invitalia per un piano agevolato di finanziamenti pubblici, il progetto parte ma ben presto si accumulano ritardi e diffide per la mancata presentazione del primo “Sal” (stato avanzamento lavori) al punto di provocare un duro braccio di ferro tra il gruppo e la società del ministero dell’Economia. Nel frattempo, però, si presenta una possibilità concreta per risollevare le sorti della fabbrica: viene individuato un investitore estero, i cinesi dell’azienda Jiayuan, disposti a investire cinquanta milioni di euro per il rilancio dell’impianto. C’è già un protocollo d’inte – sa messo nero su bianco da Blutec e dalla società mandarina, si prevede la firma in occasione della visita di stato del presidente Xi Jinping lo scorso marzo, ma il governo gialloverde, e nello specifico il ministro Di Maio, si lasciano scappare questa opportunità. I cinesi avrebbero prodotto 50mila auto elettriche in tre anni destinate al mercato europeo, Blutec ha definito ogni dettaglio per favorire l’ingresso dell’investitore estero, l’unica fonte di cura è la transazione aperta con Invitalia per la restituzione di circa 21 milioni di euro di agevolazioni concesse. A ben vedere, già da diversi mesi il gruppo torinese ha raggiunto un accordo con Invitalia ma la questione è congelata per la mancata firma del ministro (in)competente, Di Maio. L’ac – cordo stabilisce, in particolare, la restituzione rateizzata dei circa 21 milioni di euro ottenuti come prima tranche del finanziamento agevolato di 95 milioni previsto dal “contratto di sviluppo”. Ai solleciti dell’azienda presso il ministero si aggiungono quelli di Invitalia, come testimoniato dalla missiva del 19 luglio 2018, firmata dall’ad Domenico Arcuri e visionata dal Foglio. “Per come concordato nel corso delle riunioni presso codesto ministero – si legge – le modalità di restituzione sono state oggetto di riunioni tra l’ufficio legale di Invitalia e i legali di Blutec. A seguito di articolate trattative si è addivenuti ad una bozza di accordo che in sintesi statuisce…”, segue l’elenco delle obbligazioni assunte da Blutec per restituire i fondi già incassati e ottenerne di nuovi secondo un nuovo piano industriale. “In ragione di tutto quanto sopra rappresentato – conclude Arcuri – si richiede l’autorizzazione alla sottoscrizione del descritto accordo”. Dal ministero di Di Maio giunge un silenzio tombale. Se il ministro avesse apposto la sua firma, Blutec avrebbe restituito le somme secondo l’accordo siglato con Invitalia che, dal canto suo, avrebbe definito un nuovo contratto di finanziamento modulato sulla base dei nuovi progetti sull’elettrico, quelli alla base della partnership con i cinesi pronti a investire 50 milioni di euro. Ma la storia, com’è noto, non si fa con i “se”. Le cose vanno diversamente. Nessuna firma, accordo congelato, fabbrica in sofferenza fino agli arresti dei manager di Blutec, il presidente Ginatta e l’ad Cosimo Di Cursi, che finiscono ai domiciliari lo scorso marzo (il secondo rientra in fretta dal Brasile per consegnarsi all’autorità giudiziaria). L’inchiesta per presunta malversazione ai danni dello stato colpisce i vertici del gruppo a una settimana dalla visita di stato del presidente cinese Xi che avrebbe dovuto benedire la firma del memorandum d’intesa tra Blutec e Jiayuan. In questi giorni davanti ai cancelli della fabbrica un operaio sulla cinquantina, Vito La Mattina, ha piantato una tenda e vive lì. Non ha trovato ancora il tempo per guardare il video che spopola in Rete, quello del vicepremier Di Maio che, senza un filo di vergogna, spiega il senso del “mandato zero”. Il signor Vito non si è rivolto neppure al locale “navigator”, di redditi di cittadinanza non vuol sentir parlare. “Per oltre venticinque anni ho lavorato in Fiat, sono stanco di fare il cassaintegrato – dice ai cronisti che lo interpellano – Ho degli attestati di specializzazione, mi mandino dove vogliono ma mi facciano lavorare”. Non riesce più a pagare bollette e rate del mutuo, la moglie e i due figli maggiorenni li ha mandati a vivere dalla madre. “Non ho i soldi per fare la spesa. Da quando Blutec ha rilevato la fabbrica – racconta l’operaio – non ho mai lavorato, neppure per un’ora, mai messo piede nello stabilimento perché ormai da cinque anni siamo sempre in cassa integrazione”. Un collega ha intrapreso lo sciopero della fame, un altro minaccia di togliersi la vita. “Si è determinata una situazione di estremo disagio che va sanata subito – si legge nella nota congiunta firmata da Cgil Sicilia e Fiom regionale – Chiediamo al governo nazionale e al Parlamento di votare l’emendamento per la proroga della cassa integrazione dal primo luglio al 31 dicembre, dando séguito all’im – pegno assunto dal ministro Di Maio, finora inevaso”. Le organizzazioni sindacali chiedono inoltre che, entro il 31 ottobre, il commissario straordinario presenti il piano industriale “per rilanciare lo stabilimento e il lavoro dei 670 lavoratori Blutec e dei 300 dell’indotto”. Il clima è rovente, la disperazione brucia. Come spesso accade in Italia, alla conclamata inadeguatezza dei governanti che, dal ministero di via Veneto, avrebbero dovuto gestire con diligenza ed efficacia un dossier così rilevante per centinaia di famiglie e per lo sviluppo industriale del Sud, si è affiancata la tempesta giudiziaria. Lo scorso 12 marzo i finanzieri del nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo eseguono le misure cautelari disposte dal gip di Termini Imerese nei confronti del 72enne Ginatta e di Di Cursi, rispettivamente presidente e ad di Blutec. I due manager sono accusati di malversazione ai danni dello stato per non aver impiegato correttamente la prima tranche di 21 milioni ottenuti per il rilancio dello stabilimento. Viene emesso inoltre un decreto di sequestro preventivo dell’intero complesso aziendale e delle relative quote sociali della Blutec spa, nonché dei patrimoni dei due indagati per un valore di sedici milioni e mezzo di euro. Gli arresti, a una settimana dall’arrivo del presidente Xi, impediscono la firma del protocollo d’intesa con i cinesi di Jiayuan che non rinunciano al dossier ma lo congelano. Il tribunale del riesame di Palermo dichiara l’incompe – tenza territoriale del gip siculo e trasmette gli atti al tribunale di Torino. “Il criterio discretivo della sede effettiva della società – affermano i giudici – è da ricollegare alla necessità di individuare il luogo in cui si perfezionano le scelte dell’organo di gestione che dirige l’impresa, al quale è imputabile l’inadempimento descritto dalla condotta tipica”. Nel caso di specie, Blutec è una società con sede a Rivoli, nel torinese, dove hanno sede gli uffici di Ginatta e di Di Cursi: in quel luogo, secondo l’ipotesi accusatoria, sarebbe stata assunta la decisione di non destinare le somme erogate alle finalità di pubblico interesse cui le stesse erano state specificamente destinate. Anche le misure cautelari vengono annullate dal Riesame che, pur riconoscendo la gravità del quadro indiziario, ritiene insussistente il pericolo di reiterazione del reato essendo Ginatta incensurato, avendo egli manifestato la volontà di restituire il finanziamento concesso ed essendo di fatto impossibilitato a ottenere nuovi finanziamenti pubblici prima della restituzione integrale di quello revocato. Le sue quote in Blutec sono sotto sequestro, e con la nomina dell’amministratore giudiziario si è proceduto alla sua estromissione dalla gestione aziendale. “La rilevata assenza di un’improrogabile necessità di limitare la libertà personale del Ginatta”, senza attendere la decisione del giudice competente, impone l’annullamento dell’ordi – nanza, scrivono i giudici. Ginatta e Di Cursi tornano in libertà. I legali dei due manager respingono “con forza” le accuse. Il gruppo Blutec paga, ogni anno, 65 milioni di stipendi per oltre tremila dipendenti. “Al momento dell’ingresso nel dicembre 2014, nella sola Termini Imerese il gruppo ha investito più di 37 milioni di euro, pagando stipendi per un ammontare complessivo di 17,5 milioni con mezzi propri e senza attingere ad alcuna risorsa pubblica — sosten – gono gli avvocati Michele Briamonte e Nicola Menardo dello studio Grande Stevens — confidando anzi nel supporto doveroso di capitale pubblico per il rilancio del sito secondo i termini e gli strumenti consentiti dalla legge e nell’interesse della collettività”. Di conseguenza, “è molto arduo immaginare una preordinata macchinazione per sottrarre fondi pubblici nettamente inferiori ai costi già ad oggi sostenuti in proprio per la reindustrializzazione del sito e i relativi progetti occupazionali”. La morale di questa storia infinita è che Termini Imerese è a un passo da una morte che si poteva evitare. Di Maio non ha dato il suo benestare all’accordo, siglato da Invitalia e Blutec, per la restituzione dei finanziamenti e per un nuovo piano industriale forte dell’investimento cinese. Gli incompetenti sono riusciti così a far sfumare la firma del memorandum d’intesa prevista per lo scorso 23 marzo, in occasione della visita del presidente Xi a Palermo, ultima tappa del viaggio italiano. Gli arresti e la grancassa mediatica hanno fatto il resto. Per quel che vale, sul piano giudiziario, ad oggi i vertici di Blutec non sono stati neanche rinviati a giudizio: presto o tardi, le accuse, già gravide di conseguenze economiche e sociali, passeranno al vaglio di un giudice, si spera. Nel frattempo i cinesi, che avevano concesso tre mesi al gruppo torinese per calmare le acque e ottenere l’approvazione del ministero di via Veneto, si sono congedati senza tanti convenevoli. Davanti ai cancelli dello stabilimento resta la tenda del signor Vito, l’operaio solitario che risponde alle domande dei cronisti, visto che in questi giorni i ministri, da quelle parti, non si fanno vedere.
Perché Di Maio è fallimentare anche come “cavaliere bianco” di Whirlpool
Alberto Brambilla sul Foglio a pagina 1
Roma. A marzo Luigi Di Maio ha fatto scappare gli investitori cinesi per Termini Imerese, oggi non riesce a convincere quelli americani a restare nella sua Campania. La multinazionale americana di elettrodomestici Whirlpool non ha abboccato all’esca degli incentivi offerti per decreto dal ministro dello Sviluppo economico per lo stabilimento di Napoli e ha detto che venderà comunque il sito per convertirlo a produzioni diverse dalle lavatrici, probabilmente frigoriferi industriali. “Whirlpool non ha mai chiesto al governo alcun tipo di intervento per continuare a produrre lavatrici […] l’unica soluzione per mantenere i massimi livelli occupazionali e garantire la continuità aziendale è dare una nuova missione al sito”, ha detto Alessandro Magnoni, ad dell’area europa e medioriente di Whirlpool, a Repubblica Napoli. Il problema sta nel modo in cui il governo ha deciso di volere convincere l’azien – da con 420 dipendenti nel sito a non abbandonare la regione dalla quale viene Di Maio, originario di Pomigliano D’Arco. Gli effetti della norma possono essere controproducenti. Con il decreto sulle “crisi di impresa” discusso in Consiglio dei ministri martedì vengono concessi fino a 16,9 milioni di contributi addizionali per “le imprese del settore elettrodomestici con un organico superiore alle 4.000 unità e con attività produttive sul territorio nazionale, di cui almeno una in area di crisi industriale complessa”. Il decreto fa in sostanza un ritratto preciso della Whirlpool di Napoli alla quale vengono concessi degli sgravi fiscali. Per come è strutturata, la misura corre il rischio di essere un chiaro aiuto di stato in violazione delle regole europee perché è riferita a un solo soggetto, si potrebbe dire “ad aziendam”. Il concetto di aiuto di stato è la selettività perché non si riferisce a un settore o a un’area di crisi ma altera la parità di concorrenza. L’apertura di una procedura d’infrazione per aiuti di stato da parte della Commissione europea, in un prossimo futuro, non dev’essere allettante per Whirlpool. In caso l’azienda dovrebbe restituire tutti gli aiuti con gli interessi. Un altro problema è l’opportunità di inserire una norma per un’azienda in un decreto dal momento che non si comprendono i motivi di urgenza. E’ eccezionale che un’azienda chiuda o si trasferisca? Quante altre imprese chiudono senza ricevere sostegno dal ministro? La strategia negoziale di Di Maio è stata fallimentare. Prima aggressiva e poi accondiscendente senza avere alcuna garanzia di successo. Nel giro di pochi mesi ha completamente cambiato idea. In aprile aveva minacciato l’azienda dicendo di volere indietro una parte degli incentivi ricevuti dal gruppo negli anni. Whirlpool ha ricevuto 27 milioni di fondi pubblici, a fronte di oltre 800 milioni di investimenti garantiti dal 2014. Dopodiché, al contrario, ha fatto un’offerta che l’azienda non avrebbe potuto rifiutare ma senza avere la certezza che sarebbe rimasta dalla città. “Grazie a queste risorse Whirlpool non potrà dire che se ne andrà da Napoli. Dovrà però onorare gli impegni che ha preso”, ha detto Di Maio. Nell’incontro tra governo, azienda e sindacati del 1° di agosto Whirlpool aveva chiarito che 17 milioni di incentivi non avrebbero dato una risposta alla perdita di 20 milioni l’anno che soffre lo stabilimento. E che non riuscirebbe a riassorbirla nemmeno se costruisse a Napoli i prodotti che ora fabbrica in Cina e in Polonia, ovvero arrivando alla sostanziale saturazione degli impianti. Whirlpool, quotata a Wall Street, a maggio aveva comunicato agli investitori e all’Autorità di Borsa che “intende procedere alla riconversione del sito e vendere l’attività a terzi in grado di garantire continuità industriale e massimi livelli di occupazione” e presenterà un piano a settembre. Non poteva capitare un “cavaliere bianco” più improponibile di Di Maio per soccorrere le lavatrici di Napoli. Alberto Brambilla
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LO ZAR 20 ANNI AL POTERE
Da sconosciuto a inscalfibile Ma il vero rebus è il suo futuro Nominato premier il 9 agosto ’99. La nuova sfida sarà nel 2024: cambierà le regole per ricandidarsi ancora? Angelo Allegri sul Giornale a pagina 10
Giornale
Un rebus avvolto da un mistero, nascosto in un enigma. L’adagio di Churchill sul Cremlino è così vecchio da sembrare usurato. Ma nel tempo a Mosca le cose non sono cambiate molto. Nel momento in cui il potere di Vladimir Putin compie 20 anni, gli interrogativi, insoddisfatti, sono tutti rivolti al futuro: che cosa succederà nel 2024, quando alla scadenza del quarto mandato non potrà più ricandidarsi? C’è chi è pronto a scommettere su una nuova modifica della Costituzione che gli permetta di proseguire nell’incarico; e chi al contrario interpreta gli eventi delle ultime settimane, le proteste di piazza a Mosca con più di mille arresti, come un sintomo di debolezza che potrebbe aprire nuovi scenari. Come al solito quando si parla di Putin, le ipotesi e le voci sono molte, mentre le certezze scarseggiano. La nomina a premier, il 9 agosto 1999, è la conferma di quanto il suo percorso sia costellato di sorprese. Allora, sconosciuto all’opinione pubblica e a gran parte degli osservatori occidentali, fu chiamato alla ribalta dal sempre più malato Boris Eltsin che lo incaricò di gestire una difficile successione. A quattro mesi dalla nomina del nuovo primo ministro, il presidente che amava la vodka anticipò le sue dimissioni, consentendo al delfino di affrontare una campagna elettorale in una situazione favorevole. Putin si sdebitò subito con un decreto che garantiva l’immunità totale al suo scopritore, al centro di un’inchiesta per corruzione. La determinazione mostrata dall’ex funzionario del Kgb contro i guerriglieri ceceni («Li inseguiremo anche dentro il cesso»), soprattutto dopo una serie di attentati nelle città russe, contribuì in modo decisivo alla sua popolarità. Poco importa che le circostanze dell’ondata di terrore non siano mai state chiarite: l’ex spia Litvinenko scrisse in un libro che a mettere le bombe erano stati gli stessi servizi di sicurezza. Quello che conta è che un po’ alla volta Putin dimostrò di essere in grado di far uscire il Paese dal caos degli anni Novanta. Già nel 2002 una band musicale formata tutta da ragazze, portò al successo una canzone in cui ritornello era un inno al presidente: «Voglio un uomo come Putin, che è pieno di forza/Voglio un uomo come Putin, che non beve una goccia»). Ad aiutarlo nella sua ascesa almeno due elementi. Prima di tutto i prezzi delle materie prime internazionali, alti per quasi un decennio, che consentirono all’esportatrice Russia inediti spazi di manovra in campo economico. Poi l’abilità dimostrata nel sostenere l’Occidente (e soprattutto gli Stati Uniti) nella lotta contro il nuovo nemico: il terrorismo islamico. La Russia dilaniata dalle faide tra oligarchi del decennio precedente tornò al tavolo delle Grandi Potenze. Con il tempo qualche nodo è venuto al pettine: la dipendenza dalle esportazioni energetiche continua a essere eccessiva. Il risultato è una stagnazione che condanna il 15% della popolazione a vivere sotto la soglia di povertà (in numeri assoluti il drappello è cresciuto di 500mila persone nell’ultimo anno). Per rimettere in sesto i conti, nel 2018 (proprio in coincidenza, guarda caso, con i campionati del mondo di calcio giocati in Russia) la soglia della pensione è stata bruscamente alzata. Oggi gli uomini possono smettere di lavorare a 65 anni, ma l’età media della popolazione maschile, trascinata verso il basso da alcol e cattive abitudini, è di 67. Anche per questo il gradimento del presidente ha avuto negli ultimi mesi un crollo di circa 25 punti: da quasi il 90% a poco oltre il 60. Sono numeri che renderebbero felice ogni politico occidentale, ma che non bastano agli uomini del Cremlino per sentirsi sicuri. La vicenda del voto per il consiglio comunale di Mosca, previsto per i primi di settembre, è indicativa: i candidati dell’opposizione, già penalizzati da norme che privilegiano i partiti «ufficiali», sono stati in molti casi esclusi dalle elezioni con motivazioni risibili. Le proteste stroncate con la violenza. Per Putin, lo ha detto lui stesso in una recente intervista, il concetto di «democrazia liberale» è tramontato. La sua giornata di lavoro inizia con la lettura del contenuto di tre buste di cuoio: i rapporti quotidiani di Fsb (servizio segreto interno), Svr (spionaggio internazionale) e del Fso, le forze di sicurezza del Cremlino, la sua guardia pretoriana personale.
5 Mare Nostrum
Addio al Mare Nostrum e agli interessi nazionali Francia e Algeria portano le zone economiche esclusive o di pesca a ridosso delle coste italiane
L’ABDICAZIONE DI ROMA
L’Italia non sfrutta le 200 miglia e rinuncia ai suoi diritti marittimi. E gli altri Paesi ne approfittano
Gian Micalessin sul Giornale a pagina 17
Micalessin
Mare Nostrum addio. Nel Mediterraneo l’Italia è pronta alla resa, pronta a piegarsi alle manovre di chi, ignorando gli obblighi negoziali imposti dalle convenzioni internazionali, estende unilateralmente i diritti di sfruttamento di mare e fondali fino al limite delle 200 miglia arrivando a lambire le coste della nostra penisola. Giorgia Meloni recentemente ha riportato l’attenzione su quel trattato di Caen con la Francia che sancirebbe un’iniqua spartizione delle acque del Mediterraneo nord occidentale. L’iniquità, realizzata dopo l’insurrezione dei nostri pescatori, sarebbe all’origine della mancata ratifica del trattato da parte del nostro Parlamento e dei tentativi francesi di imporlo di fatto. Ma quel trattato, seppur indulgente nei confronti di Parigi, è stato – secondo l’ammiraglio in congedo Fabio Caffio esperto di Diritto Marittimo – «il frutto di una lunga trattativa che ha comportato rinunce, ma anche acquisizioni in quelle zone dove il diritto non garantiva una soluzione chiara». Ben più grave sarebbe invece l’inerzia politico diplomatica esibita dall’Italia di fronte al sopruso di un’Algeria che nell’aprile 2018 ha istituito, ricorda Caffio, «una sua Zee con un confine valevole anche per il fondale, che si sovrappone in gran parte alla piattaforma e alla Zpe (Zona di protezione ecologica) italiana a ovest della Sardegna». Per comprendere l’apatia di un’Italia incapace di difendere i propri interessi nel Mediterraneo bisogna partire dalla rinuncia, condivisa da tutti i governi dell’ultimo trentennio, a definire una Zona Economica Esclusiva in campo marittimo. Una rinuncia paradossale per un’Italia a corto di risorse energetiche, ma forte di un’estensione costiera di 7.600 chilometri che, anche senza sfruttare appieno le 200 miglia di Zona Economica Esclusiva (Zee) garantita dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, ci consentirebbe di effettuare prospezioni nei più vari settori del Mediterraneo. A differenza di Francia e Spagna, che hanno definito con chiarezza le loro aree di giurisdizione trasformandole in Zee, l’Italia si è limitata a dichiarare, nel 2011, una zona di protezione ecologica nel Tirreno. Una scelta che confermava già allora l’attitudine ad anteporre i temi ambientali all’interesse economico nazionale. Quattro governi dopo nell’Adriatico, l’esecutivo giallo verde, influenzato dal disfattismo produttivo di un M5S appiattito sui temi ecologici, ha rinunciato alle prospezioni per l’individuazione dei giacimenti di metano. Giacimenti che rischiano così di venir regalati a Croazia, Montenegro e Albania. Ma l’autolesionismo dell’Adriatico è ben poca cosa rispetto all’arrendevolezza con cui subiamo la decisione algerina di estendere da 40 a 180 miglia la propria Zee portandola a lambire le nostre acque territoriali intorno a Sant’Antioco, Carloforte, Portovesme, Oristano, Bosa, e Alghero. Quell’allargamento non concordato mette a serio rischio non solo la novantina d’aziende del settore pesca che operano nella zona, ma tutto quel comparto ittico in cui l’Italia ha rinunciato, negli ultimi 34 anni, a un terzo della propria flotta e a 19.000 posti di lavoro. Il tutto mentre l’aumento del consumo ittico ci costringe a importare l’80 per cento del pesce destinato ai tavoli di ristoranti e famiglie. Qualcuno si chiede, però, chi in Europa possa aver incoraggiato la scelta di un’Algeria che rischiava – agendo da sola – di venir messa all’angolo dall’Unione Europea. «L’obiettivo algerino – a detta dell’Ammiraglio Caffio – non sembra tanto la contestazione delle aree di giurisdizione italiana, quanto di quelle spagnole, la cui legittimità è anche contrastata a nord dalla Francia». L’evidenziarsi di un interesse francese suscita però un inevitabile sospetto. «Nel 1973 la Francia – sottolinea Caffio ricordando l’origine della controversia con Parigi sfociata, dopo quarant’anni di trattative nel contestato Accordo di Caen – propose come soluzione globale, l’adozione di un “punto centrale”…. equidistante tra Francia, Italia, Algeria e Spagna in cui far convergere le delimitazione tra i quattro Paesi. Ebbene, sarà un caso, – continua l’ammiraglio – ma la cuspide della nuova ZEE algerina che s’incunea a occidente del Sassarese sardo, è molto prossima all’ipotetico punto centrale indicato allora dalla Francia. L’Algeria continua in sostanza a considerarsi Stato frontista della Francia, come Parigi aveva ipotizzato decenni fa, ignorando del tutto le coste sarde cui si riconoscerebbero esclusivamente 12 miglia di acque territoriali». Dietro le pretese algerine si muoverebbe, insomma, la lunga mano di Parigi decisa a punirci per la mancata ratifica del trattato di Caen e a imporci surrettiziamente le stesse condizioni da noi rifiutate quarant’anni fa. E sempre la Francia potrebbe aver contribuito a bloccare le manovre di un’Unione Europea chiamata per statuto a difendere gli interessi italiani e spagnoli contrastando anche in sede Onu l’allargamento non concordato della Zee algerina. Di certo, ritrovarsi le trivelle della Sonatrach – e quelle della Total con cui la compagnia energetica di Algeri opera congiuntamente – a 13 miglia dalle coste della Sardegna rappresenterebbe una beffa enorme per un Italia che si è, invece, auto imposta regole severissime per le prospezioni off shore. Ma una doppia beffa sarebbe dover comprare il pesce finito nelle reti dei pescherecci di Algeri attivi in quelle acque del Mediterraneo dove, nel nome della difesa ambientale, abbiamo imposto limiti durissimi ai nostri pescatori costringendoli, in qualche caso, ad abbandonare la propria attività.
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