Buongiorno a tutti. A crisi di governo aperta, scende in campo Beppe Grillo che si schiera contro le elezioni e preme su Di Maio: «Patto contro i barbari». Salvini si dice disposto a lasciare il Viminale «a condizione che si vada subito al voto». Ma si rafforza il fronte per un governo di garanzia. Intervistona di Maria Teresa Meli a Renzi sul Corriere. “Folle votare subito, serve un governo istituzionale, quindi il taglio dei parlamentari e poi il referendum. La priorità è evitare l’aumento dell’Iva. Il Pd? C’è chi vuole le urne per eliminare i renziani. Dei dem non parlo, nelle ultime settimane sono stato attaccato più volte. Se la prendono con il Matteo sbagliato”. Oltre alla crisi in prima anche la fine del miliardario Epstein trovato impiccato in carcere. Buona lettura.
Scende in capo Grillo. Grillo ai Cinquestelle: “Niente voto. Fermiamo i barbari”. Il fondatore torna in campo e non dice no a un esecutivo di salvezza nazionale. Di Maio chiede la riforma sul numero di deputati e senatori. Casaleggio invita a non avere paura né di elezioni né di un nuovo governo (Repubblica p.2). Affondo di Grillo contro le elezioni. E dà il via libera al terzo mandato. Il leader e la linea a Di Maio, sì a nuove alleanze. Fico a Salvini: solo i presidenti convocano le Camere (Corriere p.2). Svolta di Grillo: sì al fronte anti-Salvini. E apre alla deroga sul terzo mandato. Contatti Fico-Franceschini. I parlamentari in chat si rivoltano contro Di Maio a favore del patto con il Pd. Obiettivo dichiarato del fondatore: salvare l’Italia dai “nuovi barbari” (Stampa p.2). Il ritorno in campo del fondatore: «Proteggo i miei oppure è finita». Perché il padre nobile si è ripreso per un giorno un ruolo politico (Corriere p.2). Pierpaolo Sileri senatore Cinquestelle: “Non si può lasciare il Paese in balìa delle elezioni con la legge di bilancio da fare. Di politico irresponsabile, in Italia, ce n’è già uno ed è sufficiente. Sarà necessario darci delle regole che aiutino la convivenza in Parlamento” (Stampa p.3). Grillo dà carta bianca a Di Maio: “Altro che voto…” Il garante del M5S: “Salviamo il Paese dai barbari, i cambiamenti che servono facciamoli adesso (Fatto p.3).
Renzi 1. Maria Teresa Meli intervista Matteo Renzi: “Folle votare subito. Governo istituzionale, taglio dei parlamentari e poi il referendum”. L’ex premier: “la priorità è evitare l’aumento dell’Iva. Il Pd? C’è chi vuole le urne per cambiare i renziani. Nell’ultima settimana sono stato attaccato da membri della segreteria dem, se la prendono con il Matteo sbagliato. La mano va data al Paese più che alla Ditta” (Corriere p.5). More
Maria Teresa Meli sul Corriere a pagina 5
Senatore Renzi ha capito perché Salvini ha rotto?
«Per me Salvini ha paura e non sta bene. Lo si capisce guardandolo in spiaggia, e ascoltandone le farneticanti parole: “Italiani, datemi pieni poteri”. Sembra Badoglio».
Vuole fissare le elezioni al posto del capo dello Stato?
«Vuole convocare il Parlamento al posto dei presidenti. Vuole decidere tutto ma non fa nulla. E mentre è in spiaggia a ballare, a Roma si spara nei parchi pubblici. Ma chi si occupa di sicurezza se non chi lavora al Viminale? Salvini non ha mai avuto il senso delle istituzioni ma ora ha perso anche il senso della misura. Fortunatamente tra poco non sarà più ministro dell’Interno e finirà la disastrosa esperienza del governo Conte».
Addirittura disastrosa?
«Un fallimento. Dicevano: governeremo 30 anni, hanno fallito in pochi mesi. Hanno azzerato il Pil, alzato le tasse e fatto schizzare lo spread. Ma il disastro economico non è la cosa peggiore. Ancora peggio è lasciare un Paese incattivito dall’odio. Mi domando come si possa tacere quando in uno stabilimento balneare del Nord viene impedito l’ingresso a un ragazzo italiano di colore. O quando si sdogana la rabbia verso il volontariato. Salvini ha diffuso il rancore, il sospetto verso l’associazionismo, l’odio contro il diverso».
E ora?
«Andremo in Senato e ci confronteremo. E qui è in gioco l’Italia, non le correnti dei partiti. Chiederò di parlare e dirò che votare subito è folle per tre motivi».
Il primo?
«La priorità è evitare l’aumento dell’Iva. Vanno trovati 23 miliardi di euro. Perché un commerciante deve pagare la recessione che l’aumento dell’Iva comporterà? Che colpa ne ha quel commerciante se Salvini si è stancato di Toninelli? Che Toninelli sia incapace noi lo diciamo da anni. Salvini se ne è accorto solo adesso? Se votiamo subito l’Iva va dal 22 al 25%? Prima togliamo le clausole e poi si vota. Ieri abbiamo bruciato 15 miliardi, lo spread è alto, i risparmiatori soffrono. E con Salvini che chiede “pieni poteri”, i mercati temono l’uscita dall’euro. Si andrà a votare, certo. Ma prima vengono i risparmi degli italiani, poi le ambizioni di Capitan Fracassa».
Servirà una manovra dura.
«No. Presenteremo in Senato le misure che evitino l’aumento dell’Iva, ne ho già parlato con i miei. Essere opposizione non significa solo dire no, ma fare proposte concrete. E il successo della fatturazione elettronica permetterà di recuperare anche sul 2020: la strada per evitare l’austerity c’è».
Il secondo?
«Salvini deve lasciare il Viminale, Conte deve lasciare palazzo Chigi. I due saranno i leader di Lega e Cinque Stelle alle elezioni? Auguri. Ma, sfiduciati, non possono essere loro i garanti elettorali. Facciano la campagna, ma lascino gli uffici pubblici: si trovino un altro modo per pagare i loro mastodontici staff. Si voti con un governo di garanzia elettorale, non con questo».
Il Movimento 5 Stelle vuole prima votare il taglio dei parlamentari.
«E questo è il terzo punto. Considero la riduzione dei parlamentari una riforma incompleta e demagogica. La nostra riforma modificava il bicameralismo, garantiva efficienza, assicurava stabilità. Tuttavia i cittadini hanno deciso, noi abbiamo perso e io mi inchino davanti alla democrazia. Oggi la cosa è semplice: i 5 Stelle hanno scommesso molto su questa riforma. A me non piace. Ma devo ammettere che hanno ragione loro quando dicono che sarebbe un assurdo fermarsi adesso, a un passo dal traguardo. Si voti in Aula in quarta lettura e si vada al referendum: siano gli italiani a decidere».
Diranno che volete allungare il brodo per non mollare le poltrone.
«Votare a novembre con mille parlamentari è più comodo per salvare le poltrone che votare dopo la riduzione. Facciamo politica, non populismo. Qui non stiamo tutelando qualche poltrona, ma i risparmi e le regole».
Ma Salvini…
«Salvini ha accelerato per motivi che noi non sappiamo, ma lui sa benissimo, certo che li sa. Forse i 49 milioni di euro che la Lega ha sottratto agli italiani, forse i rubli chiesti dai leghisti alla Russia come tangente, forse ha finito i soldi per la sua macchina da propaganda sui social. Per questo va sfidato culturalmente, politicamente e elettoralmente. Ma le regole si decidono insieme: non può fare il giocatore, l’arbitro e l’ultrà. Anche perché gli riesce fare solo l’ultrà».
Renzi, proprio lei sta aprendo ai 5 Stelle.
«No. Faccio un appello a tutti. Dalla Lega ai 5 Stelle, da Forza Italia alla sinistra radicale, dalle Autonomie ai sovranisti fino ai gruppi parlamentari del Pd, della cui tenuta non dubito. A tutti. Ci vuole un governo istituzionale che permetta agli italiani di votare il referendum sulla riduzione dei parlamentari, che eviti l’aumento dell’Iva, che gestisca le elezioni senza strumentalizzazioni. Penso che quando Mattarella inizierà le consultazioni una parte dei parlamentari dovrà aver già espresso la propria adesione a questo disegno. Così il presidente potrà valutare l’eventuale incarico a un premier autorevole. A lui toccheranno le scelte: noi dobbiamo consegnargli una ipotesi concreta».
Senatore Renzi, come si spiega l’atteggiamento di Salvini?
«Non me lo spiego. Perché vuol correre? Deve nominare il suo amico Savoini all’Eni? Possibile che nessuno fiati sulla richiesta di tangenti? Salvini deve querelare Savoini: perché non lo fa? Ha paura che vuoti il sacco? Vuole scegliersi il cda di Eni per i rapporti russi? Vuole nominare i vertici di servizi e forze armate? La polizia non è il suo corpo armato personale. Ho difeso il figlio di Salvini perché un ragazzo non merita di essere attaccato per una scelta del padre. Restiamo umani, per favore: quel ragazzo non ha alcuna responsabilità. Ma l’atteggiamento di alcuni agenti con i giornalisti non mi ha convinto: lo ha spiegato benissimo il capo della polizia Gabrielli, che si conferma assieme ad altri una colonna delle istituzioni democratiche. I costituzionalisti sono ancora in ferie, probabilmente: si emozionavano solo ai tempi dell’abolizione del Cnel, oggi stanno zitti. Ma c’è qualcosa di strano in questa ansia da voto di Salvini. E non capisco perché il Parlamento dovrebbe assecondarla».
E il Pd? Zingaretti vuole il voto.
«Nell’ultima settimana sono stato attaccato più volte dai membri della segreteria. Leggo che il gruppo dirigente vorrebbe votare subito perché almeno si cambiano i parlamentari renziani: sono pronti a dare cinque anni di governo a Salvini pur di prendersi i gruppi parlamentari d’opposizione. Nobile motivazione, per carità, ma riduttiva. Stanno ancora una volta attaccando il Matteo sbagliato. Zingaretti dice: Renzi ci dia una mano. Accolgo volentieri l’appello, ma per me la mano va data al Paese più che alla Ditta».
Qual è la cosa di Salvini che l’ha convinta meno?
«Mi ha fatto male vedere la strumentalizzazione della Madonna sul decreto Sicurezza. Nessuno può essere così cinico da speculare sulla fede. Salvini lo è. Anche per questo credo vada sfidato: siamo una democrazia parlamentare, andiamo in Parlamento e vediamo se ci sono i numeri per governare».
Non teme le polemiche per il rinvio del voto?
«Se temessi le polemiche, farei altro. Ma credo sia giusto restituire Salvini ai suoi mojito. E restituire un governo decente agli italiani. Poi si andrà a votare e vincerà il migliore. Ma solo dopo aver evitato l’aumento Iva, ridotto il numero dei parlamentari, garantita la tenuta istituzionale del Paese».
Maria Teresa Meli sul Corriere a pagina 5
Renzi 2. L’apertura di Renzi. “Sì al governo istituzionale. Fermiamo la deriva Papeete e evitiamo l’aumento Iva, possibile la riduzione dei parlamentari”. Ma Zingaretti conferma la richiesta di urne subito: “Abbiamo appena votato contro il dialogo con il M5S” (Repubblica p.3). Mezzo Pd convinto dal governo coi grillini. Renzi pronto a fare la sua proposta. Ma nelle Feste dell’Unità il popolo dem appare contrario all’ipotesi di accordo (Stampa p.2). “Bivio storico Conta il bene del Paese. Se vince Salvini l’Italia sarà fuori dall’Ue”. Parla Stefano Ceccanti deputato vicino all’ex premier. “Governo anche con 5S solo per la Finanziaria. Il nuovo Parlamento eleggerà il presidente della Repubblica nel 2022 e rischiamo un antieuropeista. Zingaretti ha un’idea diversa? Sì, al momento è a favore di elezioni presto, ma ci confronteremo” (Stampa p.3). Massimo Cacciari: “Solo ora Renzi apre all’intesa con i 5 Stelle? Un po’tardi. Ora il rischio è un’Italia fascista. Di Maio però deve farsi da parte, in quel partito l’unica alternativa è Conte” (Fatto p.2). Lombardi, Cinquestelle: “Esecutivo del presidente? Anche con il Pd”. Dopo Salvini possiamo dialogare anche con Belzebù. Il capo politico ha fallito, ora una leadership corale (Repubblica p.4).
Pd. Da «Ebetino di Firenze» a «mai con i grillini» si erano tanto odiati (Messaggero p.4). La guerra giallo-verde si sposta sui social tra meme, fotomontaggi e tormentoni (Messaggero p.6).
Scenari. Taglio dei deputati primo banco di prova. Fico accelera, ma i dem: non lo voteremo (Messaggero p.2). Patto per la legge elettorale ma il Colle resta alla finestra (Messaggero p.3).
Al voto al voto. Prove di inciucio. Renzi resuscita e apre a un governo tutti dentro meno la Lega. Grillo si sveglia e a sorpresa ci sta: «No al voto, via i barbari». Salvini ora deve dire se vuole il centrodestra. I primi dubbi di Matteo: teme governi di transizione. Salvini colpito dalla valanga di critiche ricevute sulle dirette Facebook. Domani potrebbe vedere Di Maio (Giornale p.2). Non è vero che il Pd vuole votare. Occhio ai pasticcioni. A sinistra abbondano quelli che dicono una cosa ma pensano di farne un’altra: sostenere un governo grillino e prolungare l’agonia del Parlamento. Conte si incatena alla poltrona (Libero p.3). L’inaudita alleanza in nome dell’euro e dei conti. Renzi-Grillo: inciucio in due mosse. Scordatevi anni di insulti, il Bullo lavora a un Conte bis con i 5 stelle. Primo passo: anticipare la mozione di sfiducia a Salvini per togliergli il Viminale. Secondo: Di Maio raccoglie firme per votare il taglio dei parlamentari e blindare tutto. Poi, palla al Colle. Il comico rompe il silenzio e cala le braghe: «Dobbiamo sopravvivere, altro che elezioni. Contro la Lega sono pronti a tutto (Verità p.3). Salvini sente puzza di palude: voto subito. Il leader del Carroccio concede: «Non importa se al Viminale ci sarà qualcun altro» (Qn p.2).
Non si voti. Lodo Grasso al Senato: Lega sola sulla sfiducia. La mossa di Leu. La domanda che si fa l’ex magistrato: ”Perché fare i carnefici di Conte?”. Domani si decide la data per il dibattito sul governo: 13 o 20 agosto? L’ex presidente del Senato propone alle opposizioni di disertare l’aula (Fatto p.2). Da Renzi a Grillo spunta il partito per evitare le urne (Messaggero p.2). Pd, M5S e Forza Italia: le mosse antiurne. Spunta il lodo Grasso. L’ipotesi: non votare la mozione di sfiducia a Conte (Corriere p.3). Mozioni, tempi, agguati. Il partito del rinvio detta l’iter della crisi. I tifosi dell’inciucio spingono per l’ipotesi di sfiduciare prima Salvini. Il piano Grasso (Giornale p.8).
Pd 4. Zingaretti dice no a «inciuci». La linea: non perdere tempo. Il segretario punta a elezioni rapide, il partito è diviso. Domani riunione dei senatori. La vice De Micheli: per fare una Finanziaria di questo tipo ci vuole un mandato popolare. Il sindaco di Firenze Nardella: un voto ravvicinato può essere un problema serio (Corriere p.6). E intanto il pd. Un governo istituzionale, da Forza Italia alla sinistra passando per 5S. Lo propone Renzi, ma il segretario Pd Zingaretti vuole il voto subito. Grillo già apre al dialogo. Salvini grida all’«inciucio» e si prepara a una campagna elettorale, anche lunghissima, lui contro tutti (Manifesto).
Salvini. “Un governo tra Renzi e 5S è roba da disperati Mattarella li fermi. Non ho paura delle inchieste sulla Lega. So come tirare fuori il Paese dai rischi sull’economia, ma bisogna andare a votare subito” (Repubblica p.6). Salvini pronto a lasciare il Viminale. “Mi fido ciecamente di Mattarella”. Il vicepremier in tour: “Sento Grillo e inorridisco”. In serata dura contestazione in Calabria (Stampa p.4). Salvini: cercano l’accrocchio, io del Colle mi fido ciecamente. Contestato in Calabria, ci sono anche bandiere M5S. Danneggiato l’impianto audio (Corriere p.8).
Giorgetti. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio: “Non rinnego il governo, ha fatto cose ottime. Sarà rottura traumatica”. Dice Giancarlo Giorgetti: “Non è vero che volevo le elezioni, ho cercato di tenere in piedi la baracca. Politicamente parlando un possibile governo di Pd e Cinque Stelle è pura fantascienza. Perché non ero con Salvini al Papeete? A me piace la montagna. Da qui vedo le cose dall’alto” (Stampa p.4).More
G iancarlo Giorgetti, potente (ex) sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, leghista della corrente ragionante e ragionevole, si presenta abbronzatissimo indossando una felpa salviniana con scritta “Val di giust”, Valle dei giusti, come per imperscrutabili ragioni nel frattempo dimenticate anche dagli autoctoni è chiamata la Valle Spluga che da Chiavenna porta in Svizzera. Giorgetti ha un’antica consuetudine con queste montagne e viene a riceverci, applauditissimo, il “Premio Madesimo” per meriti olimpici, che sono poi in sostanza due: le Olimpiadi invernali del 2026 si faranno in Italia e si faranno anche in provincia di Sondrio. Esauriti i sorrisi e le premiazioni e i selfie con i devoti, si parla della crisi. Giorgetti, come finirà? «In nuove elezioni, spero. La palla è nel campo del Presidente della Repubblica. Però la crisi è evidente, il governo non c’è più, la maggioranza nemmeno quindi mi sembra ovvio che si debba dare la parola agli elettori. Le liturgie servono, vero, ma talvolta anche a perdere tempo. Meglio andare a votare evitando giochi di palazzo, tentativi di galleggiare e altri incomprensibili formule. Prima si fanno le elezioni e prima ci sarà un governo legittimato dal voto. Sarà il nuovo governo a decidere che cosa fare». Tuttavia, nei palazzi romani si parla di un possibile esecutivo Pd-M5S. «Politicamente parlando, è pura fantascienza». E da altri punti di vista? «Soltanto un modo per guadagnare tempo. O, meglio, per farne perdere al Paese. La situazione è chiarissima». Ma alla Lega non converrebbe invece che fosse qualcun altro a fare la finanziaria lacrime e sangue che tutti sanno essere inevitabile? «No. Governare significa prendersi delle responsabilità. Noi siamo pronti a farlo e l’abbiamo dimostrato». In Europa e sui mercati si teme che un eventuale governo Salvini sarebbe quello dell’Italexit. «È un’ipotesi che non è mai stata presa in considerazione». Però prima di andare a votare (forse), bisogna sfiduciare Conte. «Mi sembra di capire che non voglia dimettersi ma voglia farsi votare contro in Aula. Questo mi dispiace. Voleranno un po’ di stracci. Sarebbe una rottura traumatica e io avrei invece preferito una separazione consensuale». Ma se lei nella Lega era fra i più decisi nel chiedere la crisi. «Questo lo dicono i giornali ma non significa che sia vero. Avete scritto che ero io a rompere i c… per ottenere la crisi di governo e invece io ero quello che a Palazzo Chigi cercava di tenere in piedi la baracca. Non mi vergogno affatto di aver voluto questo governo né di averne fatto parte. Trovo che abbia fatto cose ottime». Per esempio, portare le Olimpiadi del 2026 in Italia. «Anche. Pensi che nella sala del Consiglio dei ministri ci sono due reliquie: una delle copie originali della Costituzione e uno scrigno con le medaglie d’oro, d’argento e di bronzo delle tre Olimpiadi italiane. Beh, prossimamente saranno quattro». Insomma, non rinnega l’esperienza del governo Conte. «No. Con i grillini abbiamo fatto un pezzo di strada insieme e per molto tempo siamo andati d’accordo». Guardi che il governo l’avete fatto cadere voi. «Quando si fa un Consiglio dei ministri che dura nove ore e non si riesce a trovare una quadra, in questo caso sulla riforma della giustizia, è chiaro che non si può più andare avanti. Com’è chiaro che se si passa il tempo a litigare e non si riescono più a fare le cose è meglio dare la parola agli elettori. Si tratta di semplice buonsenso». È il consiglio che ha dato a Salvini? «Salvini decide benissimo da solo». Non mi dica che Matteo prima di scaricare i grillini non le ha fatto nemmeno una telefonata. «Quando il telefono quassù prendeva, sì». La Lega andrà a elezioni da sola o in una coalizione di centrodestra? «Anche su questo aspetto la decisione la prenderà Matteo». E in un Salvini I a lei che ministero toccherà? «Ripeto che decide Matteo. Io non ho mai chiesto nulla e sono sempre a disposizione. Se vorrà utilizzarmi, in Italia o in Europa, io sono qui». Come mai non era al Papeete con lui? «Perché come vede a me piace la montagna. Da qui vedo le cose dall’alto. Per questo dico che bisogna andare a votare. Da duemila metri d’altezza appare tutto molto semplice. I giochetti della politica romana, invece, sono incomprensibili».
Inchieste. Da Savoini a Siri quelle inchieste che spaventano la Lega. Indagini aperte anche su esponenti di Pd, Fdi, Fi e 5 Stelle: nel caso del partito di Salvini sono più vicine alla conclusione (Repubblica p.13). More
Chissà se i magistrati osserveranno una tregua prima del voto. La prassi di sospendere retate e incriminazioni nei confronti dei politici in periodo d’elezioni è stata inaugurata da Francesco Saverio Borrelli ai tempi di Mani Pulite e poi seguita da altri procuratori, come Giuseppe Pignatone. Nessun codice però l’impone e tutto è affidato alla discrezionalità degli uffici giudiziari. Che negli ultimi mesi hanno avviato tante istruttorie, potenzialmente esplosive. In linea teorica, ce n’è per tutti. Persino Fratelli d’Italia nelle scorse settimane ha visto alcuni esponenti locali finire nei guai per mafia. La compagine berlusconiana è sotto inchiesta in Lombardia mentre i pentastellati possono soffrire per gli sviluppi delle indagini sul Comune di Roma. Il Pd d’altro canto è spesso nel mirino dei pm e ci sono fascicoli aperti sia sulla Regione amministrata da Nicola Zingaretti sia su familiari e collaboratori di Matteo Renzi, senza che i due leader siano mai stati convolti. Il più preoccupato però sembra Matteo Salvini, che nel suo comizio di Pescara ha aperto la campagna elettorale dedicando parole di fuoco ai magistrati e promettendo una riforma definitiva della Giustizia. In effetti dalla scorsa primavera i fronti giudiziaria sulla Lega si sono moltiplicati. E paiono tutti a un passo dalla conclusione. Oggi infatti le indagini hanno una tempistica dettata dall’informatica. Si parte dai controlli sulle banche dati, grazie a software che evidenziano subito le operazioni anomale: bonifici, mutui, acquisti di immobili, presunti prestanome o società di copertura. Poi si passa al vecchio stile, approfondendo questi elementi con sequestri e interrogatori. Infine si definiscono le eventuali ipotesi di reato, facendo scattare intercettazioni, perquisizioni e arresti. Stando ai rumors, a Milano e a Roma diversi fascicoli sono ormai arrivati alla fase finale di questa trafila. C’è la vicenda di Armando Siri. Con la contestazione di corruzione per la promessa di 30 mila euro che è già oggetto di incidente probatorio da parte della procura di Roma, quindi a un passo dalla chiusura. Nei confronti dell’ex sottosegretario, padre della Flat tax e dello Sbloccacantieri, però, altri episodi anomali sono emersi: ad esempio il mutuo senza garanzie concesso dalle banche di San Marino, che ha determinato a Milano l’accusa di autoriciclaggio. E la ragnatela di verifiche finanziarie potrebbe riservare nuove sorprese. Quindi c’è l’affaire di Gianluca Savoini, con la trattativa al Metropol su cui il leader leghista si rifiuta ostinatamente di rispondere. Il colloquio registrato a Mosca ha fatto aprire un procedimento per corruzione internazionale, condotto dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale – il primo a ottenere la condanna definitiva sia di Bettino Craxi che di Silvio Berlusconi – che non interrompe mai il suo lavoro. Le verifiche delle Fiamme Gialle avrebbero già individuato una serie di bonifici “sensibili” sull’asse Mosca-Milano che adesso vengono analizzati alla luce delle attività dell’associazione Lombardia-Russia. I pm milanesi si sono convinti che ci siano stati altri incontri prima della serata al Metropol, sempre dedicati allo stesso argomento: finanziare la Lega attraverso concessioni di favore da parte di entità governative russe. E le rivelazioni dei siti investigativi Bellincat e Insider sui 17 voli di Savoini a Mosca, spesso in compagnia di Claudio D’Amico, consigliere del vicepremier, non fanno che aumentare i sospetti anche perché i due avrebbero goduto di un trattamento privilegiato alla frontiera russa. Non solo. In questi giorni gli investigatori stanno decifrando la memoria dello smartphone di Savoini, con l’obiettivo di capire chi fosse informato delle sue trattative: forse potrebbero venire da lì le risposte che Salvini non ha voluto dare in Parlamento. Meno noto è l’intreccio di criminalità e politica che nasce da Latina, con collaboratori di giustizia che parlano di voti venduti da esponenti rom in favore di esponenti locali della Lega. Il fascicolo adesso è passato alla Direzione distrettuale antimafia della Capitale, guidata da Michele Prestipino, che sta approfondendo testimonianze e riscontri. A rendere delicata la materia è il fatto che gli esponenti citati nei verbali fanno capo a Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro sempre più spesso presente sul palco accanto a Salvini. Ma non bisogna dimenticare la madre di tutte le istruttorie, ossia quella che riguarda il destino dei 49 milioni spariti dai conti del partito. La caccia al tesoro intreccia il lavoro di tre procure – Bergamo, Milano e Roma – che si sono coordinate per ricostruire in Italia e all’estero la galassia di bonifici e società dove orbitano fondi destinati o provenienti dagli uomini d’oro della Lega, a partire dal cassiere Giulio Centemero, indagato per illecito finanziamento. Una rete che si somma a quella della fondazione “Più voci”, usata per raccogliere pagamenti di imprenditori, le cui attività sono state ricostruite dalle Fiamme Gialle. Più voci, appunto, che potrebbero turbare la corsa di Salvini verso i “pieni poteri”. Anche se pochi credono che – a 25 anni dal primo avviso a Berlusconi – le questioni giudiziarie siano ancora in grado di influenzare l’elettorato in maniera decisiva.
Si euro. L’europarlamentare della Lega Francesca Donato: “Il limite del deficit di bilancio non può essere invalicabile. Uscire dall’euro? Non da soli, ma le regole devono cambiare. Anni fa l’Eurexit era un’ipotesi sul tavolo in vari Paesi. Adesso non più: è la democrazia” (Stampa p.7).
La Bestia e Rousseau. Bestia leghista contro Rousseau, la sfida della propaganda social. L’improvvisa impennata in chiave anti Lega delle pagine non ufficiali vicine al Movimento. Per la prima volta dopo mesi Salvini perde follower, quasi 5mila. Quelli guadagnati da Di Maio. Gli esperti: “È come se qualcuno avesse azionato profili falsi per moltiplicare il messaggio, ma la struttura di Salvini per ora non sbanda” (Repubblica p.7). More
«Salvini ha gettato la maschera: Fa cadere il governo e salva il sistema a sfavore dei cittadini», scrivono su Facebook. #salvinipremier, rimbalza su Twitter. La crisi di governo ha già avuto un risultato: prendere le due più potenti macchine del consenso italiano – quelle che hanno sbancato le ultime elezioni e che negli ultimi mesi hanno viaggiato a braccetto – e metterle una contro l’altra. Da una parte la Bestia di Matteo Salvini, un complesso sistema di profili social che rimbalzano i messaggi del Capitano. Dall’altra lo storico sistema della Casaleggio, gli antenati di Rousseau, profili pronti a creare cartoline promozionali e video da far girare per la rete. Il risultato di queste prime ore di crisi di governo è interessante. I post sono migliaia, le interazioni sono schizzate e le strategie sono già ben chiare: i 5 Stelle attaccano a testa bassa. Mentre i leghisti stanno a guardare, incassando anche una leggera flessione di numeri. Ma restando fermi sugli argomenti a loro più cari: lotta all’immigrazione e all’establishment, in Europa e ora anche in Italia, gridando a un possibile inciucio 5 Stelle-Partito democratico. Il caso Facebook, il social network che in Italia riesce a spostare in maniera più importante il consenso, è emblematico. «Nelle ultime 48 ore – spiega a Repubblica una fonte che da più di un anno si occupa di monitorare i social in relazione alla politica – le pagine non ufficiali vicine al Movimento 5 Stelle hanno avuto un’impennata. Stanno lavorando molto». Significa che i supporter grillini si sono rimessi in moto: sono state create nuove pagine e quelle vecchie, che erano state messe in naftalina, hanno avuto improvvise impennate. Registrando numeri definiti “anomali” dagli esperti. Prendiamo la pagina “Movimento 5 Stelle il vero cambiamento”. Nelle ultime 24 ore ha prodotto una ventina di post tutti anti Salvini. Con numeri sballati. «Troppe condivisioni, come se ci fosse qualcuno che abbia azionato profili falsi per moltiplicare il messaggio» continua la fonte. Normalmente, infatti, i post hanno un maggior numero di like che di condivisioni. Bene, il «Salvini ha gettato la maschera» aveva condivisioni dieci volte superiore ai “mi piace”. Così come l’hashtag #salvinitraditoredelpopolo è immediatamente diventato tra i più utilizzati in Italia. Interessanti sono anche i numeri dei fan: per la prima volta, dopo una crescita continua, Salvini ha perso poco meno di cinquemila sostenitori nelle ultime 36 ore. Sostanzialmente quelli che hanno guadagnato Di Maio e Conte. Così come cresce anche Renzi. «È la dimostrazione plastica» dice Alessio De Giorgi, l’uomo che ha sempre curato i social per Matteo Renzi, «che dopo 14 mesi qualcosa nel fronte sovranisti si è rotto. Mentre la crescita di Di Maio e Renzi è uno “stringiamoci a corte” dei propri sostenitori». «Potrebbe non essere un caso, però» spiega Vincenzo Cosenza, uno dei massimi esperti italiani di social. «Sembra come se qualcuno avessse spostato pacchetti di follower, vista anche la proporzione tra i due movimenti». La Lega, dunque, è sotto attacco. E ad attaccare sono i 5 Stelle. Una situazione però che non sorprende gli analisti. «Le due strutture di comunicazione – continua Cosenza – potrebbero sembrare simili ma in realtà funzionano in maniera diversa. Da una parte c’è Salvini che detta la linea e la macchina di Morisi che si adatta. Dall’altra invece si vede un lavoro più complesso, con la strategia decisa dalla struttura di Casaleggio e con i vari ministri e parlamentari che si adattano». «In realtà» spiega il professor Walter Quattrociocchi dell’università Ca’Foscari che, con i suoi ricercatori, studia il comportamento degli esseri umani sui social attraverso i dati raccolti su Facebook, «le “camere dell’eco”, cioè quei gruppi virtuali formati da persone che hanno più o meno la medesima opinione, sono diventate due: prima c’erano Lega, 5 Stelle e Sinistra. Ora la narrativa dei 5 Stelle è stata divorata da quella più emotiva di Salvini». Secondo Quattrociocchi è una questione di argomenti. «Il pubblico di Salvini è molto polarizzato. E lui sa cosa dirgli: migranti, messaggi anti establishment. Il pubblico dei 5 Stelle è invece sfiduciato, mentre la sinistra non ha alcuna contronarrazione». È per questo, secondo Quattrociocchi, che per il momento la struttura comunicativa di Salvini non sbanda. Continua a portare avanti il proprio messaggio, «perché parla alla sua gente. Non ha bisogno di difendersi né di attaccare: l’obiettivo, in questo momento, non è guadagnare. Ma non fare cambiare idea ai propri elettori, fare in modo che non passino nello schieramento opposto. In questo sono maestri».
La catena di montaggio da 1.500 selfie al giorno. Proteste durante il Beach tour. A Policoro il lancio di acqua sul ministro e a Soverato i contestatori mettono ko l’impianto audio (Repubblica p.7).
More La fabbrica dei selfie è un cantiere che lavora a pieno ritmo, fra un giro in canoa a Policoro e una nuotata nel mare di Isola capo Rizzuto. E in questi giorni di campagna elettorale on the beach Matteo Salvini e il suo apparato di comunicazione, la cosiddetta Bestia, hanno raggiunto il nuovo primato di produttività: 1.500 “autoscatti” al giorno, con punte di duemila istantanee, realizzati nelle tre tappe quotidiane del Summer tour con vista su Palazzo Chigi. Specialmente di sera, al termine dei comizi, il leader della Lega è capace di fermarsi anche un’ora a fare cheek to cheek davanti a uno smartphone con i sostenitori. A Sabaudia, prima tappa del suo circuito estivo, il leader della Lega si è dilungato nella paziente attività del selfie per oltre due ore. Record che genera record. Nessun politico, ma probabilmente nessun artista o sportivo di fama è così generoso nel darsi al suo pubblico. Ma non è, come appare a molti chiaro, solo un segno di riconoscenza verso gli elettori, né tantomeno una forma di filantropia. È calcolo, una strategia precisa e sempre più consolidata di diffusione del “brand Salvini”. «Il selfie è un inarrivabile moltiplicatore di consenso», fanno notare nel suo staff, indicando il vantaggio rispetto alle tradizionali forme di “concessione” di un personaggio famoso alla propria platea, a partire dall’ormai quasi superato autografo. La differenza, ai tempi del web, la fa un coefficiente, quello di propalazione di un post. Basti considerare che quasi tutti i fan che si fanno uno scatto con Salvini poi lo pubblicano su Facebook e che, secondo una statistica nota a chi segue la comunicazione del ministro, ogni utente di Fb ha in media 342 amici, per giungere a un dato impressionante: ogni giorno che passa il faccione del candidato premier compare 513 mila nuove volte nel social più popolare. Per non parlare di Twitter e Instagram. Una pubblicità impaga bile. La conquista del cyberspazio. Ecco perché, in questo giro d’Italia dove pure non mancano le contestazioni – come ieri sera a Soverato, dove i danni all’impianto audio hanno per qualche minuto bloccato il comizio – Salvini sfida i Bella Ciao con il rito sempre più frenetico della foto-ricordo che ormai ha un’organizzazione burocratica degna, quella sì, di un ufficio pubblico. La fila ordinata davanti a un uomo dell’organizzazione che fa entrare un tifoso alla volta, verso il leader che lo attende da solo sorridente, flash e via da un’altra uscita. Avanti il prossimo. Stessa scena nel ristorante del Cala Sveva di Termoli come sotto la tenda bianca sulla spiaggia di Policoro, ieri mattina. Il tempo medio concesso per ogni selfie è dieci secondi, e Salvini li usa sapientemente, spesso e volentieri per regolare lui stesso le funzioni del cellulare dell’avventore, prima dello scatto: «Preparate il telefono», è l’urlo per tutti. E per aumentare la produzione, è entrato in scena anche il “facilitatore”. A Sabaudia un addetto dello staff si è messo accanto a Salvini per aiutarlo a farsi immortalare: due operatori al posto di uno per massimizzare il risultato. Tutto studiato nei minimi dettagli. Un controllo più rigido del flusso dei “selfisti”, spiegano nell’entourage salviniano, è figlio anche di alcuni inconvenienti recenti, in particolare delle incursioni degli insider: dalle due ragazze che si sono baciate a Caltanissetta al giovane che, a Cagliari, si è messo accanto al capo della Lega per ricordargli dei 49 milioni da restituire allo Stato. Autogol che ancora bruciano. Il rituale del selfie è regolato, nelle caotiche uscite pubbliche, da volontari del partito e dagli agenti della scorta, chiamati agli straordinari in caso di eccessi. Protagonisti anche loro di questo vortice che risucchia sostenitori felici di questo contatto: «Pensavo che anche avvicinare Salvini fosse un’utopia e invece…», si rallegrava una ragazza con i capelli ricci e biondi a Mola di Puglia, accanto al settantenne che si vantava di aver portato anche la nipotina di 10 anni a farsi fotografare con il Capitano. «Non l’ho mai votato e non lo voterò mai», diceva un giovane con il codino a Termoli. Dopo tre quarti d’ora era ancora lì, a bofonchiare, ma in tenace attesa dello scatto. E poi fans con immaginette di santi e Madonne, con i rosari, commercianti che usano l’immagine con Matteo per pubblicizzare il negozio. Qualche incidente, per gli utenti della fabbrica dei selfie, è da mettere nel conto: ieri una ragazza di Latina, Alessandra, ha denunciato che le è stato negato l’affitto di un appartamento a Roma perché nel suo profilo Fb aveva proprio il mitico selfie al fianco di Salvini. Ma poco importa, ai registi di questo Truman Show, confortati da numeri monstre che spianano la strada, pardon la spiaggia, che porta alle urne.
Forza Italia Toti e FdI. I due tavoli di FI: con la Lega e contro (Messaggero p.3). More
Salvini dice: prima la data del voto poi le alleanze. Berlusconi sostiene: prima l’accordo poi il resto. La partita a scacchi è già cominciata e le prime mosse si vedranno già nelle conferenze dei capigruppo di Senato e Camera, lunedì e martedì. L’ordine partito da Arcore ai suoi presidenti è di far valere il peso parlamentare azzurro, insomma di «tirarsela un po’». Perché è vero che l’ex premier ha già dichiarato un paio di volte di non avere intenzione di partecipare ad altre maggioranze parlamentari, così come è vero che quelle uscite sono state fatte su esplicita richiesta di Matteo Salvini. Però, per dirla filosoficamente con le parole di Clemente Mastella, «Cca nisciuno è fess». Insomma, prima bisogna parlare di collegi, se non proprio di un listone unico. Per il leader della Lega sventare eventuali manovre di palazzo e fissare la data del voto è una priorità. Ed è proprio questo il momento in cui il potere di trattativa di Silvio Berlusconi è più forte. «Dopo sarà tutto a metà prezzo», spiega un esponente di Forza Italia. Se serve, va bene anche «andare dal notaio», afferma Mariastella Gelmini. La cerchia ristretta del Cavaliere è convinta che alla fine un accordo si farà per reciproca convenienza, sia di Salvini che degli azzurri. Ma l’ex premier è da sempre abituato a giocare su più tavoli cercando la convenienza migliore. Che ora è fare in modo che il leader della Lega non dia niente per scontato. Sarà anche per questo che dall’area renziana fanno filtrare notizie di contatti con i berlusconiani. Ed è vero che c’è una nutrita pattuglia di parlamentari che sa bene di avere poche chance di tornare in Parlamento. E non soltanto perché le percentuali di Forza Italia si sono più che dimezzate rispetto alla Politiche. «Berlusconi ha detto che vuole facce nuove e li ha gettati nel panico», spiega un parlamentare.
Il diktat di Forza Italia: «Alleanza con la Lega? Ma prima delle urne». Il partito pronto a far valere il proprio ruolo nella stesura dell’agenda dei lavori in Senato (Giornale p.6). Toti: adesso un’alleanza con Matteo. Il vecchio asse con FI? Non lo vedo più. «Bisogna presentarsi con un centrodestra nuovo e inclusivo» (Corriere p.8).
More La prima buona notizia è una crisi di governo che «interrompe un anno di leggi nefaste, dannose o inutili per il Paese, rimasto bloccato sul piano economico, dell’innovazione, delle infrastrutture». La seconda per Giovanni Toti — presidente della Liguria e leader del neonato movimento Cambiamo —è che si potrebbe andare presto al voto. Tutti o quasi si dicono pronti al voto, ma non c’è il rischio dell’esercizio provvisorio e dell’attivazione delle clausole di salvaguardia con aumento dell’Iva? «Io sono per il voto presto, che sia novembre o dicembre poi cambia poco. L’esercizio provvisorio alla fine potrebbe non essere visto male da un’Europa che ci considera troppo spendaccioni, e le clausole potrebbero essere sterilizzate con una legge votata da tutti per un importo e un manovrina di impatto molto limitato. Mi spaventa più altro». Cosa? «Che si pensi ancora una volta a formule ibride, a maggioranze fatte da partiti che nulla hanno da condividere, a manovre per i prossimi due-tre anni senza respiro, logica, visione comune. Per questo si deve votare, lo pensano i parlamentari che aderiscono al movimento, e bisogna farlo con un centrodestra nuovo, innovativo, inclusivoecoeso». Ha già parlato di alleanze con Salvini? «In questi giorni frenetici non abbiamo ancora avuto modo di confrontarci, ma i nostri rapporti sono già molto stretti. Governiamo assieme sul territorio, non abbiamo mai guardato al governo in modo pregiudiziale, e crediamo che, senza tornare alle geometrie della Seconda Repubblica, serva a tutti, anche a Salvini, presentarci alle elezioni rappresentando le diverse sensibilità e anime del centrodestra. Noi siamo una formazione nuova con tante risorse che arrivano dalle amministrazioni sul territorio e tante idee. Serve un salto generazionale nelle facce e coraggio sulle scelte politiche». C’è posto anche per FI? «Per me tutti hanno diritto di partecipare alla costruzione di un nuovo centrodestra, ma loro hanno fatto spesso scelte diverse da FdI e Lega, non sono stati certo includenti, hanno chiuso ad ogni processo di innovazione. Uno schema come quello degli ultimi anni — Lega-FdI-FI — proprio non lo vedo più». Voi vi presentereste in un listone o autonomamente? «Siamo pronti a presentare nostre liste, c’è uno straordinario entusiasmo. Poi vedremo quale sarà lo strumento migliore perle elezioni».
Alt di Meloni agli inciuci: «Asse vincente con la Lega». La leader di Fd’I scarica Berlusconi: vedute diverse (Qn p.3).
Conte Italia. Conte prepara il j’accuse a Salvini. L’operazione verità del premier alle Camere. Il Commissario europeo potrebbe non essere del Carroccio (Corriere p.10). More
Potrebbe non essere più un esponente della Lega il Commissario europeo che Giuseppe Conte dovrebbe indicare entro fine mese ai vertici della nuova Commissione. Non è un automatismo della rottura politica con Matteo Salvini, ma il capo del governo starebbe pensando ad una figura terza, magari un accademico, o una figura esterna alla politica, autorevole, certamente non di sinistra, ma non per forza leghista. È una delle prime possibili conseguenze della crisi di governo e delle scelte del leader della Lega. Attualmente le comunicazioni fra il premier e Salvini sono interrotte e la scelta di Conte potrebbe, secondo fonti di Palazzo Chigi, essere più che plausibile. In sostanza il presidente del Consiglio potrebbe sentirsi a questo punto svincolato da ogni obbligo di indicazione di un esponente di stretta osservanza leghista, per puntare a una figura non solo più indipendente ma anche con maggiori chance di essere apprezzata dalla nuova presidente della Commissione. Per il discorso che dovrà preparare da leggere alle Camere Conte sta pensando ad una sorta di operazione verità. Rivendicare l’impegno di più di un anno di governo, le cose fatte, i provvedimenti approvati e irisultatiraggiunti ma anche mettere in luce le mancanze di uno degli alleati chiave, che sin dal primo giorno ha avuto un atteggiamento ondivago, disertando molto spesso l’attività istituzionale, disimpegnandosi in una campagna elettorale permanente che ha indubbiamente pesato in modo negativo sull’azione dell’esecutivo. Azioni e omissioni di Matteo Salvini, che ha «bruscamente» interrotto l’esperienza del governo, potrebbero far parte di una lista di denuncia, quasi un j’accuse al leader della Lega, per metterne in risalto quello che a Conte negli ultimi mesi è sempre apparso come un doppio profilo, un piede dentro il Palazzo e un altro fuori, a demolire proprio quello che l’attività istituzionale stava dispiegando, a cominciare da tanti risultati poco noti, come la delega sulla riforma della Pubblica amministrazione, alla quale Conte ha lavorato in prima persona e che immancabilmente si interromperà. Ricorderà poi il suo impegno di garante, quel tentativo costante cui si è attenuto di essere super partes nonostante le posizioni molto spesso inconciliabili dei due partiti di maggioranza, un tentativo permanente sul quale non ha mai fatto passi indietroeche rivendicherà con orgoglio, perché è stato il tratto principale del suo mandato, tante volte anche a discapito dell’esposizione personale, ma sempre con spirito di servizio. Poi, soprattutto, farà in modo che l’intera responsabilità della crisi venga in qualche modo assunta dalla Lega, con un voto trasparenteedelle posizioni parlamentari le più limpide possibili, magari anche rivendicando che è stato capace di evitare ben due procedure di infrazione, che avrebbero fatto molto male all’Italia, e che invece c’è qualcuno — ovviamente Salvini — che sta in qualche modo lanciando il Paese verso un voto anticipato e una sessione di bilancio dagli esiti imprevedibili.
Il discorso che farà Conte: “È Salvini l’uomo dei No”. Il presidente ribadirà tutti i “sì” del governo cui il capo leghista si è opposto per mesi (Fatto p.4).
More I l discorso che il presidente del Consiglio farà al Senato avrà un peso. Innanzitutto per il posizionamento nei confronti di Matteo Salvini: Conte punterà a ribaltare la narrazione leghista sul governo del No addebitando a quello i No. E da quel discorso, oltre che dall’esito del dibattito parlamentare, dipenderanno gli scenari successivi tra i quali non va escluso nemmeno un Conte-bis, dal mandato circoscritto e a tempo, che faccia alcune riforme – legge elettorale e manovra – per poi andare a votare. LE LINEE p ro gr amm at ic he dell’intervento sono inscritte nel discorso pronunciato lo scorso 3 giugno in occasione della conferenza stampa in cui chiedeva a Lega e M5S di chiarire il futuro del governo, pena le proprie dimissioni. Conte rivendicherà innanzitutto il Contratto di governo, rivendicherà il “cambiamento”, passato attraverso misure come il Reddito di cittadinanza, decreto Dignità o Quota 100. Non potrà non rivendicare anche le misure legate all’im – migrazione, che sono sfociate nell’approvazione di ben due decreti Sicurezza e su cui probabilmente il M5S ha avuto più problemi al proprio interno. Ma a Salvini si ricorderà che dopo aver votato la fiducia al decreto Sicurezza bis, ora si passa al voto contrario. Rivendicherà la legge Spazzacorrotti, la modifica dell’articolo 416-ter sul voto di scambio mafioso e ricorderà che per applicare le riforme fatte servirebbero diverse misure di accompagnamento. La sfiducia significa dire No anche a questo. Una volta ribadita la bontà della “fase 1”, il presidente del Consiglio sottolineerà l’i mportanza della “fase 2” ricor – dando i progetti su cui il governo sta(va) lavorando: la riforma della Giustizia, le Opere pubbliche, travolte dalla discussione sul Tav, il Conflitto di interessi, in realtà evocato da tempo, la riforma del Fisco, al di là della semplice flat tax o della revisione delle aliquote, per una “giustizia tributaria e f f ic i e n t e”. E poi i progetti strategici che più stanno a cuore a Conte: un piano nazionale per la Ricerca, uno per il sistema scolastico e quello universitario, un piano straordinario per il Turismo e un progetto strategico, già compreso nel Contratto di governo, per il potenziamento d e ll ’Economia circolare, favorendo la politica del riciclo e “dismettendo quella del rifiuto”. Un progetto che si iscrive a l l’interno di una strategia “gre en” che Conte vorrebbe portare avanti. Questo è l’elenco dei progetti a cui, dirà Conte, Matteo Salvini ha detto no. Preferendo la politica dei sondaggi a quella dei progetti. Dopo il discorso, da come andrà il dibattito e l’eventuale voto finale, si capirà il futuro immediato. IL PREMIER DOVREBBE sotto – porsi al voto dell’aula come ha fatto a suo tempo Romano Prodi: “Voglio che mi guardi in faccia e mi voti contro” ha detto a Matteo Salvini nel colloquio di palazzo Chigi. Una rottura “tr a u m at i c a ” co m e nota efficacemente Giancarlo Giorgietti che, capendo il rischio dello scontro, dice che sarebbe stata meglio “una separazione consensuale”. Con il voto sfiducia, Conte si dimetterà nelle mani del presidente della Repubblica. Se le opposizioni, però, accogliessero la proposta avanzata dall’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, non partecipando alla contesa, Conte, non essendo sfiduciato tecnicamente, potrebbe puntare a un reincarico da parte di Mattarella in un Conte-bis dalla data di scadenza incorporata e per alcune misure obbligate: il taglio dei parlamentari, una legge di Bilancio, la legge elettorale. Per poi tornare a votare. Nel mondo 5Stelle di questa ipotesi si pensa che “se fosse un governo non impopolare, non alla Monti per intenderci, potrebbe fare bene e beneficiare dell’appoggio del Pd e di altri settori. Oppure dell’astensione”. Un governo di scopo, o delle astensioni, che sarà Sergio Mattarella a decidere. Lo farà al termine di consultazioni che, nello stile del Capo dello Stato si annunciano “molto serie”.
Conte Mondo. Merkel, Macron, il G7. Ecco la tela di Conte per rassicurare l’Europa. In previsione colloqui telefonici con i leader di Francia e Germania prima del summit del 24. Per il commissario riprende quota l’ipotesi di un tecnico, con i nomi dei ministri Moavero e Tria. Le cancellerie europee guardano con preoccupazione a quanto sta succedendo. Il premier intende allargare la rete di contatti anche ai Paesi del gruppo Visegrad (Stampa p.5). More
L e cancellerie europee guardano con preoccupazione a quanto sta succedendo in Italia, e se i tg tedeschi commentano la crisi di governo dicendo che il nostro Paese, con Salvini, «fa venire la pelle d’oca», i quotidiani francesi spaziano da definizioni del vicepremier come «il bulldozer milanese» a scenari dell’Italia come «il primo Paese fondatore dell’Unione europea che rischia di avere un governo di estrema destra». Non sono solo i media a lanciare grida d’allarme: nelle sedi diplomatiche di mezza Europa i contatti si intensificano giorno dopo giorno: «Dove andrà stavolta l’Italia?», si chiedono. «In Europa si devono rassegnare – ha twittato il vicepremier Salvini – l’Italia ha rialzato la testa e vuole decidere liberamente del proprio futuro». Allo stesso tempo, forse per fugare preoccupazioni eccessive, precisa, sempre con un tweet: «Non siamo più negli anni Trenta, nel nostro Paese non ci sono Hitler all’orizzonte e chi governa in Italia lo decidono gli italiani». Nel frattempo, il premier Conte ha avviato una «rete di protezione» a difesa della credibilità italiana, con l’intenzione di arginare le paure di una campagna elettorale che si annuncia pesantemente anti-europeista. Sono in agenda, già dalla prossima settimana, colloqui telefonici con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron. Fattore Ursula I rapporti con i due leader europei, che incontrerà tra l’altro in occasione del prossimo G7 a Biarritz il 24 agosto prossimo, sono sempre stati buoni, ma si sono consolidati in occasione dell’elezione di Ursula von der Leyen. Merkel e Macron non dimenticano che il premier Conte è stato tra gli artefici della vittoria della loro candidata alla presidenza della Commissione e del sostegno a Christine Lagarde alla Bce. E dunque andrà a loro per primi la rassicurazione sul fatto che l’Italia non vuole perdere né peso né credibilità, e che si muove ancora sul solco della medesima linea politica: «Sì a un’Europa diversa, no a una non-Europa». Ma il premier Conte intende allargare la rete di contatti anche alla Bulgaria (sono ottimi i rapporti con il premier Boyko Borissov) e ai Paesi del gruppo Visegrad, non tanto con l’Ungheria, quanto con la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Si inquadra dunque in questa congiuntura la scelta politica del commissario da mandare in Europa: fonti vicine al premier assicurano che non si tratterà di un profilo anti-Lega, per evitare di avvelenare ulteriormente il clima politico. Allo stesso tempo si allontana l’ipotesi di un tesserato doc della Lega, a cui stavano lavorando gli sherpa di Salvini nella giornata di ieri (anche con l’idea di prendere tempo nel caso ci fosse stata una bocciatura), e riprende quota la candidatura di un “tecnico” che non sia attaccabile dal Parlamento Europeo e che sia in grado di tenere in mano un portafogli di peso. Dunque il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, già capo di gabinetto del commissario Mario Monti e poi vicesegretario generale della Commissione dal 2002 al 2005, oppure l’attuale ministro dell’Economia Giovanni Tria. Non ci sono, nella storia, esempi di commissari primi ministri con una crisi di governo in corso, e appare dunque inverosimile che il premier Conte possa andare a Bruxelles, ma è vero che l’ipotesi rappresenta il “wishful thinking” delle cancellerie europee, preoccupate di un assalto italiano di marca sovranista e del rafforzamento del fronte delle destre all’interno dell’Unione. Non sfugge l’importanza di stringere i tempi sulla partita europea. Prima del 20 agosto – data presunta del dibattito parlamentare sulla sfiducia al governo – il premier Conte si trova ancora nella pienezza dei suoi poteri: riuscire ad avere un commissario entro quel giorno significherebbe partecipare ai successivi impegni internazionali (il G7 di Biarritz il 24 agosto, l’Assemblea generale dell’Onu il 17 settembre e il Consiglio Europeo del 18 ottobre) con un problema di meno.
Sondaggi. Sondaggisti divisi. Il dato più alto è di Noto, Risso (Swg) è il più pessimista: “Il premier vale l’11% ” , “No, appena il 4”. Per Valbruzzi (Istituto Cattaneo) se il presidente guidasse il M5S porterebbe dal 3 al 5% in più (Fatto p.4). More
I sondaggi non sempre sono perfetti, ma quasi mai sono incoerenti tra loro. Magari ballano uno o due punti percentuali, ma difficilmente un partito al 30 per cento scende al 20 nei dati di un altro istituto. Il caso di Giuseppe Conte, però, fa eccezione. LE IPOTESI di un partito dell’a ttuale premier o di un Conte nuovo leader del M5S dividono i sondaggisti. Marco Valbruzzi (Istituto Cattaneo) distingue le due possibilità: “Se formerà un suo partito non avrà molto margine. È vero che ha un grande consenso personale, ma spesso non si traduce in voti e soprattutto se davvero si voterà fra due mesi non avrà il tempo di far conoscere la sua nuova forza politica. Se diventasse leader dei 5 Stelle, invece, Conte potrebbe portare dal 3 al 5 per cento in più”. Più disfattista Enzo Risso (Swg): “I nostri dati di fine luglio danno una lista Conte sotto al 5 per cento. Così come Gentiloni, che aveva un gradimento molto alto, non credo riesca a convertire l’a p p r ez z amento per i toni, i modi e l’equ ilibrio in voti ” . Neanche come guida dei 5 Stelle: “Sarebbe un profilo simile a quello di Di Maio, non è una svolta come potrebbe essere un Di Battista”. Di tutt’altra idea è Antonio Noto (Noto Sondaggi): “Secon – do le nostre rilevazioni di inizio luglio, un partito di Conte varrebbe già un 11 per cento. Non si può dire che la stessa percentuale si aggiungerebbe ai voti del M5S se Conte ne diventasse leader, perché l’elettorato del premier è piuttosto trasversale, essendo percepito prevalentemente come un moderato di area centrosinistra”. Questa circostanza, secondo Noto, potrebbe favorire scenari post-voto: “Una lista Conte sarebbe ponte perfetto tra Pd e 5 Stelle”. A patto, naturalmente, che il partito di Conte e i 5 Stelle tolgano almeno una decina di punti alla Lega. Cauto è invece Pietro Vento (Demopolis): “Negli ultimi mesi la statura politica di Conte è cresciuta notevolmente e dopo l’apertura della crisi da parte di Salvini l’ultimo intervento del premier è stato apprezzato da ampi segmenti di opinione pubblica”. Motivi per cui “la fiducia in Conte resta significativa e trasversale”, senza però che si possano trarre conclusioni elettorali: “È ancora troppo preso per stimare oggi l’eventuale peso di una sua lista civica”. Anche Nicola Piepoli (Istituto Piepoli) non si sbilancia, ma è certo che Conte possa favorire i 5 Stelle erodendo il gap con la Lega: “Potrebbe aiutarli a risalire di qualche punto, perché negli ultimi giorni si è comportato da perfetto uomo della Costituzione, regolando Salvini e chiarendo che non può essere lui a decidere quando e come si sciolgono le Camere”. CHE IL PREMIER abbia o meno un certo consenso, Lorenzo Pregliasco (Youtrend) crede comunque che Salvini avrà gioco facile: “Conte potrà raccogliere un apprezzamento abbastanza trasversale, ma è lontano nei toni, nel linguaggio e nel mondo di riferimento dal leader della Lega. Per questo non penso che una sua discesa in campo come leader scalfisca il Carroccio”. Per sapere chi avrà ragione potrebbero bastare poche settimane.
I Conti. Manovra 2020, perché fa paura. Serviranno almeno 30 miliardi e se ci saranno le elezioni in autunno i numeri del bilancio balleranno (con i mercati) (Corriere p.11). Sul futuro governo il macigno dell’Iva. Le clausole costano 687 euro a famiglia. Così il calcolo di Confesercenti, mentre il Codacons alza il totale a 1200 euro includendo i costi indiretti. 26,5% il livello a cui salirebbe l’aliquota massima dell’Iva se scattassero le clausole. I consumi calerebbero di 8 miliardi aggiungendosi ai 32 già perduti in 10 anni (Stampa p.6). Le quattro ipotesi per risolvere il rebus degli aumenti dell’Iva. Le ricette sul tavolo: dal disinnesco parziale alla sterilizzazione immediata e completa. Tra le soluzioni c’è anche uno slittamento di qualche mese dello scatto delle aliquote (Messaggero p.9). Quanto ci costa la crisi. Debito su di 4 miliardi ogni 100 punti di spread. In due anni rincaro Iva di 1200 euro per famiglia. Colpiti anche il risparmio gestito e i fondi pensione a causa del calo dei prezzi dei Btp . I bilanci delle banche particolarmente esposti per via dei 400 miliardi di titoli pubblici posseduti (Repubblica p.10). More
Finanza da una parte (spread e Borsa), economia reale (rischio aumento dell’Iva) dall’altra. In mezzo, i bilanci delle famiglie, che rischiano di essere messi a dura prova dalle conseguenze della crisi di governo. Solo sul fronte dell’Iva, se non si riuscisse ad evitare il rialzo delle aliquote, ci sarebbero 23 miliardi aggiuntivi sulle spalle dei consumatori nel 2020 e 28 nel 2021. Il Codacons ha calcolato che tra aumento Iva e rincaro delle accise il conto medio per una famiglia sarebbe di 1.200 euro nel biennio. L’assaggio di quanto potrebbe ancora succedere sui mercati si è avuto venerdì: lo spread, il differenziale dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi, è salito di circa 30 punti base, sfiorando quota 240. Se questo livello si dovesse consolidare, in un anno si pagherebbero 1,2 miliardi di interessi aggiuntivi sul debito pubblico. Se invece lo spread si alzasse stabilmente di 100 punti base, l’aggravio per le finanze pubbliche sarebbe di 4,2 miliardi per il primo anno, di 9 miliardi per il secondo e poi a salire, fino ad arrivare a regime dopo 7 anni (la durata media del debito italiano). Del resto, quando si pagano 178 milioni al giorno di interessi sui titoli di Stato, anche piccole variazioni rischiano di avere l’effetto-valanga. L’elemento positivo è che, in valore assoluto, i tassi restano relativamente bassi: anche due giorni fa, dopo la fiammata, il Btp decennale rendeva l’1,84%, la metà di quanto rendeva nell’ottobre scorso (3,68%), in piena bagarre sui conti pubblici. Ma nello stesso arco di tempo il Bund tedesco è passato da un rendimento positivo dello 0,41% al meno 0,57% di due giorni fa. Nel frattempo è cambiato lo scenario sui tassi in Europa e si riparla di un nuovo programma di acquisti sui titoli pubblici. Anche il Btp, pur con la solita zavorra del debito pubblico, era da qualche settimana in forte miglioramento, prima della doccia fredda della crisi politica. Destinata ad avere impatti concreti e diretti sulle tasche dei cittadini: maggior spesa per interessi da finanziare in qualche modo – o con maggiori tasse o con minori investimenti o ancora con maggiore deficit, entrando in rotta di collisione con l’Europa – ma anche perdite di valore sugli investimenti in Btp, direttamente o attraverso fondi comuni, gestioni patrimoniali, fondi pensione. Solo ieri alcuni Btp (in particolare nella fascia 5-10 anni) sono arrivati a perdere fino all’1%, la metà del rendimento annuale (anzi un po’ di più) di un Btp a 10 anni. E sono stati ancora i titoli di Stato a mettere in ginocchio le banche. Venerdì la Borsa ha bruciato 15 miliardi di capitalizzazione e molte banche hanno chiuso con cali del 7-8%, con punte del 9%. Gli istituti di credito hanno nei loro forzieri circa 400 miliardi di titoli di Stato: più questi scendono, più si riduce il cosiddetto Cet1, il patrimonio di vigilanza di miglior valore. Ebbene, una variazione di 100 punti base dello spread “mangia” circa 32 punti base di Cet1.
L’Iva. E il piano di Tria per fermare l’Iva adesso è a rischio. All’Economia pronta da due settimane la lista di spese che si possono ridurre e di detrazioni fiscali da tagliare. Ma non si sa quale maggioranza sceglierà (Repubblica p.11). More
— «Noi siamo pronti e tranquilli». Al ministero dell’Economia è un fine settimana di pausa, ma non certo di relax. Il ministro Giovanni Tria e i suoi più stretti collaboratori sono al massimo a un paio d’ore di viaggio da Roma e si tengono, come è normale in questi casi, in contatto continuo. Sono «pronti» perché proprio due settimane fa – con largo anticipo su quelli che sono (o ormai sarebbero stati) i tempi fisiologici della legge di Stabilità – il ministro aveva già condiviso con i suoi viceministri un dettagliato elenco di voci di spesa dove si potevano operare tagli e di “tax expenditures”, le detrazioni e deduzioni fiscali, da cambiare o addirittura cancellare. Attingendo a quell’elenco – era l’idea – si sarebbero innanzitutto potuti trovare i 23 miliardi di maggiori entrare o di minori spese che avrebbero consentito di sterilizzare anche per il prossimo anno l’aumento delle aliquote Iva previsto dagli accordi con Bruxelles. E da quel “menu” la maggioranza avrebbe potuto scegliere anche le voci più adatte per comporre la nuova manovra. Quello fatto al ministero è un lavoro avviato da tempo e che anche dopo mercoledì non si è fermato. Venerdì, per esempio, la viceministra Cinque Stelle Laura Castelli stava lavorando con il suo consigliere giuridico sul progressivo smantellamento dei sussidi che hanno effetti dannosi per l’ambiente: un pacchetto che il primo anno varrebbe due miliardi di risparmi. Ora però la crisi mette a rischio tutto il lavoro già fatto. Succede infatti che il ministero guidato da Tria è stato in queste settimane come un ristorante che si preparava ad accogliere un banchetto i cui commensali hanno gusti differenti e spesso inconciliabili: chi è allergico alla riduzione del cuneo fiscale, chi intollerante alla flat tax, chi non sopporta piatti della vecchia gestione come gli 80 euro di Renzi… Non a caso, di fronte a quella tavolata così litigiosa, che già nei quattordici mesi passati aveva dato segno di arrivare con molta difficoltà a un accordo, lo chef Tria ha interpretato il compito suo e dei suoi collaboratori come quello di offrire ai commensali della politica un menù il più vario possibile dal quale ognuno potesse scegliere le portate da mettere in manovra a patto che andassero bene anche agli altri. Il tutto tenendo anche presente che a Bruxelles ci sono giudici più severi di qualsiasi MasterChef e che banchetti luculliani – leggasi manovre con aumento di deficit e spesa pubblica a gogo senza corrispondenti tagli ad altre uscite – in questa nuova stagione della Commissione europea sono difficilmente digeribili. La brigata di Tria si è affannata in cucina, ma adesso non sa chi si presenterà al tavolo: un monocolore di destra che chiederà un’abbuffata di riduzione delle tasse come da magica ricetta salviniana? Un governo di transizione che si accontenterà di un pasto dietetico? O – come pare volere la Lega – si punterà a una manovra anticipata, una sorta di rapido ma sostanzioso spuntino, che eviti l’aumento automatico dell’Iva nel 2020? A quest’ultima alternativa – tra via XX settembre e dintorni – non paiono credere in molti. Se proprio la Lega apre la crisi, peraltro in modo irrituale – è il ragionamento – è difficile che siano gli ex alleati grillini ad aiutarla in questa operazione. Certo, ci sarebbe il senso delle istituzioni di cui molti si riempiono la bocca in queste ore; ma come si sa quando volano gli stracci della campagna elettorale anche questi nobili afflati vengono portati via dal vento. E il ricco menu della prossima legge di Bilancio rischia di rimanere chiuso o di essere aperto all’ultimo momento, con scelte frettolose e obbligate. Oltre al tema della manovra che verrà e dell’aumento dell’Iva che potrebbe ora scattare, all’Economia si guarda anche con molta attenzione – ma senza apprensioni, assicurano – all’andamento dello spread tra i Btp e i Bund tedeschi che segnala immediato le nuove paure di una manovra senza freni. Nessuno, in via XX settembre, vuole vedere la vampata di venerdì a 240 punti come l’inizio di un vero incendio. Ma è difficile non tenere presente – lo nota un report di Unicredit – che tra giugno e luglio lo spread era sceso da oltre 280 punti a meno di 190 punti per due motivi: l’aspettativa che la Bce di Mario Draghi acquistasse ancora titoli di Stato per spingere l’economia e il sollievo perché l’Italia aveva evitato la procedura europea per deficit eccessivo. Ora il primo fattore resta, mentre il secondo rischia di cambiare di segno. Già nelle ultime due settimane di giugno, mentre la Commissione stava decidendo se procedere o meno contro l’Italia, Tria aveva speso tutta la sua “moral suasion” per evitare le uscite quotidiane di esponenti leghisti sui miniBot come valuta alternativa o sul controllo della Banca d’Italia. Nel ristorante di via XX settembre sanno e temono che se gli illustri commensali si mettessero a urlare di nuovo il loro disgusto per l’Europa, quel menu preparato con tanta cura potrebbe rapidamente bruciarsi con una fiammata di spread.
Manovra da 27 miliardi canale aperto con l’Ue e la Lega abbassa i toni. Per mettere in sicurezza il bilancio servirà un intervento da 1,5 punti di Pil. Al Mef dossier in stand-by, si guarda a Bruxelles per avere spazi sul deficit. Dopo l’avvertimento di Fitch, il leader del Carroccio prova a rassicurare: nessuna intenzione di uscire dall’euro (Messaggero p.8).
Incompiute. Dai decreti “senza intesa” incognita per l’Ilva Scuola, torna l’incertezza per 53 mila precari. Una coda di norme approvate solo formalmente dal governo ma mai mandate in gazzetta ufficiale: non hanno validità. Solo se si riuscirà a trovare un accordo le camere potranno esaminarli e convertirli anche in regime di prorogatio (Messaggero p.8). Niente più aiuti ai lavoratori delle aree in crisi e stop a 18 miliardi di privatizzazioni. Ilva, rider, giustizia e assunzioni nella scuola. Tutti i decreti e le riforme rimasti a metà (Stampa p.6).
I Vescovi. Il presidente dei vescovi europei: “La crisi preoccupa. Basta simboli religiosi in politica” Parla il Cardinal Bagnasco: “Ogni forma di chiusura, personale o collettiva nega il vero bene. Il Santo Padre afferma che il popolo è sovrano, quel suffisso “-ismi” non fa mai bene. Una buona politica migratoria segue tre criteri: ricevere, accompagnare ed integrare. I cattolici trovano in queste parole un chiaro orientamento. Dopo la tragedia del Morandi, sono convinto che Genova sarà guardata e sostenuta da tutti come un bene per l’Italia. Siamo sotto gli occhi del mondo (Repubblica p.8).More
Dice che i criteri per valutare una buona politica migratoria sono tre, «ricevere, accompagnare, integrare». E che anche se molti cattolici votano Lega, è soltanto qui che essi possono trovare «un chiaro orientamento». Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e capo dei vescovi europei, parla con Repubblica della particolare situazione che sta attraversando l’Italia, esprime “preoccupazione” per la crisi di governo che si augura si superi «il più velocemente possibile». Insieme, invita a prestare attenzione ai rischi di sovranismi e populismi: «Quel suffisso ‘-ismi’ non fa mai bene», dice. E ancora invita i politici a non abusare dei simboli religiosi perché «esprimono quanto è di più prezioso al mondo interiore delle persone e delle comunità: sono da guardare sempre con venerazione e in modo appropriato». Eminenza, Francesco si dice preoccupato per l’Europa perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. Lei da presidente dei vescovi europei che sensazioni ha? «Per quanto riguarda l’Italia, ritengo che il nostro ordinamento costituzionale preveda precise procedure, diverse responsabilità, differenziazioni di ruoli e di competenze, che forniscono garanzie e protezione rispetto a rischi di eccessive concentrazioni di potere, come si sono viste in altri tempi della storia europea». Qualche mese fa è stato il suo confratello Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Commissione delle conferenze episcopali della Ue, a definire Steve Bannon e Aleksandr Dugin “sacerdoti di populismi che evocano una falsa realtà pseudo-religiosa e pseudo-mistica, che negano il centro della teologia occidentale». Ritiene che anche i richiami alla Vergine Maria e ai simboli religiosi in generale del vicepremier Salvini nascondano questo stesso pericolo? «Il cristianesimo ha al suo cuore la rivelazione del volto di Dio, che è amore, e l’incomparabile dignità della persona umana. In questo orizzonte la relazione tra le persone e tra i popoli appartiene alla nostra natura e alla nostra vocazione. Ogni forma di chiusura, sia personale sia collettiva, nega il vero bene, che sta nella comunione con Dio e con gli altri. Il Santo Padre afferma che “il popolo è sovrano, invece i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso ‘-ismi’ non fa mai bene”. I simboli, in genere, esprimono quanto è di più prezioso al mondo interiore delle persone e delle comunità, pertanto sono da guardare sempre con venerazione e in modo appropriato». Lei è arcivescovo di Genova, legato profondamente alla sua città oggi più di altre in crisi per la mancanza di lavoro. Per anni ha guidato la Conferenza episcopale italiana chiedendo più volte una politica che operi per il bene comune. Come giudica l’aprirsi dell’attuale crisi di governo? «Di fronte a ogni crisi di governo non può non nascere un senso di preoccupazione, perché la gente ha bisogno di stabilità e di certezza. Confido nel senso di responsabilità di tutti i soggetti del mondo politico per superare nel modo migliore e più veloce possibile questo momento, perché la nazione possa rivolgersi al suo futuro con serenità e determinazione, tenendo conto che oggi l’avvenire di ogni comunità non può prescindere da rapporti rispettosi e virtuosi con gli altri popoli del continente europeo. Per quanto riguarda Genova, sono convinto che, dopo la tragica vicenda del ponte Morandi, grazie alla ritrovata collocazione strategica rispetto al Paese e al Nord Europa, e alla sua storia di laboriosità e di ingegno, la città sarà guardata e sostenuta da tutti come un bene non solo per la Liguria, ma per l’Italia. Siamo sotto gli occhi del mondo». I vescovi più volte si sono espressi contro le politiche migratorie della Lega. Eppure questa guadagna consenso anche tra i cattolici. Per quale motivo a suo avviso? «Il Santo Padre con molta chiarezza ribadisce che i criteri di una buona politica migratoria sono: “ricevere, accompagnare, integrare”. È sempre il Papa a ricordare che “i governi devono pensare e agire con prudenza, che è una virtù di governo”. I cattolici trovano, in queste parole, un chiaro orientamento». L’Osservatore Romano ha scritto che ci si prepara a una campagna elettorale senza esclusione di colpi. È preoccupato per i prossimi mesi? «Ogni momento di difficoltà deve essere affrontato con intelligenza e competenza politica e con onestà morale, avendo come obiettivo assoluto il bene della gente e quindi del Paese». Quali sono a suo avviso le vere priorità a cui che l’Italia deve guardare? «Quelle che ho sempre ricordato: lavoro, famiglia, cultura, stato sociale. Desidero anche ribadire – e lo vedo ogni giorno – che il nostro popolo ha grande il senso del proprio dovere, del sacrificio quotidiano, della dedizione alla famiglia, ai figli, ai propri malati, in silenzio e con eroismo. È un motivo di più per non deluderli».
Richard Gere e i migranti. I 330 bloccati sulle due navi Ong. E Gere attacca: “Politici stupidi”. Open Arms e Ocean Viking salvano altri 124 migranti e attendono un porto sicuro ma tutti i paesi dell’Ue tacciono. L’attore: “Ho interrotto la vacanza per dare una mano”. Salvini: “Li porti a Hollywood in aereo e li ospiti a casa sua” (Repubblica p.22). Dai barchini alle navi madre. Così si riorganizza il traffico di uomini. Dei 4mila sbarcati quest’anno, quasi 3.500 sono arrivati direttamente in Italia (Repubblica p.22). Italia e Malta mantengono il divieto di sbarco (Stampa p.13). «Porta i migranti a Hollywood». E Gere replica: «Più umanità» (Corriere p.14).
Razzismo. La mamma di Pietro: “Temo per i miei figli costretti a vivere in un Paese incattivito” (Repubblica p.27).
Editoriali e commenti.
Gli editotialiTravaglio
L’amico del cazzaro
Vuoi vedere che il Cazzaro Verde, da tutti dipinto come un genio della politica, l’ha pestata grossa? Tre giorni dopo la genialata di buttar giù il governo in pieno agosto senza dimettersi da vicepremier e da ministro nè far dimettere i suoi, appare già un tantino incartato. Da buon orecchiante improvvisatore, ha scoperto dalle ultime ripetizioni estive di Conte che l’Italia è una Repubblica parlamentare, le cui regole e procedure non consentono le elezioni prima di fine ottobre (se va bene). Dunque il suo eventuale governo monocolore (“corro da solo”, anzi “vediamo”) con “pieni poteri” non potrebbe nascere prima di fine novembre-inizio dicembre. Non avrebbe il tempo di varare e far approvare la legge di Bilancio. E partirebbe con una figuraccia mai vista, da Guinness dei primati: l’esercizio provvisorio col contorno di spread, speculazioni, infrazioni Ue ecc. In più il barometro dei social, che a noi fa un baffo ma per lui è legge, segnala fulmini e tempeste: insulti, critiche, pentimenti e sberleffi per il suo tradimento incoerente e incomprensibile. Più tempo passa, più la sua fuga per la vittoria potrebbe incontrare intoppi. I trionfi, nella politica italiana, arrivano inattesi: quando sono troppo annunciati, si rivelano spesso cocenti delusioni. Ne sanno qualcosa Renzi e i 5Stelle, dati l’uno per sconfitto e gli altri come stravincitori alle Europee del 2014, salvo poi aprire le urne e trovarsi a parti invertite. Che il fattore-tempo sia cruciale per le prossime elezioni, lo capiscono tutti. Lo capisce Salvini, che già dà segni di nervosismo perchè non si vota domani. Lo capisce Di Maio, che chiede il taglio dei parlamentari prima delle urne. Lo capisce Grillo, che chiede altri “cambiamenti” prima del voto, per rubare il tempo a Salvini. Lo capisce Grasso, che propone a centrosinistra e M5S di uscire dall’aula quando la Lega voterà contro Conte, così mancheranno i numeri perché il governo sia sfiduciato e Mattarella potrà lasciarlo al suo posto per fare poche cose (taglio dei parlamentari, legge elettorale e legge di Bilancio) prima delle urne a primavera e spostare le lancette dell’orologio salviniano. Lo capisce persino Renzi che, pur animato da interessi di bottega, lancia segnali per il governo M5S-Pd che impallinò nel 2018. L’unico che non lo capisce è Zingaretti, che ieri ha letto Repubblica (“Votare subito. Ma c’è chi dice no”), poi ha dichiarato: “Votare il taglio dei parlamentari è un trucchetto per non andare al voto”. Esattamente quel che dice Salvini. Il quale, come del resto B. per vent’anni, non ha nulla da temere: se ha un problema, glielo risolve il Pd.
Prodi
La fragilità italiana, un manuale di difesa
Romano Prodi sul Messaggero
Q uando si è di fronte ad una svolta politica come quella avvenuta in Italia corre l’obbligo di riflettere anche sul contesto economico nel quale questa svolta viene messa in atto e sulle conseguenze che verranno a prodursi nel campo dell’economia. Partendo dal contesto mondiale è infatti certo che siamo in fase di rallentamento, anche se non si può certo parlare di crisi globale. Negli Stati Uniti si è passati dal 3,1% di crescita del Pil nel primo trimestre dell’anno in corso al 2,1% del secondo trimestre. Nulla di drammatico ma un segnale di malessere dovuto alle troppo prolungate incertezze della politica commerciale. Le stesse incertezze rallentano la crescita cinese che dovrebbe superare di poco il 6%. Pur essendo ancora rilevante è al minimo della sua storia recente. La Cina, inoltre, ha lanciato il rischioso messaggio di considerare la svalutazione del cambio come strumento di reazione di fronte al possibile aumento dei dazi americani. Assai più preoccupante è la congiuntura in Europa, dove la Germania vede crollare il suo export e calare vistosamente la sua produzione industriale, così come sta accadendo in Gran Bretagna dove l’economia è entrata in segno negativo, il che non è mai accaduto dal 2012.
Arrivando all’Italia la situazione è stabilmente la peggiore tra tutti i grandi paesi europei. Alla recessione, che dura ormai da un anno e che ci ha relegati ad essere gli ultimi della classe, la recente rottura politica ha aggiunto l’aumento del famigerato spread che aggrava il nostro bilancio pubblico di oltre un miliardo all’anno di interessi passivi e devasta le quotazioni delle nostre banche. Se lo spread non è per ora arrivato ai livelli del 2011 lo si deve all’ancora breve durata della crisi e alla politica degli stimoli monetari annunciati nello scorso giugno dalla Banca Centrale Europea. La Bce, da parte sua, non può fare più di tanto, dato che oltre il 60% dei titoli pubblici dell’Eurozona ha già un tasso di interesse negativo. I tassi di interesse italiani sono perciò un’eccezione di enorme portata, che diverrebbe insopportabile se ci distaccassimo ancora di più dalla politica europea. Il nostro governo, che nell’ultimo anno ci ha portato ai margini dell’Unione Europea, ci ha già provocato danni rilevanti non solo in termini di crescita e di occupazione ma ha ridotto ai minimi storici la nostra partecipazione alle decisioni europee che tanto influiscono sul futuro del nostro paese. Le pur ripetute e insopportabili liti fra i due partiti di governo si sono trasformate in una vera crisi solo quando i 5Stelle hanno abbandonato il loro precedente sovranismo e hanno votato in favore di Ursula von der Leyen alla Presidenza della Commissione Europea. Che questa così importante decisione avrebbe innescato una crisi era una facile previsione su cui ci siamo soffermati su queste stesse pagine, anche se i tempi di messa in atto sono stati più rapidi delle nostre stesse previsioni. La Lega ha di conseguenza deciso di aprire una campagna elettorale rimettendo in primo piano il suo vecchio tema di una politica economica antieuropea e rispolverando gli slogan contro l’Euro che erano stati messi da parte negli ultimi mesi di fronte al fallimento di tutte le politiche portate avanti in questa direzione da altri Paesi. I casi del Portogallo e della Grecia hanno infatti dimostrato che una politica di estraniazione dall’Ue porta solo svantaggi e che il perseguimento di questi obiettivi, conclusa l’euforia della campagna elettorale, provoca il disastro ed impone perciò radicali mutamenti, come è avvenuto in entrambi i Paesi. Non è detto che una piattaforma anti europea possa avere lo stesso seguito di opinione pubblica che ha avuto la campagna anti immigrati, anche perché le più accreditate analisi mostrano che il giudizio positivo nei confronti dell’euro sta aumentando e che sempre meno sono gli italiani che ne vorrebbero uscire. È indubitabile che una campagna elettorale fondata su questi temi renderebbe ancora più precaria la nostra situazione economica e più difficile un nostro aggancio ai pur lenti ritmi di cammino delle altre economie europee. Un’Italia che deve ritrovare il livello degli investimenti e la qualità dell’innovazione necessarie per non soccombere difronte a una situazione economica così complessa non può mettere in dubbio la collocazione europea nella quale è destinata ad operare. Proprio le comuni difficoltà ci permetterebbero di acquistare la capacità di influenza che pure avevamo in passato. Solo in tale modo potremmo fare fronte ai comuni problemi che stiamo affrontando. Le difficoltà della Germania e le conseguenze negative della Brexit stanno infatti mutando le convinzioni di fondo e i processi decisionali che hanno fatto commettere tanti errori alla politica europea degli ultimi anni. Quello che non è stato possibile per la mancanza di una leadership illuminata è reso ora percorribile in conseguenza della necessità di superare insieme le comuni difficoltà. Credo che si debba quindi fare ogni sforzo per evitare di aprire una campagna elettorale che, fatalmente, provocherebbe un nostro drammatico isolamento in termini di equilibri finanziari e di livelli di crescita e di occupazione. Tutti gli elementi che abbiamo a disposizione dimostrano che gli italiani, nella loro assoluta maggioranza, condividono il comune destino europeo. Credo perciò che il rafforzamento di questa consapevolezza sia lo strumento più idoneo per superare la presente crisi.
LA SABBIA GETTATA NEGLIOCCHI
De Bortoli sul Corriere
De bortoli
L’ ipotesi di elezioni anticipate non è scontata. Salvini insiste: la parola agli italiani. Forse il leader della Lega, nella bulimica voglia di potere, ha sottovalutato qualche effetto collaterale della sua clamorosa rottura balneare. Se si dovesse andare al voto autunnale — perla prima volta nella storia repubblicana e nel periodo nel quale si discute della legge di Bilancio — è probabile che assisteremmo a una campagna elettorale del tutto particolare. Non che in altre occasioni il confronto tra i partiti sui datireali del Paese abbia prevalso sullo spaccio delle emozioni, lo scambio delle accuse, l’effetto stupefacente delle promesse irrealizzabili. È sempre successo così, accadrebbe anche questa volta. Ma con una piccola differenza. Ci sarebbe un vincitore annunciato. Non una coalizione, almeno peril momento. Una persona sola. Mai accaduto. Già questo aspetto dovrebbe sollevare qualche inquietante interrogativoeportare a un’analisi più realisticaedi buon senso da parte degli altri attori della scena politica. Ma facciamo l’ipotesi che si vada al voto. Gli impegni che Salvini prenderebbe, nelle prossime settimane, «di fronte al popolo italiano» come piacealui (e non restando ministro dell’Interno!) costituirebbero una sorta di «contratto personale»
N on potrebbe più dire, una volta a Palazzo Chigi — sempre che i sondaggi oggi generosi si trasformino in voti reali — di non essere in grado di attuare questa o quella parte del programma per colpa degli alleati. Un po’ come ha fatto abilmente in questi quattordici mesi, facendo sopportare tutti i costi dell’immobilismo del governo Conte ai suoi sciagurati compagni di strada, i Cinque Stelle. Come se quel «contratto del governo del cambiamento»nonavesse anche la sua firma. E nell’ipotesi che l’esecutivo a sua guida, come prima e più urgente incombenza, debba scrivere una legge di Bilancio per il 2020, non potrebbe giustificare incertezzeeripensamenti sostenendo di non conoscere (come hanno fatto tanti governi al debutto) lo stato reale delle finanze pubbliche. Salvini ha condiviso, pur essendo stato molto nelle piazzeenelle spiagge e poco alViminale,tutte le scelte dell’esecutivo Conte. Ne porta la piena responsabilità politica. Immaginiamo poi che la campagna elettorale sia tutta all’insegna della richiesta di un forte mandato popolare per scardinare la «gabbia ingiusta e austera» dell’Unione europea. Ma forse qualcuno gli ricorderà che la testa nei confronti degli «odiosi burocrati di Bruxelles» l’ha già abbassata due volte. In occasione della retromarcia sulla legge di Bilancio del 2019 e nel sottoscrivere gli impegni che hanno scongiurato una procedura d’infrazione per il debito. Lui potrebbe ribattere: sì ma non ero io il capo del governo e la Lega aveva un peso inferiore alla Camera e al Senato. Piccolo particolare: l’Italia si è impegnata, in quella occasione, a contenere il disavanzo strutturale anche nel 2020. E anche in questo caso c’era la sua firma politica. Era comunque in gioco la sua credibilità. E il futuro premier si accorgerebbe sulla suapelle che cosa vuol dire per un Paese indebitato come il nostro venir meno a obbligazioni sottoscritte. È già accaduto altre volte. Non potrebbe prendersela con i «numerini» della Commissione, anche perché il copyright dell’espressione è del suo ex alleato vicepremier Di Maio. Ed essendo un buon padre di famiglia, con la testa sulle spalle, siamo certi non si affiderebbe ai tanti «dottorini Stranamore» che vagheggiano uscite dall’euroemonete parallele. Dunque, nel porre fine a un «governo di separati in casa con divisioni e odii individuali», come ha scritto ieri nel suo editoriale il direttore Luciano Fontana, Salvini ha bruciato alle sue spalle tutti i comodi ponti dell’ambiguità dei ruoli. D’ora in poi non ci sono più alibi. Non ci sono più scuse. Non se la può prendere più con nessuno. Se non con se stesso. In ogni caso, si voti o no, rimangono le illusioni, tante, troppe, che rischiano di trascinare in un baratro, non solo economico, un intero Paese. L’illusione che facendo più deficit, anzi «sano deficit» come dicono i leghisti, si possa ridurre il rapporto fra il debito (di cui nessuno parla più, argomento rimosso) e il prodotto interno lordo, desolatamente fermo. Non è mai successo. O che si possa combattere l’evasione fiscale (vera gramigna italiana, battaglia accantonata) insistendo con sconti e condoni. Oppure parlando di flat tax quando è chiaroatutti che, allo stato dei nostri conti pubblici, è un’utopia ingannevole. E ancora, l’illusione che mandando in pensione le persone prima, i posti di lavoro vengano occupati tutti da giovani che peraltro continuano ad andarsene. Sarà poi curioso capire, in una eventuale campagna elettorale, specialmente al Sud, se Salvini annuncerà la cancellazione, una volta al governo, del reddito di cittadinanza. E come spiegherà, da quelle parti, l’autonomia differenziata chiesta a gran voce dai suoi governatori del Nord. La rappresentazione di comodo della realtà economica—considerando i mercati una sortadi bisca affollatadi speculatori senza scrupoli —èil carburante del sovranismo, il moltiplicatore del consenso. Ma è anche fumo, o meglio sabbia, negli occhi dei cittadini, ai quali il conto prima o poi arriva. E lo pagano i più deboli.
Franco
L’oradelleregole dopoilblitz
Massimo Franco sul Corriere
L’ istinto di onnipotenza di Salvini comincia a fare i conti con la Costituzione e il Parlamento. continua a pagina 6
Il suo blitz teso a portare l’Italia alle elezioni anticipate sta riuscendo, ma solo in parte. Sancire unilateralmente la fine della maggioranza con il Movimento5Stelle potrebbe condurre quasi perforza di inerzia alle urne. Eppure l’esitoèincerto. La Lega, nella sua corsa affannosa verso il voto, addita e pretende iltraguardo vicinissimo; il Parlamento, nel quale per ora ha solo il17% dei voti, invece, lo osserva col cannocchiale rovesciato: più lontano,forse non a portata di ottobre. D’altronde, lo strappo leghista costituisce una forzatura che ha fatto scivolare in secondo piano l’interesse nazionale, privilegiando solo i calcoli elettorali di un partito sicuro di avere il vento in poppa e di doverlo sfruttare subito. Il Carroccio sembra avere sottovalutato l’allarme che il suo diktat sta provocando, e non solo in Italia, perla forte componente estremistica e antieuropea che sprigiona. Esistono impegni finanziari e scadenze di governo da rispettare, e vincoli che non possono essere scansati solo per permettere la «presa del potere» salviniana dai contorni di una guerra-lampo sulla pelle dell’Italia. Restituire lo scettro della crisi al Parlamentoeal Quirinale è una via obbligata costituzionalmente.Non sitratta difrenare le ambizioni di vittoria leghiste ma di permettere all’opinione pubblica di comprendere le ragioni della rottura e renderla trasparente nei suoi passaggi.Non sarà facile. Ilterrore grillino di un voto anticipato che falcidierebbe i suoi consensi e le sue rappresentanze parlamentari porta un redivivo BeppeGrillo a invocare un fronte controi«barbari» di Salvini: versione aggiornata e pasticciata di unità nazionale. Proposta singolare. Il «nuovo» si aggrappa all’odiato sistema non per salvare il Paese e la tenuta dei conti pubblici, ma soprattutto per salvare se stesso, contando di mettere insieme paure trasversali. È una reazione simmetrica e opposta a quella della Lega. E offre il medesimo brutto spettacolo da parte della ormai ex maggioranza.Avventurismo elettorale leghista e strumentale trasformismo grillino vanno a braccetto, accompagnati dal solito corredo di insulti. Con quali esiti, si vedrà. Ma proprio per questo, ora più che mai Costituzione, ParlamentoeQuirinale sono le uniche garanzie di serietà contro azzardi e furbizie accomunati da una spregiudicatezza venata di irresponsabilità. Se e quando si arriverà alle elezioni è ancora da capire. E non è detto che sia la cosa migliore peril Paese. Si dovranno evitare pasticci e ammucchiate improbabili, ma anche scongiurare accelerazioniforiere solo di fratture più profonde e pericolose, peri rapporti interni, perla tenuta dell’Italia e perle relazioni coninostri alleati europei. Ilrispetto delle regole è il minimo che si debba pretendere da chi da tempo mostra una prepotente inclinazione a calpestarle peril proprio esclusivo tornaconto. Sarebbe bene se ne rendessero conto anche le opposizioni, per non ridursi alruolo di strumenti subalterni di una demagogia che ha già prodotto molti guasti.
Scalfari
Veltroni
Lerner
di Luigi Manconi e Valeria Fiorillo
gfeltrfi
sallusti
Per sopravvivere Renzi diventa un pentastellato
Giuli
Urinati
Il manifesto
Belpietro
Il Tesoro. Nel 2019 servono 125 miliardi. A tanto ammontano le aste dei titoli di Stato da qui alla fine dell’anno. Sui conti l’ipoteca dello spread. Il Tesoro quest’anno ha già raccolto 284 miliardi con BoT e BTp, Dopo la forte domanda degli ultimi mesi, in futuro potrà pesare la turbolenza sui mercati. Per ora nessun allarme sulle aste, ma c’è il pericolo di un aumento di costi con effetti negativi sulla manovra. Domani nuovo test sui mercati (Sole p.3).
Nomine. La crisi congela le nomine. Oltre 70 poltrone in gioco. A breve un dedalo di scadenze tra Authority, enti pubblici e partecipate del Mef e di Cdp. In autunno parte la corsa per rinnovare i vertici delle big: Enel, Eni, Leonardo, Poste, Enav e Terna (Sole p.4).
Alitalia. Alitalia, i soci accelerano su piano e ad. Agosto di lavoro per Ferrovie, Atlantia e Delta per limare il progetto industriale, ancora distanze su network e alleanze. Entro fine mese summit Battisti, Castellucci e Bastian sull’offerta. In corsa per il vertice Altavilla e Scaramella (Messaggero p.14). Senza soldi pubblici precipita la nuova Alitalia. Continuano i tavoli tecnici tra Fs, Delta e Atlantia, ma tra un mese servirà un governo (Repubblica p.10).
Una banca per i piccoli. “Una banca pubblica per i piccoli. Senza il credito soffochiamo”. Intervista al leader di confartigianato Merletti: “i prestiti sotto i 50 mila euro non convengono, troppi costi burocratici. Bene estendere la flat tax a 100 mila euro, ma serve anche la semplificazione delle aliquote Irpef. Il rialzo dell’aliquota Iva su alcuni beni non è un tabù. La strada è un mix di tagli e investimenti (Corriere p.31).
Cambia lo Ior. Il Papa cambia la banca del Vaticano. Più poteri ai vertici e controlli esterni. Nuovi statuti per lo Ior: potenziati il prelato e il direttore, che diventa “generale”, scompaiono i revisori interni. La mossa mette l’Istituto in linea con i parametri internazionali e punta ad avvicinarlo alla missione della Chiesa (Repubblica p.32). Revisore esterno e teleconferenza. Regole più severe per il personale: dovrà lavorare in esclusiva. Il board da 5 a 7 membri (Corriere p.32).
La tv che cambia. Il presidente della Rai Marcello Foa invita a puntare sui contenuti nazionali e locali, dall’informazione ai format. “Dialogo con le emittenti pubbliche europee per una piattaforma comune. In casa si potrebbe parlare con Mediaset & Co. Per sfidare i colossi della Tv digitale l’Italia ragioni su un patto di sistema. Produzione italiana e sintonia col pubblico sono una forza. E qui nessuno ha le nostre conoscenze. Il mandato triennale del Cda Rai non aiuta a impostare un discorso di medio e lungo periodo. Netflix è pronta alle coproduzioni ma la formula delineata non va. Non siamo ingenui. Sulla piattaforma collettiva i tedeschi vogliono risposte entro settembre: ci vorrà di più (Stampa p.9).
Giustizia. Il vuoto che rallenta la giustizia. Nelle aule mancano mille giudici. A Brescia ogni magistrato ha un’utenza media di 15.124 cittadini, i colleghi di Reggio Calabria 3.603.
In termini assoluti la carenza maggiore è a Napoli: sono 132 i posti vacanti. Ogni giudice si occupa in media di 473,6 procedimenti. La pianta organica del ministero di Grazia e Giustizia prevede 6944 magistrati. Il numero di magistrati ideale secondo i conti del ministero sarebbe di 7954. Il tasso medio di scopertura nei distretti giudiziari e del 12,7%. 781 i giorni – in media – di durata di un processo di primo grado a Messina. Lo studio di Confartigianato Veneto: il problema rischia di aggravarsi con i prepensionamenti a “quota 100”.
Giustizia 2. Bari, 12 mesi dopo, un tour da incubo nelle 8 sedi del tribunale. Dalla tendopoli alle udienze tra lavori in corso e traslochi. La rabbia degli avvocati: non abbiamo il dono dell’ubiquità. 94 i milioni necessari per creare un polo della Giustizia nelle ex Casermette. 17 i chilometri che separano le aule di Bitonto da quelle di Modugno.
Giustizia 3. Tempio Pausania. In Gallura i processi si bloccano. Migliaia di reati impuniti (Stampa p.14 e 15).
Cassazione, corsa a 9. Salvi in pole position. Non prima di ottobre la nomina del Pg: anche Riello tra i favoriti. Procura di Roma, tempi lunghi dopo il caso Palamara: ipotesi nuovo bando. Le indiscrezioni sul possibile sostituto di Fuzio uscito di scena dopo essere stato indagato (Messaggero p.11).
Diabolik, nel commando ora spunta un terzo uomo. Un “palo” avrebbe segnalato al killer l’arrivo in anticipo di Piscitelli al parco. Si cercano analogie con vecchi delitti dei clan. Il sicario voleva uccidere anche l’autista. La zona in cui è avvenuta l’esecuzione è un territorio del gruppo senese. L’assassino forse ha un tatuaggio (Messaggero p.13).
Russia 1. La Russia ammette: “Esploso un missile durante test atomico”. L’incidente al largo di Severodvinsk. Almeno 5 morti. Corsa nelle farmacie per le pillole anti-radiazioni. 185.000 gli abitanti di Severodvinsk, cittadina vicina al luogo dell’incidente. Secondo Greenpeace le radiazioni hanno superato 20 volte il livello normale (Stampa p.10).
Russia 2. L’opposizione in piazza contro l’esclusione dei suoi candidati alle elezioni. Arrestata Liubov Sobol. In sessantamila sfidano Putin. “Ora non potrà più ignorarci”. Dall’inizio delle proteste la polizia ha arrestato 2.400 persone (Stampa p.10). La repressione non ferma la protesta. Oltre 60 mila in strada per chiedere voto libero. Folla mai vista dal 2012 (Repubblica p.19).
Trovato impiccato Epstein. Si impicca in carcere il finanziere Epstein. Era accusato di decine di violenze su minori. Le vittime: il suo ultimo atto di egoismo. Aveva già tentato di uccidersi. Una donna coinvolge il principe Andrea. Amico dei potenti, sedicente filantropo, andava ai party con i Trump e sull’aereo con Clinton. Nonostante la condanna per violenza sessuale, gli atenei liberal accettavano i suoi assegni. La vita dorata di Jeffrey lo schiavista che finisce nelle buie celle di Manhattan. Per anni ha vissuto in un clima di impunità, anche quando le accuse si moltiplicavano (Stampa p.11).
Cuba ed ebrei. Viaggio nella piccola comunità dell’Avana. Nonostante le ristrettezze economiche, oggi ospita turisti e riscopre le tradizioni sefardite. La nuova vita degli ebrei di Cuba. “Sopravvissuti a Fidel, ora resistiamo”. Gran parte dei membri è fuggita a Miami dopo la Rivoluzione. Loris Zanatta: “Castro era un re cattolico. Comunista, ma con la Bibbia. Perseguitò la religione, ma fondò uno stato etico. Fidel prima di morire è tornato alle origini auspicando l’alleanza tra cattolicesimo e Islam contro il capitale (Stampa p.12).
Brexit, Buckingam Palace avverte: “Tenere la regina fuori dalle beghe”. Con il premier Boris Johnson intento a portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europa «vivi o morti», e il Paese apparentemente avviato verso il divorzio da Bruxelles senza un accordo, potrebbe davvero toccare alla Regina bloccare la Brexit e salvare il suo regno dal precipizio? Fino a poco tempo fa la domanda sarebbe sembrata pura fantapolitica, ma adesso se ne discute apertamente, anche se talvolta solo in maniera provocatoria. Sta di fatto che il «Daily Telegraph», quotidiano vicino alla Casa Reale, ieri ha dato la notizia di colloqui tra Downing Street e Buckingham Palace per discutere della situazione e tenere la Regina fuori dalla Brexit.In 67 anni di regno, il più lungo nella storia del Paese, Elisabetta è sempre rimasta al di sopra della lotta politica. Ma nell’imprevedibilità in cui è piombato il Paese dal referendum del 2016, nulla si può escludere. Tranne, forse, un intervento della Regina (Stampa p.17).
Kashmir. Nella terra sotto coprifuoco dove anche pregare è vietato. “L’India ci vuole cancellare”. Le voci e gli appelli oltre il muro di silenzio imposto da Nuova Delhi allo Stato musulmano. Revocata l’autonomia le comunicazioni sono tutte bloccate. E nelle strade scontri e feriti. “Ora il mondo ci aiuti. Sarebbe meglio se ci bombardassero piuttosto che infliggerci la tortura quotidiana delle restrizioni” (Repubblica p.17).
Senza ponte. Le macerie, la speranza. La vita sospesa di Genova un anno dopo il crollo. “Era il nostro rumore di fondo”, dice la gente. “Una pioggia di calcinacci e cascate d’acqua quando pioveva”. La prova regina per ora è il reperto 132, tre metri di cemento e fili d’acciaio in “uno stato corrosivo di tipo generalizzato”. Pino Corrias su Repubblica a pagina 20. More
Vista dai piccoli vigneti di Coronata, Genova è un teatro steso sulla sua storia. Case a perdita d’occhio. Palazzi costruiti su altri palazzi. Strade su altre strade, viadotti, gallerie. Colpo d’occhio di un disordine verticale. E laggiù in fondo la linea scura e concava del porto che diventa mare.
Nel mondo di prima c’era il Ponte. Si vedeva da quassù. Stava tra l’Appennino e il futuro, portava alle fabbriche italiane e alle spiagge dell’estate. Era il miracolo dell’ingegneria dentro il Miracolo Economico. Era il ponte levatoio del porto che riempiva e svuotava gigantesche navi container. Che mandava milioni di Tir verso le catene di montaggio di Milano e Torino, verso i laminatoi del Veneto. E che poi, magicamente, ogni estate, diventava lo scivolo d’asfalto di quegli stessi operai che arrivavano dalle nebbie del lavoro per godersi il sole delle ferie pagate. Per imparare i piccoli riti delle rotonde sul mare. Indossare la nuova giovinezza italiana che diventava ceto medio e profumava di creme solari.
Dopo lo schianto, il sangue, i lutti, oggi il Ponte è diventato una striscia bianca di macerie, 50 mila tonnellate di cemento, polvere, ferro, acciaio. Tutto imploso in 6 secondi un anno fa, 14 agosto 2018, ore 11,36, tuoni, pioggia a folate. Il lampo. Il crollo. Le macchine volate nell’abisso. I 43 morti, uno sull’altro dentro automobili accatastate e camion e furgoni. I feriti. I sopravvissuti. Tutti convocati in quell’istante dalla tragedia — «la più grande tragedia di Genova dal dopoguerra a oggi» hanno strillato le tv e i giornali del mondo — che ha una sua colonna sonora e immagini registrate dalle nove telecamere di sorveglianza del traffico e specialmente dal telefonino di Davide Di Giorgio, tecnico informatico che sta filmando il nubifragio dalla finestra e grida quel grido inciso per sempre: «Oh Dio, oh Dio! Mio Dio!» a dirci che l’impensabile stava accadendo, anche se impensabile non era, e che il più celebre ponte d’Italia era crollato sul suo sogno. Su tante vite spezzate. Sui 600 sfollati. Su una città cresciuta annodandosi a se stessa. E che in quell’istante si scioglieva, insieme con gli stralli del Ponte corrosi dal sale del tempo e dall’incuria degli uomini.
Nel mondo di prima il Ponte era la cerniera stesa su Genova. Lo aveva disegnato il grande ingegnere Riccardo Morandi, mago del calcestruzzo armato e precompresso, 1.182 metri di asfalto stesi a 45 metri di altezza, sostenuti da tre coppie di piloni alti 90 metri. La prima pietra nell’anno 1963, l’ultimo strallo a metà del 1967. Il 4 settembre di quell’anno la Lancia Flaminia del presidente Giuseppe Saragat lo aveva attraversato per prima, inaugurando l’Italia in bianco e nero che diventava a colori. O almeno così sembrava a tutti tranne che a quella metà di Genova, la Genova del Ponente, dell’Italsider, dei forni, dell’Ansaldo, delle raffinerie maleodoranti, della ferrovia, degli svincoli uno sull’altro, che se lo ritrovava sulla testa, come orizzonte, come premonizione, a scavalcare la fossa sassosa del Polcevera, torrente specializzato in all uvioni.
Sotto il suo cielo di cemento hanno vissuto due generazioni di genovesi che lo chiamavano “U Bruklin”. E lo temevano. Oggi, camminando tra quel che resta di via Porro e via Fillak, palazzine Anni ’50 di ferrovieri, operai, immigrati, c’è un’aria da dopoguerra, platani sfiancati dal caldo, polvere, negozi e case abbandonate. Tutto chiuso: la carrozzeria dell’angolo, la pizzeria, il benzinaio, Giusy l’estetista. «Era il nostro rumore di fondo», ti dicono, parlando dei milioni di camion e automobili in transito giorno e notte. «Era una pioggia continua di calcinacci e polvere». «Erano cascate d’acqua quando pioveva». Era aria che non si respira. Erano i tonfi degli eterni lavori in corso. Come nell’ultima settimana, sull’ultimo cantiere appeso al carroponte lassù, Pila 9, martelli pneumatici e fiamme ossidriche tutta la notte per arginare quel che non si poteva più. «È crollato come un corpo che muore» ha detto il procuratore Francesco Cozzi, titolare dell’inchiesta per omicidio plurimo, 74 indagati e due società, Atlantia e Aspi, in capo alla famiglia Benetton, che lo avevano in concessione. Anche se a crollare era cominciato trent’anni prima. Se n’era accorto persino Morandi che prima di morire, anno 1989, aveva raccomandato ai suoi discepoli «di controllare il Ponte».
Di quanto potesse durare il calcestruzzo sospeso non si sapeva molto. Specie se sopportando un traffico che si moltiplicava per dieci, per cento. Secondo il Cnr che definiva il Ponte elegante, ma esile, “tra i 50 e i 70 anni”. Per la sua manutenzione lo Stato aveva speso 24 milioni di euro in diciassette anni, tra il 1982 e il 1999. Ma quei lavori si erano polverizzati in poco più di nulla, 24 mila euro l’anno, da quando le privatizzazioni lo avevano assegnato ai Benetton, titolari di metà dei 6 mila chilometri di autostrade italiane, tariffe sempre in crescita, nonostante la crescita del traffico, vantaggio per le casse della famiglia, ma anche per quelle dello Stato che incassava un terzo dei guadagni come canone di concessione e tasse. Dettaglio sempre sfuggito al ministro Danilo Toninelli che un minuto dopo il crollo già esibiva i colpevoli a risarcimento di tutti i politici e delle loro colpe. Ignari almeno quanto Giovanni Castellucci, il numero uno di Atlantia, che il giorno dopo il crollo dichiara al Gr1: “Non mi risulta che il Ponte fosse pericoloso”.
Noncuranza per interesse e quindi colpa, vedremo. Ma resa possibile dall’indifferenza di molti, cioè di quasi tutti. Compreso lo Stato che aveva il potere di controllo. Compresa l’opinione pubblica impegnata da trent’anni a litigare sulla sistemazione di quel nodo di asfalti che strozzava Genova, le vie d’accesso alla Riviera, alla Francia, al mondo, battezzate Bretella, Raddoppio d’Autostrada, poi Gronda con cinque alternative di tracciato, non una sola, dentro e fuori dalla pancia dell’Appennino. Gli sviluppisti contro gli ambientalisti. Tutti in piedi intorno al declino della città abbandonata dalle Partecipazioni statali, dai grandi insediamenti industriali, passata da “quasi un milione di abitanti” del 1971, alla metà di oggi, le scatole metallurgiche e le raffinerie diventate Centri commerciali per lo shopping: Ikea, Decatlon, Leroy Merlin. Il mare sempre più distante dalla città, salvo l’ossigeno di Renzo Piano, l’architetto, che ha inventato l’Acquario e il Porto antico a restituire un po’ di luce nell’ombra di un destino.
«Risorgeremo dal crollo» ripete da un anno il sindaco Marco Bucci, che ha i gomiti ben piantati sul suo cronoprogramma: «Nove mesi per ricostruire, tre per il collaudo ». Il primo pilone già in costruzione sulle macerie di quello vecchio. Il nuovo Ponte pronto per aprile 2020. Costerà 202 milioni, lo ha disegnato sempre lui, Renzo Piano, «sarà in acciaio e durerà mille anni». Si chiamerà De Andrè, oppure Tenco, poeti più popolari dell’inarrivabile Eugenio Montale o del magnifico Giorgio Caproni che cantava Genova fatta di ferro, vertigine d’aria e scale.
Genova oggi è fatta di mille camion che dai cantieri del Campasso spostano le macerie non si sa bene dove, per ora a fabbricare colline a Sestri Ponente. Forse destinate a diventare una nuova banchina di Fincantieri. O a essere interrate nel progettato parco del Polcevera, il Parco del Ponte, 680 mila metri quadrati di piazze, viali e naturalmente memoria.
Memoria che oggi cammina sulle spalle dei familiari delle vittime. Su quella dei sopravvissuti, come Davide Capello, 33 anni, il calciatore volato via con l’auto: «Precipito, sto morendo. Invece la macchina si incastra. Illeso. Anche se da allora non riesco più a dormire». O Rita Giancristofaro, 41 anni: «Ricordo il rumore, il vuoto, la terra sopra. Poi dal buio una voce, era un pompiere». O Gianluca Ardini, 29 anni, autista, appeso nel vuoto per quattro ore con il suo furgone. Salvato da Bruno Guida, 54 anni, elicotterista: «Ci siamo calati dall’alto. Lo abbiamo estratto vivo, non so neanche come ci siamo riusciti».
Memoria che cammina sulle spalle degli sfollati, 258 famiglie, 600 piccolissime storie nel grande dramma, «Vogliamo vivere, non solo esistere» dice il loro striscione sulla strada. Tutti destinati a nuovi appartamenti, nuovi quartieri, vite da ricominciare con i soldi in gran parte già distribuiti da Atlantia, generosa a chiudere i conti, ma in cambio di una firma a garanzia di «nulla a pretendere in futuro» per ridurre i rischi di contenziosi, magari organizzati in Class Action.
Il crollo è già costato, secondo i conti di Confindustria, 400 milioni a imprese e commercianti, più 2 milioni al giorno per i costi del traffico diventato un incubo di ingorghi. La sua coda di sangue sarà il cuore del processo che ha già accumulato migliaia di carte e 60 terabyte di dati gestiti da un software dell’Fbi, in grado di incrociarli. La “prova regina” per ora è il reperto 132, custodito tra i mille trasportati in Svizzera, 3 metri di cemento e fili d’acciaio in “uno stato corrosivo di tipo generalizzato”. Ma a dire il vero sarebbe bastato il colpo d’occhio per accorgersi che il ponte “era un tavolo pieno di tarli”. Ascoltare gli allarmi degli abitanti. Le continue denunce. “Accorgersi del suo presente invece di continuare a litigare sul suo futuro”, come dice Federico Romeo, 26 anni, il combattivo presidente del Municipio 5.
Nel mondo di prima c’era il Ponte Morandi. È durato 51 anni, 15 presidenti di Regione, 14 sindaci, una cinquantina di governi. Nessuno che abbia avuto il coraggio di chiuderlo per ripararlo davvero, avrebbe significato chiuderlo alla fatica del lavoro e alla felicità dell’estate che ormai marciano con la medesima frenesia. La sua tragedia alla fine è stata più grande della sua storia. E la sua storia è diventata un pezzo della nostra tragica commedia.