Domenica quattro agosto
Texas,strage alsupermarket
Almeno 19 morti, forse 22, anche bambini. Un’altra sparatoria insanguina l’America a pochi giorni da quella messa a segno da un giovane suprematista bianco al food festival inCalifornia.Teatro della tragediaunaffollato supermercato di El Paso, in Texas. Il bilancio provvisorio parla anche di feriti gravi molto gravi.Adagire un solo killer,poifermato dalla polizia. Patrick Crusius, 21 anni, di Dallas, bianco.
Corriere in prima e pagine 10 e 11
Assalto, spari e terrore nel centro commerciale Morti e feriti in Texas Molti bambini coinvolti nella strage in un sabato dishopping a El Paso Almeno 19 vittime,fermato un 21enne bianco.Trump: «Dio sia con voi»
Corriere a pagina 10
L’ANALISI
Sedici attacchi solo nel 2019 Cosìsi passa dall’emulazione al contagio
Guido Olimpio sul Corriere in prima e a pagina 11
Sedici attacchi nel solo 2019. Il penultimo al Festival dell’Aglio a Girloy, in California dove ha agito un giovane con simpatie perl’estrema destra e un profilo tuttavia confuso. Infatti l’Fbi non ha ancora compreso il movente. Poi, a seguire, il tiro sui clienti del centro commerciale a El Paso. Qualche esperto che segue questo fenomeno è arrivato ad ipotizzare che esista il contagio, qualcosa di più dell’emulazione. Con episodiravvicinati nel tempo dove qualcuno apre il fuoco su persone inermi. Quasi che ci fosse un’ispirazione diretta, istantanea. Così scuole, posti di lavoro, luoghi della vita quotidiana sono trasformati in un’arena di sangue. Alcune di queste stragi americane hanno una motivazione politica. C’è il terrorista che sirichiama all’Isis. Non è riuscitoaraggiungere il Califfatoeapre il fronte in America. Molto più spesso agiscono terroristi interni. Bianchi, xenofobi, misogini. Siradicalizzano in fretta in nome del suprematismo, trangugiano ideologie, non dirado lasciano degli appelli per invitare altri a seguirli in questi assalti. Video, post sulla rete diventano «testimonianze», percorsi da imitare. Una minaccia in espansione dagli Stati Uniti al resto del mondo occidentale. Purtroppo sottovalutata, nascosta dietro cavilli giuridici per non classificarla come atto di terrorismo. In queste ore sulla rete sta circolando un documento—da verificare—del presunto killerin Texas, identificato come Patrick Crusius. È un manifesto dove sostiene di aver agito in risposta all’invasione ispanicaefa riferimento al massacro di Christchurch, in Nuova Zelanda, dove un neonazista ha preso di mira le moschee. L’assassino addossa la colpa agli immigrati, denuncia la distruzione dell’amato Texas, usa slogan semplici che però fanno presa e non è difficile leggerli ogni giorno sui social, se la prende con democratici e repubblicani. Scrive che l’inazione non è un’opzione, dunque è necessario reagire. L’omicida compatisce«i camerati europei»perché non hanno armi a disposizione e devono assistere alla fine del continente senza fare nulla. Dice anche di essere preparato di recenteein modo sommario, ma non importa perché ciò che conta — come per un seguace dello Stato Islamico—èl’azione stessa. Meticoloso spiega il tipo di arma usato, un WASR 10, la versione romena del Kalashnikov. Il fucile identicoaquello impiegato dal killer di Girloy. Le prossime ore serviranno a capire se è davvero lui lo sparatoreel’eventuale «cornice». Per gli investigatori è spesso complicato decifrare la personalità degli assassini in quanto possono mescolare motivazioni personali e spinte politiche. Ibridi pericolosi, capaci di uccidere, che arrivano silenziosi sui loro bersagli esposti e indifesi.
2 Corinaldo
I baby mostri dello spray
Sette giovanissimi arrestati per il massacro di Corinaldo (Ancona): sotto accusa per 95 rapine nei locali Le intercettazioni: “Sono morti in sei, la gente urlava, che spettacolo!”. Derubati anche i soccorritori
L’apertura di Repubblica
Le risate e i colpi dopo la strage “Ciao assassino, che spettacolo le catenine di quella sera”
Repubbliva pagina 3
Gioventù bruciante La fredda ferocia dei ragazzi che giocano con le vite degli altri
Corinaldo, piazza San Carlo, Manduria Bande che hanno scelto il crimine per fare soldi o per celebrare riti di violenza
Gabriele Romagnoli su Repubblica a pagina 4
Ragazzi che depredano e uccidono (o viceversa) i propri fratelli minori. Questi sono i componenti della banda che nella discoteca di Corinaldo ha provocato sei vittime e duecento feriti per impadronirsi di qualche grammo d’oro, strappato ai vivi e ai morti, ai soccorsi e ai salvati. Gioventù bruciante, che usa lo spray urticante negli assembramenti per confondere chi si accalca cercando di accendere una notte diversa e felice: quella in cui la Juventus gioca e magari vince, Sfera Ebbasta canta e forse ti concede un selfie. Sogni innocenti, la colpa è in quelli dei fratelli maggiori e nel baratto tra incolumità altrui e qualche dose di droga, un capo firmato, una breve vacanza. Concluso con quella che ci si ostina a definire indifferenza, ma è solo la versione fredda della ferocia. Nella ricostruzione degli inquirenti emergono molti aspetti rilevanti, alcuni per originalità, altri proprio perché comuni, troppo comuni. I giovani venivano dalla provincia di Modena, avevano formato una delle numerose bande che, con le stesse modalità, funestano concerti e ritrovi in tutto il Centro Nord. Sarebbe tempo di smetterla di aspettare con una qualche ansia che venga resa nota la provenienza geografica di chi ha commesso un reato. Da ogni parte, comunque la si pensi. Maghrebini o americani, stranieri o italiani: non c’è sollievo possibile, non c’è rivalsa ipotizzabile, non se si è ancora capaci di ragionare. Esiste semmai un unico comune denominatore: il contesto, il luogo in cui le cose accadono, il comportamento deviante che consente o non sa arginare, il modello di vita che propone, ciò che indica come aspirazionale. I giovani criminali in azione a Corinaldo provenivano da famiglie oneste e inconsapevoli. Niente clan: lavoratori, con il mutuo sulle spalle e la pensione a un orizzonte che si allontana. «Normalissimi», li definisce il magistrato, con un termine che ha perso significato e fondamento. Stupiti delle imputazioni dei figli, come sempre succede, da San Prospero a San Francisco, dove cade lo stesso velo sull’improbabilità di un ragazzo che non lavora, o ha il primo stipendio da operaio, ma si compra un orologio di marca o viaggia all’estero nei fine settimana. I furti commessi da questa banda sono stati decine, decine i viaggi dal compro oro, decine gli acquisti conseguenti. Non esattamente «normalissimo». Ancor meno la condotta criminosa. Li accompagnava una «freddezza incendiaria». Il movente era banalmente quello di fare soldi. La modalità quella di strappare i beni a coetanei o minori indifesi. Non c’erano né confine, né limite. A Corinaldo hanno continuato ad agire anche mentre la tragedia era in corso, derubando le vittime e i soccorritori. Dopo Corinaldo hanno proseguito le loro attività, semplicemente rinunciando allo spray che era ormai la loro firma. C’è sempre stata nella gioventù, anche nella nostra, almeno in gran parte di noi, una tendenza a flirtare con il fuoco. In molti hanno sperimentato la tentazione di ardere, nella velocità, nell’idealismo, nella sperimentazione, nell’equivoco di una tensione che si faceva inevitabilmente autodistruttiva. Affascinati da una pira sulle rive del Gange, non dalla vetrina di un negozio nel corso. In quest’altra gioventù si è manifestato soltanto l’istinto di bruciare e saccheggiare le esistenze altrui. Hanno voluto una vita spericolata con modalità da travet del crimine: di sabato notte in sabato notte, di discoteca in discoteca, per ricavare a testa poco più di duemila euro al mese, cinque pezzi grossi da spendere prima di venerdì. I ragazzi che gettavano sassi dai cavalcavia facevano un gioco perverso, in cui le vittime non avevano volto. Quelli di Manduria, che hanno seviziato per mesi, fino a ucciderlo, un anziano disabile, celebravano un rito di violenza, quasi a cercarne il preciso effetto. Questi sciacalli danzanti sono una combinazione, a cui si aggiunge e su tutto grava il movente venale, eppur mortale. L’imputazione per loro è di omicidio preterintenzionale, ma dopo i fatti di piazza San Carlo a Torino era ben chiaro a chiunque che accecare persone in una folla determina una situazione incontrollabile, che può causare una strage. Eppure non hanno desistito, né loro né quelli come loro, bande gemelle, figli di un’Italia che guarda il mare e non sente il crepitio delle fiamme in tinello.
Pericolosi e indifferenti «Se non era peri morti a Sfera facevo la collana» Seisono maggiorenni da poco. «Mi piacciono i soldi e l’adrenalina»
Corriere pagine 2 e 3 e 5
2 due morti nel torrente
Con le corde neltorrente, due morti Sondrio, il gruppo di turisti praticava il «canyoning», l’acqua li ha travolti. «Lisentivamo gridare»
Giù tra le rocce con casco e fune «I pericoli? Sassi e ipotermia»
Corriere pagina 17
Addio a Federica, la pallavolista Ha sfidato ilsuo male con ironia Padova, la 32enne aveva un linfoma. «Ogni tanto misiedo ma non mi arrendo»
Corriere a pagina 19
ECONOMIA
1 Fca Renault
Fca-Renault: le perdite della Nissan accelerano la trattativa
Il risiko dell’auto.Il gruppo francese punta a ridurre la quota nella casa giapponese per rilanciare con Fiat
Il crollo degli utili Nissan ha dato nuovo slancio al tavolo negoziale tra Fca, Renault e i giapponesi per riprendere il filo della trattativa interrotta il giugno scorso. Ne sono una prova le mail tra i dirigenti della casa nipponica e del gruppo francese che puntano a ridiscutere i termini della loro alleanza globale. Passaggio, quest’ultimo, fondamentale per rilanciare il piano di intesa con Fiat Chrysler. Tutto ruota intorno a nuovi equilibri azionari con una riduzione della quota del 43,4% detenuta da Renault in Nissan
Apertura del Sole
Il crollo dei profitti di Nissan accelera la trattativa Fca-Renault I contatti. La determinazione del presidente transalpino Senard e il trimestre nero dei giapponesi alla base dei nuovi colloqui. Al lavoro per cambiare gli incroci azionari tra i due costruttori
Marigia Mangano sul Sole a pagina 3
mento chiave. Il fattore scatenante che, dopo settimane di contatti fugaci, ha dato nuovo slancio al tavolo negoziale tra Fca, Renault e Nissan per riprendere il filo della trattativa bruscamente interrotta il giugno scorso. E le mail, di cui ieri il Wall Street Journal ha dato conto, tra i dirigenti della casa nipponica e del gruppo francese per ridiscutere i termini della loro alleanza globale sono la prova che l’intesa con Fiat Chrysler è ancora l’obiettivo a cui si punta e confermano le anticipazioni del Sole 24 Ore del 16 giugno. La base di partenza, su cui si sarebbe riaperto il dialogo, prevede una revisione dei pesi incrociati nella partnership franco nipponica e un impegno dello Stato francese ad alleggerire progressivamente il peso (e la sua influenza) nel futuro assetto del terzo gruppo mondiale di autovetture. Tutto ruota intorno a nuovi equilibri azionari con una riduzione della quota del 43,4% detenuta da Renault in Nissan, che a sua volta detiene il 15% della casa francese senza diritto di voto. Una modifica delle partecipazioni incrociate, con il via libera del Governo francese, socio di Renault con il 15%, rappresenta il nodo su cui ormai da mesi si stanno concentrando i contatti tra Fca, Renault e Nissan. Il tutto per poter riportare d’attualità e questa volta in forma più allargata il progetto di fusione Fca Renault tramontato agli inizi di giugno a a causa delle pressioni del Governo francese. Al momento ancora non è chiaro in che tempi e in quali termini potrà essere ridefinito il nuovo piano di fusione allo studio. Fonti autorevoli vicine alla trattativa hanno riferito a Il Sole 24 Ore che sarebbero stati due gli eventi che hanno contribuito a ricostruire una base di dialogo tra Torino e Parigi. Il primo risale allo scorso 12 giugno, quando si è tenuta l’assemblea di Renault. E vede come protagonista Dominique Senard, presidente del gruppo transalpino. In quell’occasione il manager, che nel corso dell’avvio dei negoziati con Fca si era fatto garante di due snodi cruciali, ossia dell’appoggio del Governo francese e dell’impossibilità da parte di Nissan di porre alcun veto, con l’aumentare delle pressioni pubbliche e la discesa in campo del partner nipponico, ha voluto mandare un messaggio netto che diversi osservatori hanno interpretato come una sorta di ultimatum a Le Maire e Macron: sfiducia immediata o mandato a dar vita a un progetto che lui stesso ha definito “eccezionale”. Cioè la fusione con Fca, per l’appunto. Il Governo sembra aver così scelto la seconda opzione, dando, con la conferma della fiducia, un evidente mandato a Senard a riaprire il dossier italo americano. Il secondo evento che avrebbe contribuito all’avvio di un tavolo concreto tra John Elkann, presidente di Fca, e lo stesso Senard, risale appunto alla scorsa settimana quando Nissan ha reso noto i risultati del semestre. C’era grande attesa a Parigi cosi come a Torino sui dati che Nissan avrebbe comunicato perché ci si aspettava un quadro non particolarmente incoraggiante. Aspettative che si sono poi puntualmente verificate con un drastico calo degli utili comunicato dalla casa giapponese: un crollo del 95% dei profitti netti nel primo trimestre a 6,4 miliardi di yen (54 milioni di euro), a causa della forte discesa delle vendite soprattutto negli Usa e in Europa. È evidente, raccontano fonti vicine al negoziato, che questo dato ha modificato in modo sensibile la posizione di Nissan, ora più debole rispetto a due mesi fa, insieme a quella del suo ceo Hiroko Saikawa, uno dei protagonisti del fallimento del precedente piano di fusione Fca Renault, e la cui permanenza a capo di Nissan è oggi messa in seria discussione da qualcuno. Che sia un Hiroko Saikawa piu debole o un cambio di interlocutore al vertice del gruppo nipponico, il risultato non cambia: il quadro che si sta delineando sembra giocare improvvisamente a favore del progetto che si sta discutendo ormai da tempo tra Elkann e Senard.
trattative via email fra i dirigenti dei due gruppi Renault e Nissan rinegoziano l’alleanza guardando a Fca Resterebbe comunque da sciogliere il nodo politico Macron non vuole ridimensionare il peso dello Stato
43% la quota di capitale di Renault in Nissan che ha il 15% della Régie ma senza diritti di voto
12500 i posti di lavoro che Nissan ha annunciato di voler tagliare entro il marzo 2023
Stampa p.18
Renault e Nissan trattano L’ipotesi diriaprire con Fca IlsociofranceseridurrebbelasuaquotanelgruppodiTokyo.Ilnodofabbriche
Corriere a pagina 30
2 Landini non va
«Di contiparlocol capodelgoverno IlViminale elude lenostre richieste» Ilsegretario della Cgil: Palazzo Chigi è il luogo giusto, perché il leaderleghista non viene?
Lorenzo Salvia sul Corriere a pagina 9
ROMA Maurizio Landini, domani sarà a Palazzo Chigi per il tavolo sulla manovra convocato da Giuseppe Conte. Martedì invece non sarà a quello del Viminale, con Matteo Salvini. Perché? «SaròaPalazzo Chigi perché è normale che sulla legge di Bilancio il segretario generale della Cgil, come è sempre stato, abbia come interlocutore il presidente del Consiglio e quindi tutto il governo. Quel tavolo del restoèstato attivato dopo mesi di mobilitazione unitaria da parte dei sindacati confederali e introduce una novità importante per ora di metodo perché la manovra dell’anno scorso il governo non l’aveva discussa con nessuno. Non solo con noi, ma nemmeno con il Parlamento che in pratica ha votato la fiducia senza conoscere il testo». D’accordo, ma perché martedì non va da Salvini? «Semmai il problema è perché Salvini non è al tavolo della presidenza del Consiglio, dove c’è tutta la maggioranza. Il tavolo sulla manovra è uno, ed è quello di Palazzo Chigi. Del resto una deve essere anche la manovra. Se poi hanno intenzione di presentarne due diverse, ci avvertano per tempo perché il Paese avrebbe un problema serio. In ogni caso le fibrillazioni interne alla maggioranza non vanno scaricate su di noi, non vanno usate per strumentalizzareisindacati». Ma non è che non va al Viminale perché non vuole incontrare di nuovo Armando Siri, che l’altra volta vi spiegò la flattax? «Non è una questione personale. Ripeto, il tavolo per discutereetrattareicontenuti della manovra è quello alla presidenza del Consiglio. Se poi i singoli ministri convocano incontri la Cgil ci sarà, come sempre, ma conisegretari che hanno la delega perle specifiche materie. È singolare che Salvini voglia parlare di tutto tranne che dei temi che riguardano il suo ministero. Come, per esempio, della situazione delle forze dell’ordine che sono sotto organico, e delle loro condizioni salariali e dilavoro spessononadeguate. O della decisione di chiudere i porti quando sono più i giovani costretti a emigrare all’estero che gli stranieri che arrivano nel nostro Paese». Ma tutti questi incontri servono oppureèsolo una passerella per il governo? «Per ora gli incontri a Palazzo Chigi sono serviti al governo per raccogliere idee e proposte dalle parti sociali. Poi, per settembre, il presidente del Consiglio si è impegnato a presentare alle parti sociali la sua proposta di manovra. Il nostro giudizio finale lo daremo allora, quando capiremo se le nostre proposte sono state accolteese si aprirà un vero confronto. In caso contrario valuteremo con Cisl e Uil le iniziative di mobilitazione da intraprendere». Ma secondo voi cosa ci deve essere nella manovra? «Con Cisl e Uil abbiamo consegnato alla presidenza del Consiglio la piattaforma complessiva, che martedì daremo anche al ministro Salvini. In particolare ci deve essere una vera riforma fiscale che riduca le tasse a lavoratori dipendenti e pensionati, gli unici che le pagano davvero. E che faccia salire le buste paga, in modo da sostenereiconsumi, anche attraverso la defiscalizzazione degli aumenti nei rinnovi dei contratti nazionali di lavoro pubblici e privati. Non la flat tax, che va contro il principio della progressività previsto dalla Costituzione. Ci deve essere poi una lotta vera all’evasione fiscale e alle diseguaglianze sociali, un’agenzia per gli investimenti infrastrutturali e sociali, a partire dal Sud, che servono per unireerilanciare il Paese. Anche per questo siamo contrari alla proposta di autonomia differenziata». Segretario, la Lega parla di flattax, il Movimento5Stelle di taglio del cuneo fiscale. Insomma il governo non pare ascoltare le vostre proposte: si augura che cada il prima possibile? «No. Il punto veroèche il governo superi la logica del contratto fra privati e capisca che bisogna trovare la mediazione con le parti sociali del Paese». © RIPRODUZIONE RISERVATA
Flat tax contro cuneo fiscale Gli alleati e il duello diricette sulla «manovra coraggiosa» Tante le distanze, condiviso solo lo stop all’aumento Iva
Corriere a pagina 8
ROMA Matteo Salvini dice che la prossima manovra deve essere «coraggiosa». Luigi Di Maio ribatte «scriviamola insieme». Siamo ancora in una fase di contrattazione, i due alleati spingono per le loro proposte mentreiconti finali si faranno dopo l’estate. Ma proprio per preparare il terreno in vistadella battagliad’autunno, Lega e M5S stanno scavando fin da ora la loro trincea.
2 Il piano tasse della Lega
Massimo Bitonci. Il sottosegretario all’Economia anticipa il piano che la Lega presenterà alle parti sociali «Taglio Irpef da 10 miliardi e pace fiscale 2.0»
Marco Mobili e Giovanni Parente sul Sole a pagina 2
Dieci miliardi da destinare alla riduzione dell’Irpef pagata da pensionati e dipendenti. Un secco no a qualsiasi intervento sull’Iva, anche di tipo selettivo. L’avvio della pace fiscale 2.0 che questa volta sarà incentrata sulla possibilità per imprese e contribuenti di accordarsi preventivamente con il Fisco, senza versare interessi e sanzioni, nei casi di accertamenti induttivi o presuntivi. Pace fiscale che dovrà viaggiare di pari passo con la riforma della giustizia tributaria destinata a trasformarsi nella quinta magistratura (includendo anche quella militare) e puntare alla piena terzietà del giudizio, a partire dalla mediazione. La cancellazione di due imposte poco amate da cittadini e imprese: la Tasi pagata su tutti gli immobili diversi dall’abitazione principale e l’Irap da trasformare in un’addizionale all’Ires e all’Irpef. Si muove su queste direttrici il piano fiscale della Lega che il leader del Carroccio e vicepremier Matteo Salvini illustrerà nei dettagli alle parti sociali martedì 6 agosto al Viminale (la convocazione è per le ore 10). Come spiega al Sole 24 Ore il sottosegretario all’Economia Massimo Bitonci, uno dei principali artefici del pacchetto fiscale del Carroccio, «vogliamo proseguire nel taglio delle tasse avviato con la flat tax per le partite Iva fino a 65mila euro concentrandosi sulle fasce più deboli e i ceti medi. Puntiamo a una riduzione di 10 miliardi del carico fiscale che oggi grava su pensionati e dipendenti, non certo ai quattro miliardi ipotizzati da Di Maio». Ma in che modo? Applicando l’aliquota del 15% a chi oggi paga il 23 per cento. Aspettiamo le simulazioni del ministero per capire dove potremmo fissare l’asticella, ma l’obiettivo è quello di avviare un percorso di riduzione della pressione fiscale e dovrà approdare all’introduzione di una tassa piatta per tutti i contribuenti. E questo anche se la Corte dei conti ha certificato più volte che oggi il 52,5% dei contribuenti Irpef già paga un’aliquota reale del 14,8%? Noi parliamo di aliquota nominale al 15% che per effetto di detrazioni, deduzioni e no tax area si trasformerà in un prelievo reale ben più basso dell’attuale 14,8%. Un intervento compatibile con le clausole Iva o si lavora anche a una rimodulazione dell’imposta sul valore aggiunto come dice Tria? La Lega dice no a qualsiasi intervento di aumento delle aliquote Iva. Troveremo le risorse per sterilizzare le clausole. Gli studi che abbiamo analizzato in questi mesi testimoniano come ad un aumento delle aliquote Iva su determinati prodotti non corrisponda mai un reale effetto di aumento del gettito. In sostanza se aumento l’aliquota su un determinato prodotto non è detto che il consumatore continui ad acquistare quel prodotto e al contrario si sposti su altri tipi di beni o servizi con un prezzo più basso e un carico Iva minore. Alla riduzione delle tasse volete associare la pace fiscale 2. La stagione dei condoni non finisce mai? Non c’è nessun condono. Con la pace fiscale sulle cartelle e sulle liti possiamo recuperare fino a 25 miliardi di euro nei prossimi 5 anni e possiamo abbattere l’arretrato e liberare cittadini e imprese dall’assillo di vecchi debiti che negli anni non sono riusciti a pagare. È questo il presupposto su cui costruire un nuovo rapporto tra fisco e contribuenti. Perciò stiamo studiando una pace fiscale 2 che viaggerà di pari passo con la stagione delle riforme. Cosa ci sarà nella nuova pace fiscale? Dobbiamo completare il saldo e stralcio estendendolo anche alle imprese. Inoltre stiamo studiando un meccanismo per arrivare ad accordi preventivi sugli accertamenti delle Entrate basati su indizi e presunzioni come ad esempio quelli su prezzi di trasferimento o abuso del diritto. Si tratta di situazioni in cui c’è un elusione e non un’evasione d’imposta, spesso favorita da un’interpretazione non semplice delle norme vigenti. Come funzionerà? Se gli uffici del fisco e i contribuenti riusciranno a raggiungere un accordo, che in gergo tecnico si chiama adesione, l’importo dovuto secondo l’accertamento induttivo o presuntivo, sarà calcolato con criteri forfettari e senza l’applicazione di sanzioni e interessi. Così cercherete di evitare nuovo contenzioso? Sì, è uno degli obiettivi. Ma sul contenzioso abbiamo un progetto di riforma più ampio che punta a una effettiva terzietà del giudice. Come Lega abbiamo già presentato due disegni di legge alla Camera e al Senato messi a punto ascoltando le opinioni degli addetti ai lavori. Allora c’è da chiedersi perché il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non abbia voluto inserire la nostra proposta nella più ampia riforma della giustizia presentata in Cdm in questi giorni. Non è un problema di chi si intesta il progetto ma l’importante è dare una risposta a imprese e investitori nazionali e internazionali oggi in fuga l’Italia per l’eccessiva durata dei processi e la mancanza di certezza del diritto. Cosa intende per maggiore terzietà? La creazione del giudice tributario professionista. Una nuova magistratura, la quinta se si include anche quella militare, con i nuovi tribunali e corti d’appello tributari. Per le cause fino a 3mila euro ci saranno i giudici onorari, reclutati tra gli attuali giudici tributari e per quelle fino a 30mila ci sarà un giudice monocratico. In questo modo solo le liti più complesse e di maggior valore saranno decise in composizione collegiale. Con una rivoluzione in arrivo anche per la mediazione preventiva che non si svolgerà più davanti agli enti impositori, come ad esempio le Entrate e i Comuni, ma direttamente davanti al giudice assicurando in questo modo una vera terzietà anche nella fase antecedente al contenzioso. Sulle semplificazioni sempre promesse e mai concretamente realizzate cosa prevede il piano della Lega? Abbiamo iniziato un percorso nel decreto crescita. Ora continueremo. Vogliamo eliminare il modello 770 per i sostituti d’imposta. In più puntiamo a eliminare la Tasi lasciando solo l’Imu per evitare doppi pagamenti e doppi calcoli. Così come per l’Irap, che diventando un’addizionale all’Ires e all’Irpef, potrà cancellare di colpo 4 milioni di dichiarazioni. © RIPRODUZIONE RISERVAT
3 Pubblica amministrazione
L’incubo di uffici vuoti e ospedali chiusi Nel pubblico arriva il terremoto Quota 100 Centomila persone in pensione anticipata entro fine 2019. Servizi sociali, scuole e asili nido rischiano la paralisi
Fare i concorsi dopo che molti sono già in pensione impedisce anche un passaggio generazionale delle competenze
Per risolvere questa emergenza bisogna stabilizzare subito i precari utilizzando le graduatorie degli idonei già stilate
La salvezza arriva dai concorsi “Ma tra bandi e intoppi si aspetterà un anno”
Alcune scuole avranno la metà dei docenti Toccherà ai precari tappare i buchi
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GUIDO CASTELLI Il delegato Anci: “Aumenterà anche la burocrazia” “Con queste norme i Comuni più piccoli rischiano il collasso”
Dall’esplosione della crisi il 78% dei tagli è stato fatto nella riduzione del personale
Per fortuna il decreto crescita prevede il superamento definitivo del blocco del turn-over
Stampa p.2
Il proiettile vagante di Quota 100, che ora rischia di colpire in pieno la pubblica amministrazione italiana, centrerà quasi certamente gli uffici dell’anagrafe, le scuole e soprattutto gli asili nido, gli uffici tecnici e i servizi sociali. Nel giro di pochi mesi, insomma, le amministrazioni comunali italiane rischiano di trovarsi con migliaia di scrivanie vuote. Alle carenze d’organico attuali, visto che da anni il turn over è ancora rigorosamente bloccato, si aggiungeranno i vuoti già previsti dagli enti locali e dall’Inps. Le domande presentate fino al 31 luglio sono più di 52 mila e nel 19 per cento dei casi è già arrivata l’approvazione.
Il grande piano per l’esodo anticipato di migliaia di lavoratori avrà presto gravi effetti collaterali. Con il rischio concreto di paralizzare i servizi per i cittadini.
E nei paesi, dove molti servizi si reggono sul lavoro di un solo impiegato, l’effetto quasi immediato sarà quello di chiudere gli uffici.
Si salveranno solo i vigili urbani. Anche senza il giubbotto antiproiettile. Perché la loro difesa, negli ultimi anni, è stata assicurata da assunzioni quasi continue. Il proiettile vagante di Quota 100, che ora rischia di colpire in pieno la pubblica amministrazione italiana, centrerà quasi certamente gli uffici dell’anagrafe, le scuole e soprattutto gli asili nido, gli uffici tecnici e i servizi sociali. Nel giro di pochi mesi, insomma, le amministrazioni comunali italiane rischiano di trovarsi con migliaia di scrivanie vuote. Alle carenze d’organico attuali, visto che da anni il turn over è ancora rigorosamente bloccato, si aggiungeranno i vuoti già previsti dagli enti locali e dall’Inps. Le domande presentate fino al 31 luglio sono più di 52 mila e nel 19 per cento dei casi è già arrivata l’approvazione. Nei prossimi mesi, secondo le stime fatte dai sindacati, le richieste si moltiplicheranno e i lavoratori in lizza per lasciare il proprio ufficio saranno più di 100 mila. Forse addirittura 120 mila. L’esodo anticipato Il grande piano per l’esodo anticipato di migliaia di lavoratori avrà presto gravi effetti collaterali. Con il rischio concreto di paralizzare i servizi per i cittadini. Sia nelle grandi città, dove il numero di impiegati pronti a conquistare il traguardo della pensione è ovviamente maggiore, sia nei piccoli centri, dove gli uffici pubblici possono contare su organici risicati. E nei paesi, dove molti servizi si reggono sul lavoro di un solo impiegato, l’effetto quasi immediato sarà quello di chiudere gli uffici. Ma anche alcuni reparti d’ospedale o addirittura qualche pronto soccorso. E a settembre, al riavvio delle lezioni, moltissime scuole si ritroveranno con la metà degli insegnanti e allora toccherà come sempre ai precari lanciare il paracadute. «Ai 100 mila che usufruiranno dei nuovi limiti previsti da Quota 100 – sottolinea Federico Bozzanca, segretario nazionale della Funziona pubblica Cgil – bisognerà sommare tutti quelli che invece hanno già raggiunto i requisiti secondo i parametri della legge Fornero». I concorsi bloccati La salvezza per la pubblica amministrazione con gli uffici sguarniti passerà ovviamente per i concorsi. Ma ci sarà parecchio da attendere. Canonici tempi delle selezioni pubbliche, a cui andranno aggiunti i soliti italici imprevisti: prima i bandi e poi i ricorsi, con gli intoppi burocratici e in qualche caso pure le inchieste. «Nella migliore delle ipotesi – prevede Nicola Foccillo, segretario confederale dalla Uil – passerà al meno un anno». E nel frattempo? Gli impiegati che restano avranno un carico di lavoro doppio e molti servizi dovranno essere ridotti. Oppure chiusi e sospesi. «Non dimentichiamo che il blocco delle assunzioni è ancora in vigore fino a novembre – ricorda Foccillo – Per il momento solo i Comuni e le scuole possono bandire i concorsi». Gli enti in agonia Quel che succederà, appena scatteranno le pensioni anticipate, finirà per aggravare ulteriormente le condizioni degli enti pubblici, quelli locali in particolar modo. «Già da due anni sappiamo che nell’arco del quinquennio in corso ben 500 mila dipendenti pubblici andranno in pensione – ricorda Foccillo – Circa 200 mila hanno già lasciato il lavoro e gli altri andranno via prossimamente. Questa è una previsione legata ai limiti d’età previsti dalla legge precedente, dunque con le soglie previste da Quota 100 la situazione rischia di aggravarsi pesantemente». Nelle sedi centrali degli enti pubblici, dai ministeri fino alle sedi principali delle agenzie, si prevede un terremoto. «Negli uffici romani, da qui alla fine del 2019, circa 45 mila persone raggiungeranno il traguardo della pensione – aggiunge Maurizio Petriccioli, segretario generale Cisl-Fp – Per risolvere questa emergenza bisogna stabilizzare subito i precari della pubblica amministrazione, utilizzando le graduatorie già stilate e chiamando in servizio chi è idoneo». L’età media L’ultima grande ondata di assunzioni nella pubblica amministrazione, ricordano i sindacati, risale agli anni Ottanta e per questo l’età media dei lavoratori comincia a essere piuttosto alta. E per tantissime persone la finestra della pensione comincia a intravedersi con un po’ di nitidezza in più. «Con questo metodo si sta anche creando un vero impoverimento per la macchina della pubblica amministrazione – riflette Bozzanca della Cgil – Il fatto di avviare i concorsi dopo che molti lavoratori hanno già ottenuto la pensione significa che non c’è un passaggio generazionale delle competenze. È vero che tutti i neo assunti hanno un livello di scolarizzazione ben più alto, ma non si può non tenere conto che il patrimonio culturale di chi va in pensione non viene lasciato in eredità a nessuno».
BUROCRAZIA INCHIODATA NEL PASSATO
Di alberto Mingardi
La syyampa p.21
S ono già 50 mila gli impiegati pubblici che hanno fatto domanda per “quota 100” e si stima possano essere 100 mila entro la fine dell’anno. Gli enti locali temono contraccolpi. A Torino gli uffici decentrati dell’anagrafe verranno chiusi, per mancanza di addetti. Di per sé la cosa non è sorprendente. La pubblica amministrazione italiana ha un’età media molto elevata: è anziana, non solo perché assomiglia al Paese ma anche perché, nel corso degli anni, il blocco del turn over è stata una delle poche misure davvero efficaci di controllo della spesa. Per questa ragione, una misura come quota 100 è risultata “naturalmente” gradita agli impiegati dello Stato. Che cosa possiamo attenderci? Sfoltire la burocrazia per l’Italia è una sfida non da oggi. Negli ultimi vent’anni, tutti i governi hanno annunciato battaglia, e tutti hanno presto deposto le armi. Va allora salutata con favore questa riduzione “spontanea” e inattesa degli organici? Oppure c’è da preoccuparsi, per la fornitura di servizi essenziali? È il caso di non dimenticare che il governo gialloverde ha annunciato mezzo milione di nuove assunzioni nella PA. Immaginiamo siano, alla prova dei fatti, un po’ di meno: si tratterà comunque di uno sforzo importante. Non è chiaro, a oggi, se e quanto il reddito di cittadinanza renda meno attraente la prospettiva di un impiego pubblico, soprattutto al Sud. Il problema vero, però, al di là dell’offerta di lavoro è la domanda. L’impressione è che l’intenzione del governo sia quella di riempire, una dopo l’altra, le caselle rimaste vuote. Anziché fare investimenti sui processi, si punta sostanzialmente sulla continuità delle funzioni oggi esistenti. La logica politica è cristallina: investire sui processi, per esempio sulla digitalizzazione, da una parte è costoso, dall’altra richiede azioni di coordinamento e razionalizzazioni. Al contrario, spendere per garantire un lavoro ad alcune persone verosimilmente significa guadagnarne la gratitudine elettorale, perlomeno al prossimo giro. Soprattutto in tempi di populismo, la politica promette, promette, promette. Ma a un certo punto qualche cosa, anche di diverso da ciò che aveva annunciato in campagna elettorale, deve mantenere. Non serve essere un “liberista selvaggio” per capire che quello che lo Stato faceva vent’anni fa non è necessariamente quello che lo Stato dovrebbe fare oggi. Anche immaginando che il perimetro pubblico non arretri di un centimetro, le stesse funzioni possono essere svolte in modo radicalmente diverso. Se chiedete a un imprenditore privato, che seguita a realizzare e vendere lo stesso prodotto che realizzava e vendeva alla fine del secolo scorso, come sono cambiati in quattro lustri le sue fabbriche e i suoi uffici avrete risposte sorprendenti. Qualcosa di simile dovrebbe avvenire pure all’interno della macchina dello Stato. Per non essere ingenerosi, va detto che esistono enti e amministrazioni che sperimentano e ottengono risultati: ma fare crescere di scala certi esperimenti, indipendentemente dal successo che hanno raggiunto, è difficile. Procedure farraginose, e soprattutto la paura di pagare pegno alle elezioni, hanno frenato i ministri più volenterosi. Il risultato però è che senza un progetto anche gli effetti di quota 100 diventano una sorpresa difficile da gestire. E paradossalmente possono trasformarsi in un argomento per chiedere un aumento della spesa, allo scopo di fronteggiare le emergenze. Che è poi il modo in cui, da sempre, lo Stato amplia il raggio delle sue attività. Lasciandoci in eredità debiti e inefficienze. —
4 La televisione del futuro
ANTONIO CAMPO DALL’ORTO Prima intervista dopo l’addio alla Rai del manager dei media: la tv generalista non è ancora morta “Rai e Mediaset insieme per sfidare Netflix Serve una piattaforma di prodotti italiani”
La formula è un progetto guidato dalla tv di stato, magari insieme con La7 e Discovery
Chi ha ambizioni e risorse deve dialogare. Vivendi le ha, ma non ha dato loro forma concreta
Il servizio pubblico deve recitare la sua parte con coraggio, però non vedo molto innovazione
Stampa p.7
5 Fondi europei
Fondi Ue, entro fine anno 3,24 miliardi da spendere
A fine giugno l’Italia aveva certificato a Bruxelles spese per 10,5 miliardi su un totale di 53,2 miliardi del programma 2014-2020. Da settembre le verifiche dell’Agenzia per evitare il disimpegno di 2 miliardi
Sul Sole a pagina 10
Entro fine anno l’Italia deve spendere 3 miliardi e 238 milioni di euro dei programmi operativi regionali e nazionali per non perdere la quota di risorse comunitarie (Fondo di sviluppo regionale e Fondo sociale) che a spanne vale circa 2 miliardi di euro. In termini di distanza dall’obiettivo a fine 2019 fissato dalla clausola “N+3” (che prevede il disimpegno automatico delle risorse non spese entro tre anni dall’iscrizione sul bilancio comunitario) è poco meno di un quarto del totale (24,3%).
5 energia
Energia, rallentano gli utili dei big Pesa il crollo del prezzo del gas In Europa, rispetto al trimestre scorso, le quotazioni sono calate del 36 per cento. Ma i valori si sono dimezzati rispetto ai massimi di fine 2018. Le cause: il rallentamento della domanda in Asia e lo shale americano
Luca Pagni su Repubblica a pagina 30
— Non è il tracollo di tre anni fa, quando le società petrolifere toccarono in Borsa i minimi storici da inizio secolo. Allora, fu il crollo del prezzo del greggio, sceso fino a un passo dai 25 dollari al barile, a costringere le “big oil” a fare pulizia nei bilanci dopo una serie di trimestri in rosso. Ora, per quanto i colossi petroliferi siano tornati a macinare utili per i loro azionisti, è suonato un altro campanello di allarme. Lo si è visto man mano che le società — nelle ultime settimane — hanno consegnato al mercato i conti semestrali: c’è stato un vistoso calo degli utili che ha colpito, con varia intensità, tutto il settore. Con due differenze significative, rispetto a tre anni fa: la prima industriale, la seconda geopolitica. Questa volta non sono state le quotazioni del greggio a provocare il rallentamento dei profitti, ma il tracollo del prezzo del gas naturale. Lo ha scritto in modo molto chiaro il gruppo francese Total nella sua nota sui conti dei sei mesi: «Mentre la quotazione del greggio rimane volatile, ma comunque in crescita del 9 per cento rispetto al trimestre precedente, il prezzo del gas naturale ha avuto nello stesso periodo una contrazione del 26 per cento in Asia e addirittura del 36 per cento sul mercato europeo». In realtà, la situazione è ancora più pesante se si allarga l’orizzonte temporale. Nel Vecchio Continente, i prezzi sono in costante decrescita dall’ottobre dell’anno scorso: dopo aver raggiunto i livelli massimi dal 2014, le quotazioni hanno imboccato il piano inclinato fino a perdere il 50 per cento del loro valore. Il prezzo del gas è sceso perché nell’applicazione rigorosa della legge della domanda e dell’offerta, in questo momento c’è abbondanza di materia prima. E successo che la domanda di gas naturale è calata in Asia, dove le principali economie hanno dato segni di rallentamento e gli investimenti in campo energetico sono stati spostati sulle rinnovabili, a partire da Cina e India. Così, molte forniture via nave sono state dirottate nuovamente sul mercato europeo che, improvvisamente, è diventato molto lungo. Un movimento che si è riflesso in modo positivo sulle bollette delle famiglie e delle imprese, vistosamente calate negli ultimi due trimestri, in coincidenza con il calo dei prezzi. Tra l’altro, per gli analisti, un’nversione di tendenza non è prevista a breve, come dimostrano anche i cali ulteriori degli ultimi giorni. E qui entra in gioco la geopolitica. In Europa c’è abbondanza di gas anche perché stanno cominciando ad arrivare con continuità le forniture via nave da oltreatlantico. Gli Stati Uniti, da importatori, sono diventati esportatori netti di materia prima, grazie alle nuove tecnologie che nel decennio hanno consentito lo sfruttamento dei giacimenti che si trovano negli strati rocciosi. Lo stesso vale anche per il petrolio: shale gas e shale oil hanno avuto un impatto economico e politico. Il petrolio ha permesso alle compagnie americane di subire meno contraccolpi in bilancio negli ultimi mesi, mentre il gas ha consentito all’amministrazione Trump di esercitare maggiori pressioni — attraverso le forniture — sull’Europa, perché allenti i contatti commerciali con la Russia. Gazprom, colosso di stato di Mosca, rifornisce l’Unione europea per oltre un terzo del suo fabbisogno, con contratti di medio periodo. Un’ulteriore abbondanza di materia prima che di certo non favorisce la ripresa dei prezzi a breve
5 crescita
RIPORTARE LA CRESCITA AL CENTRO DEL DIBATTITO
di Sergio Fabbrini
Sembra di vivere in un Paese surreale. La politica evoca un “mondo” che non ha relazioni con la realtà sensibile. La realtà è la seguente. L’economia italiana, secondo i dati Istat di pochi giorni fa, è in una condizione di stagnazione. Diminuisce la disoccupazione, grazie però a lavori part-time e a bassa qualificazione. Gli investimenti privati sono in calo e le nostre esportazioni sono fragili, secondo un rapporto appena pubblicato di Andrea Montanino del Centro Studi di Confindustria. Il Mezzogiorno italiano è in una situazione di vero e proprio depauperamento, secondo i dati dello Svimez resi pubblici un paio di giorni fa. Il suo Pil è al di sotto dello zero. Negli ultimi 15 anni, ben 2 milioni di persone hanno abbandonato le regioni del Sud, per cercare lavoro e opportunità nel Nord (dell’Europa oltre che dell’Italia). Almeno un quarto di chi se ne è andato ha una laurea o una istruzione professionale. Invece, la politica è la seguente. I due vicepremier hanno fatto del litigio un vero e proprio mestiere, anche se i parlamentari dei rispettivi partiti convergono regolarmente sulle poche leggi messe ai voti in Parlamento. Le due forze di opposizioni sono divise al loro interno sul grande problema teologico, con quale parte del governo allearsi (per ritornare al governo)? Si capisce perché, come ha mostrato il sondaggio pubblicato da questo giornale venerdì scorso, quasi tre quarti degli italiani vogliono nuove elezioni (che potrebbero produrre esiti contradditori, dato l’attuale sistema elettorale). Come se ne esce? Solamente in un modo: riportando la crescita al centro del dibattito pubblico. Un Paese che non cresce economicamente è destinato ad un declino irreversibile anche culturalmente. Per riportare l’Italia su un sentiero di crescita, occorre però fare i conti con il problema del nostro (enorme) debito pubblico. Quel debito è dovuto a scelte fatte da governi e parlamenti italiani, almeno dagli anni Novanta del secolo scorso. Dietro quel debito c’è l’idea che la spesa pubblica debba servire a garantire consenso elettorale prima ancora che sviluppo economico. —Continua a pagina 6
L’ attuale governo agisce come se fossimo entrati (addirittura) nell’epoca del post-lavoro. La creazione di lavoro non è una priorità, mentre è divenuta una priorità consentire alle persone di non lavorare (anticipando l’età pensionabile oppure distribuendo reddito di cittadinanza). Così, gli investimenti infrastrutturali sono stati bloccati, anche là dove vi erano fondi da tempo stanziati. Il programma di “industria 4.0” è stato chiuso, nonostante gli effetti positivi che aveva avuto sulla modernizzazione degli impianti produttivi. Le risorse destinate alla ricerca e all’istruzioni sono tra le più limitate d’Europa, mentre si parla di una de-fiscalizzazione che metterebbe ancora più in difficoltà le finanze pubbliche, centrali e locali. I pochi provvedimenti approvati hanno sempre un nome ed un cognome, le partite Iva del centro-nord oppure la disoccupazione nascosta nel lavoro nero del centro-sud. Il governo del cambiamento ha smarrito l’idea dell’Italia, ma ha conservato quegli aspetti di politica pubblica che sono la causa del nostro declino. Né un’idea di sviluppo è emersa dalle opposizioni, tanto meno delle proposte concrete. Come si può crescere, senza strategie precise (e condivise) per riportare sotto controllo il debito pubblico? La riduzione del debito pubblico e il rilancio della crescita dipendono da noi, ma non solo da noi. L’Italia è all’interno di un sistema di integrazione monetaria che garantisce la nostra stabilità finanziaria in cambio del rispetto di regole che presiedono al coordinamento tra gli stati membri di quel sistema (l’Eurozona). La natura di quelle regole è influente sulle modalità della crescita degli stati che le condividono. Una maggioranza di italiani non è soddisfatta con il funzionamento dell’Eurozona, una maggioranza ancora più grande di italiani sarebbe insoddisfatta se uscissimo dall’Eurozona. Si tratta di una contraddizione che ha contribuito non poco all’ascesa del populismo antieuropeista che ritiene di governarci dal Papeete Beach o dalla piattaforma Rousseau. Una contraddizione che caratterizza anche altri Paesi dell’area mediterranea. Come la Francia, dove i populisti di destra e di sinistra rappresentano quasi la metà dell’elettorato, come la Spagna dove non si riesce a formare una maggioranza stabile nonostante le continue elezioni, come la Grecia che sta uscendo a fatica da una crisi sociale senza precedenti. Una contraddizione sconosciuta nei Paesi del nord, in quanto la logica di funzionamento dell’Eurozona è coerente con la loro struttura di political economy (che combina modello produttivo e organizzazione degli interessi). Tuttavia, il funzionamento dell’Eurozona non è stato deciso in cielo, ma nelle negoziazioni tra gli stati che ne fanno parte. Però, mentre le leadership governative della Francia e della Spagna hanno elaborato una interpretazione del funzionamento asimmetrico dell’Eurozona (avanzando quindi proposte per un suo riequilibrio), i nostri leader di governo sanno solamente inveire contro l’Europa “tedesca”. Né le opposizioni hanno qualcosa da dire. Eppure, tra poche settimane si avvierà la procedura per la stesura della legge di bilancio 2020, con relativa negoziazione con la nuova Commissione (che sarà di già operativa, anche se formalmente inizierà il 1° novembre). Ad oggi, non sappiamo neppure quale portafoglio avrà l’Italia in quella Commissione, ancora di meno chi sarà il candidato del governo italiano al ruolo di commissario. Come possiamo riportare l’Italia su un percorso di crescita, se non abbiamo una strategia e degli alleati per rendere meno asimmetrico il funzionamento dell’Eurozona? La politica non può stare a lungo dissociata dalla realtà. Se ciò avviene, sono guai. Si pensi all’Argentina, uno dei Paesi più sviluppati negli anni Trenta del secolo scorso, divenuto un Paese sottosviluppato pochi decenni dopo per via dell’incompetenza populista delle sue classi politiche. Certamente, l’Italia di oggi dispone di maggiori anticorpi rispetto all’Argentina di allora (grazie all’Europa). Tuttavia, l’Europa non basta, se le nostre forze economiche, culturali, associative non alzano la voce per riportare la politica alla realtà. Non c’entra la destra o la sinistra. C’entra l’interesse nazionale dell’Italia a ritornare a crescere economicamente e culturalmente.
VENTI DI RECESSIONE, MA IL FMI RACCOMANDA AUSTERITY
di Marcello Minenna
I l 2% del PIL mondiale: circa 1.770 miliardi di dollari in 3-5 anni. Questo è l’ammontare della stretta fiscale che il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) raccomanda nel suo ultimo report di luglio (l’External Sector Report) per i Paesi membri, che rappresentano il 90% del Pil mondiale, al fine di riequilibrare i conti con l’estero. Un suggerimento che appare ignorare il delicato momento di simultaneo rallentamento della crescita in Usa, Asia ed Europa. —Continua a pagina 9
Il Fondo analizza le dinamiche dei conti con l’estero, cercando di identificare le policy fiscali, monetarie e le riforme strutturali necessarie a garantire un equilibrio della bilancia dei pagamenti nel medio termine. Se si riduce il livello di dettaglio e si guardano i dati da una prospettiva globale emerge come in tema di policy fiscale il Fmi stia consigliando un consolidamento fiscale praticamente a tutti i Paesi del mondo, con le notabili eccezioni di Germania e Olanda. Generalmente il Fmi raccomanda una stretta di bilancio quando il saldo delle partite correnti è ritenuto in deficit eccessivo. Ad un 1% del Pil di inasprimento fiscale corrisponde infatti mediamente un miglioramento della bilancia commerciale dello 0,3% per via della riduzione delle importazioni. Tuttavia, nel report 2018 anche Paesi che hanno conti con l’estero in equilibrio (come Italia, Cina, Giappone e Brasile) vengono indirizzati su un percorso di austerity. L’Italia dovrebbe passare dall’attuale 2% di deficit ad un surplus di bilancio (dopo il pagamento degli interessi) del +0,5%, varando manovre restrittive per 42 miliardi di euro. Le ragioni sono molteplici: secondo il Fmi in Cina la crescita del deficit delle partite correnti a causa di politiche fiscali e di stimolo al credito espansive è mascherata dall’impatto negativo di una rete di welfare debole, che riduce la propensione al consumo della classe media. In Giappone sono i bassi investimenti che compensano una politica fiscale eccessivamente lasca; in Italia e Brasile la crescita zero dei prestiti bancari tiene l’economia in stagnazione e impedisce paradossalmente che i conti con l’estero peggiorino, nonostante i deficit di bilancio ritenuti elevati ed evidenti problemi di competitività dei sistemi manifatturieri. In media anche l’Eurozona dovrebbe stringere la cinghia con uno +0,5% di Pil in aumenti di tasse o tagli della spesa pubblica. È evidente l’enfasi del Fondo verso politiche fiscali prudenziali, che però appare non aggiornata con il quadro macro attuale, dove la ripresa sperata per la seconda metà del 2019 sembra allontanarsi e peggiorano gli indicatori sull’attività manifatturiera nelle economie esportatrici. Inoltre questa austerity globale cozza con la prospettiva attuale di una rapida discesa dei tassi di interesse nelle principali aree valutarie – anche a livelli fortemente negativi – per lungo tempo. Come ha evidenziato correttamente l’ex capo economista Fmi Olivier Blanchard, in un contesto dove i tassi di interesse sono previsti a lungo intorno allo 0%, la politica monetaria ha degli spazi di manovra limitati e la politica fiscale deve essere a supporto della crescita. Soprattutto se il costoopportunità connesso all’emissione di nuovo debito – anche per economie fortemente indebitate – si riduce notevolmente. Naturalmente le risorse raccolte dovrebbero essere destinate obbligatoriamente a una robusta ripresa degli investimenti in infrastrutture e beni capitali; un fattore di riequilibrio che possa favorire la ripresa della domanda interna e che continua a mancare proprio nei Paesi a vocazione manifatturiera (Italia, Germania o Giappone), dove gli investimenti stagnano da anni. Stavolta non deve essere l’austerity la risposta alla crisi.
6 tasse
I conti della cgia sul 2018 Tasse, ogni italiano paga al Fisco 552 euro in più della media Ue
Stampa p.19
SANDRA RICCIO MILANO Il tema del peso fiscale è sempre più in evidenza nel nostro Paese. In attesa della Manovra 2020, che affronterà anche la materia delle tasse, il focus è su quanto paga oggi ogni contribuente al Fisco italiano. I conti li ha fatti la Cgia che ha anche comparato la pressione fiscale in Italia con quella degli altri 28 Paesi dell’Ue. Dall’analisi è emerso che nel 2018 gli italiani hanno pagato 33,4 miliardi di euro di tasse in più rispetto all’ammontare complessivo medio versato dai cittadini dell’Unione Europea. Secondo lo studio, si tratta di un differenziale che «pesa» quasi 2 punti di Pil. Vuol dire che, in termini pro capite, ogni contribuente italiano ha corrisposto al fisco 552 euro in più rispetto alla media dei cittadini europei. Questo è il dato medio in Europa. Guardando alcuni dei singoli Paesi europei, emergono poi diverse sorprese: se avessimo la pressione fiscale della Germania verseremmo 24,6 miliardi di tasse in meno (407 euro pro capite), dell’Olanda 56,2 (930 euro pro capite), del Regno Unito 114,2 (1.888 euro pro capite) e della Spagna 119,5 (1.975 euro pro capite). C’è anche chi paga più di noi. La lista dei maggiori pagatori è però molto breve. In Europa, secondo i numeri della Cgia, soltanto Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia hanno pagato mediamente più tasse di noi nel 2018. Stupisce Parigi: ogni cittadino d’Oltralpe ha versato al fisco 1.830 euro in più rispetto a noi. In termini assoluti il divario fiscale è a noi favorevole e ammonta a 110,7 miliardi di euro. «Il tempo degli slogan e delle promesse è terminato. Con la prossima manovra di Bilancio è necessario uno scossone che nel giro di qualche anno riduca di 3-4 punti percentuali il peso delle tasse», avverte il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo.—
Tasse, ogni italiano paga 552 euro in più della media Ue
Andrea Ducci sul Corriere a pagina 30
Una sequenza di cifre che spiega perché nei sondaggi gli italiani preferiscono una riduzione delle tasse, anche a rischio di mettere in difficoltà la tenuta dei conti pubblici. Rispetto alla media versata dagli altri europei nel 2018 i cittadini italiani hanno, del resto, pagato 33,4 miliardi di euro di tasse in più. In termini di Pil (Prodotto interno lordo) è un valore che si traduce in quasi due punti della ricchezza prodotta ogni anno in Italia. Di fatto vuol dire che ogni italiano corrisponde al fisco 552 euro in più rispetto alla media dei cittadiniresidenti nelresto del Vecchio Continente. I calcoli su quanto le tasse pesino di più in Italia che altroveèstato elaborato dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, che ha messo a confronto la pressione fiscale dei 28 Paesi dell’Ue. «Il tempo degli slogan e delle promesse è terminato—spiega il coordinatore dell’Ufficio studi di Cgia, Paolo Zabeo —. Con la prossima manovra di Bilancio è necessario uno scossone che riduca nel giro di qualche anno di 3-4 punti percentuali le tasse. Considerata la situazione dei nostri conti pubblici, l’intervento sarà praticabile solo abbassando, di pari importo, la spesa pubblica improduttivaeuna parte dei bonus fiscali». La Cgia non fa mistero che troppo tasse, oltreagravare sulla tenuta delle famiglie e delle imprese, hanno generato circoli viziosi nel sistema economico. Un effetto che si farebbe sentire, per esempio, sulla dinamica della domanda interna e degli investimenti. Nel corso del 2018,ricorda la Cgia, solo Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia hanno pagato mediamente più tasse rispetto all’Italia. Vale però ricordare che al fisco italiano sfuggono ogni anno circa 209 miliardi di euro di economia in «nero».
Italiani stangati dal fisco Massacro da 33 miliardi Ogni cittadino paga 552 euro in più rispetto N alla media Ue. La Cgia: «Subito giù le tasse»
Giornale p.5
CONTRIBUENTI BEFFATI Controlli inevitabili se il fisco ti deve dei soldi Il nuovo strumento che sostituisce gli studi di settore continua a sfornare brutte sorprese per le partite Iva. L’ultima novità è che sopra i 50mila euro di crediti Iva si azzera il regime premiale e gli accertamenti scatteranno anche per i più virtuosi
Antonio Castro su Libero a pagina 21
7 fmi
Sempre più complicato il credito peri piccoli: accolta una richiesta su tre IndagineCnasu1.600aziende.«PiùspazioaiConfidi»
Corriere pagina 30
Stretta sul credito per le piccole imprese. Solo il 32% delle richieste di credito sono accolte; le restanti sono rifiutate, del tuttoaparzialmente. A questa stima giunge uno studio condotto da Cna su un campione di 1.680 piccole imprese. Secondo gli artigiani, la causa della stretta non sarebbe da ricercare in un aumento del rischio d’impresa bensì in un cambiamento delle politiche delle banche. Orientate ad applicare alle richieste delle imprese criteri di accoglimento più rigorosi. «Dobbiamo controllare le regole del sistema bancario per evitare che il processo di protezione della stabilità delle banche— la stabilità è sacrosanta — venga pagato solo da una feroce e inarrestabile stretta al credito verso i piccoli», auspica il segretario generale della Cna Sergio Silvestrini. Il centro studi Cna evidenzia come dal 2011 a oggi il volume dei prestiti bancari al sistema produttivo si sia ridotto di un quarto, con una caduta secca di 250 miliardi di euro (995 miliardi nel dicembre 2011 controi746 del maggio 2019). Più colpite le piccole imprese, quelle con meno di 20 addetti, dove la riduzione è arrivata al 36% (sempre facendo un confronto con il 2011) mentre per le attività oltrei20 addetti il calo si è fermato al 23%. Questa realtà indaga il sondaggio. Le imprese intervistate sono piccole e piccolissime. Un terzo (il 33,7%) impiega fino a tre dipendenti, un altro terzo (31,4%) sono aziende individualieinfine l’ultimo terzo abbondante (34,9%) ha oltre tre addetti. La riduzione del credito ai piccoli potrebbe essere facilmente spiegata in due modi: un peggioramento del merito creditizio delle imprese stesse da una parteeuna riduzione della domanda di credito dall’altra. L’indagine Cna smonta questa lettura. «In realtà 7 imprese interpellate su 10 hanno chiesto negli ultimi due anni l’apertura di una nuova linea di credito. Non si può certo dire, quindi, che manchi la domanda di credito, anzi», dicono all’ufficio studi Cna. Il nodo per gli artigiani è che soltanto il 32% delle nuove richieste è stato accoltoafronte del 38,3% che sono state rifiutate. C’è poi un 30% dirichieste (29,7%) che è stato accolto solo parzialmente. Nei casi in cui il creditoèstato negato, le imprese spiegano che nella maggioranza dei casi (40%) la colpaèdi nuove policy bancarie, mentre per il 36% la causa sarebbe un aumento del rischio associato all’impresa stessa. «Perfare fronteaquesta situazione è necessario potenziare i Confidi — indica una strada Silvestrini —. Eliminarli o ridurli alla marginalità, come qualcuno ha in mente, porterà ineluttabilmente nuovi guai a piccole imprese e artigiani». Rita Querzè
7 fmi
Fmi, con Georgieva vince internazionale (foto ANSA) il partito anti-austerity
PER POTERSI SEDERE SULLA POLTRONA LASCIATA DA LAGARDE LA BULGARA DOVRÀ PERÒ OTTENERE IL CONSENSO DI TRUMP
Messaffero p.8
7 due streghe
Economia e politica Incertezze ai vertici e necessità di una svolta nelle politichemonetarie per gli istituti di StatiUniti, Giappone e Inghilterra. E alla Bce è in arrivoChristine Lagarde
LEMAGGIORIBANCHECENTRALI DAVANTIADUESTREGHEGEMELLE
Danilo Taino sul Corriere a pagina 28
Christine Lagarde si sta preparando a prendere il posto di Mario Draghi, il 1° novembre, al vertice della Bce. Sta studiando. È un avvocato, ha esperienza politica, è brillante. Difficilmente, però, in tre mesi diventerà un’economista che comanda i meccanismi complicati della seconda banca centrale al mondo per rilevanza. Negli scorsi otto anni, Draghi ha gestito la banca, le conferenze stampa mensili di politica monetaria e in generale la comunicazione ai mercati con capacità straordinaria anche perché ha una comprensione profonda dei meccanismi che muovono la finanza globale. Lagarde ha guidato il Fondo monetario internazionale, istituzione importante dalla quale però non si influenzano su basi quotidiane le decisioni degli investitori. Un mestiere diverso. Nel frattempo, a Washington succede che il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell — anch’egli avvocato di formazione anche se con un’esperienza nell’investment banking — dà l’impressione di muoversi con incertezza. Lo scorso dicembre alzò i tassi d’interesse dello 0,25% — a 2,25-2,50%—efeceintendere che
lo avrebbe fatto altre due volte quest’anno; pochi giorni fa, a fine luglio, ha rovesciato la posizione e ha tagliato il costo del denaro di un quarto di punto: è la prima volta in dieci anni, alla Casa Bianca c’era ancora George Bush, che la Fed riduceitassi, un’inversione di rotta non da poco. Realizzata, tra l’altro, sotto la pressione di Donald Trump che ha più volte criticato con pesantezza la stretta monetaria che era stata effettuata da Powell: la banca centrale americana ribadisce la sua indipendenza; è però chiaro che, tra le pressioni della Casa Biancaele incertezze proprie sulla direzione da tenere, la Federal Reserve oggi non è una solida àncora di stabilità: problema non da poco per tutto il mondo, dato il ruolo globale del dollaro. A Tokyo, la Banca del Giappone continua la sua politicamonetaria di espansione aggressiva—con i tassi d’interesse negativi allo 0,1% e acquisti di titoli pubblici per 80 mila miliardi di yen (675 miliardi di euro)all’anno—eil governatore Haruhiko Kuroda promette di andare oltre se ce ne sarà bisogno. Il guaio è che l’economia nipponica sta sì un po’ recuperando ma dopo una contrazione nei primi nove mesi dell’anno scorso nonostante gli stimoli monetari durino da anni. E l’inflazione, allo 0,7% e in calo,rimane lontana dall’obiettivo del 2%. Per parte sua, la Banca d’Inghilterra non è solo alle prese con la gestione della sterlina e dell’economia britannica di fronte all’uscita dalla Ue: deve anche affrontare il cambio di guida, perché il governatore Mark Carney se ne andrà a fine gennaio 2020 e il governo di Boris Johnson vorrà probabilmente trovare un successore che sia meno contrario alla Brexit di lui. Succede che tutteequattro le principali banche centrali del mondo, quelle che influenzano le maggiori valute di riserva, vivono un passaggio delicato, quando non delicatissimo. E ciò capita mentre si annuncia un vero e proprio cambio di stagione per quel che riguarda le politiche moneta
rie. La fase seguita alla crisi del 2008 — caratterizzata da tassi d’interesse bassissimi e da acquisti di titoli sui mercati per immettere liquidità nelle economie (il famoso Quantitative Easing) — sembra avere dato tutto ciò che poteva. Non solo perché il costo del denaroèalivelli minimi — Stati Uniti esclusi — per i quali scendere ulteriormente non è facile. Ma anche perché i tassi bassi stanno incidendo sempre più negativamente sui bilanci delle banche e delle assicurazioni e suirendimenti dei fondi pensione. In più, altri acquisti di titoli sui mercati non saranno facili, soprattutto in Europa se la Bce deciderà di riprenderli: per farlo, occorrerà cambiare le limitazioni di acquisto perché in alcuni casi, ad esempio dei Bund tedeschi, non c’è abbondanza dititoli da comprare. In un quadro in cui le opposizioni politiche al Quantitative Easing stanno crescendo. Le maggiori banche centrali sono insomma di fronteadue streghe gemelle: incertezze ai vertici e un cambio di passo necessario nelle politiche monetarie. Proprio in una fase nella quale non si vede chi e cosa sia in grado di prendere la leadership economica al loro posto; anzi, conigoverni più impegnati nelle guerre commerciali che nelle politiche per la crescita. L’avvocato Christine Lagarde dovrà studiare, e farsi aiutare, davvero molto. © RIPROD
5 deutch bank e derivati
Deutsche Bank ridimensiona la mina derivati ROMA — Deutsche Bank affronta il problema dei derivati che pesano sul suo bilancio. La banca tedesca avrebbe acantonato oltre un miliardo di euro per far fronte ad eventuali minusvalenze nel suo piano di ristrutturazione da 7,4 miliardi. Il piano prevede tra l’altro la creazione di una “ bad bank” cui sono destinati complessivamente 244 miliardi di attivi di cui la banca tedesca intende liberarsi. Lo scrive sul suo sito web l’agenzia Reuters citando tre fonti che risultano a conoscenza del delicato dossier. Secondo queste fonti, Deutsche Bank ha intenzione di mettere in campo una vera e propria asta per i suoi derivati nel comparto azionario. L’operazione, a quanto è trapelato, avrebbe riscosso interesse da parte di banche europee e statunitensi. Successivamente, Deutsche Bank punterebbe a vendere i derivati, più a lunga scadenza, sui tassi d’interesse e sul credito, meno attraenti perché richiedono maggior capitale a copertura. I vertici della banca si sono detti fiduciosi sulla valutazione che il mercato farà dell’operazione. L’obiettivo finale è quello di avere la possibilità di ridurre l’esposizione a soli 9 miliardi entro il 2022, un obiettivo che tuttavia molti analisti giudicano particolarmente ambizioso.
Repubblica a pagina 30
8 progetto italia
Buia (Ance): «Il Progetto Italia spazzerà via le piccole imprese» Costruttori contro il progetto Salini-Cdp: «Destabilizza il mercato»
Libero a pagina 21
«La spinta dei cantieri peril Pil, ma in Italia c’è troppa burocrazia»
Michele Pizzarotti: obiettivo 2 miliardi di fatturato nel 2021
Corriere pagina 31
9 cinesi in sicilia
Ora i cinesi fanno rotta sulla Sicilia “In un anno raddoppiamo i turisti” Dopo la visita di Xi Jinping, siglata l’intesa con Ctrip, l’agenzia viaggi online più grande al mondo
Il sottosegretario Geraci: “Ecco i primi frutti dell’intesa siglata con Pechino”
Aperto un dossier infrastrutture. Interesse per porti e aeroporti dell’Isola
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L a breve visita di fine marzo a Palermo di Xi Jinping, per ricambiare la cortesia istituzionale fatta da Mattarella visitando la sua città natale, in questi mesi ha acceso l’interesse dei cinesi per la Sicilia. Doveva essere una visita privata, per fare del turismo in maniera discreta dopo il summit di Roma, ma in realtà è servita a porre le basi per nuovi business. Tant’è che ora una delegazione cinese torna in Sicilia per siglare un primo accordo. «Si parte col turismo, che da subito si è rivelato il terreno più fertile, come dimostra il considerevole aumento dei voli diretti tra Roma e la Cina che si è avuto subito dopo la firma del memorandum d’intesa passando da 47 a 56 collegamenti la settimana con la prospettiva di arrivare presto a 100», spiega il sottosegretario al Commercio estero Michele Geraci, il “padre” dell’intesa col governo di Pechino sulla via della Seta . Martedì Geraci accompagnerà a Palermo i rappresentanti di Ctrip. Si tratta della più grande agenzia di viaggi online dell’Asia, un vero e proprio gigante del settore, con 40 mila dipendenti sparsi tra Shangai e le altre 13 sedi, un fatturato di 88 miliardi di dollari e 300 milioni di utenti registrati. Martedì la firma a Palermo Nella sede dell’assessorato al Turismo e con la benedizione della Regione, che sarà presente con l’assessore Manlio Messina, il responsabile del marketing di Ctrip Bo Sun firmerà un accordo quadro con Alessandro Albanese, presidente vicario di Sicindustria. Che spiega: «Quello con Ctrip è un accordo strategico per tutto il tessuto economico e produttivo siciliano. Il link tra la Sicilia e un mercato potenziale effettivo come quello del turismo cinese apre le porte a uno sviluppo che sarà prima di tutto a trazione turistica, ma che coinvolgerà a catena tutte le filiere produttive e industriali siciliane». «Sono sempre benvenute tutte le iniziative utili a intensificare i rapporti tra le imprese – aggiunge a sua volta Messina – soprattutto ovviamente in campo turistico, con l’obiettivo di offrire supporto alle imprese regionali nella commercializzazione dei prodotti turistici locali». Obiettivo dichiarato dell’intesa, che andrà poi tradotta in pratica da una serie di accordi più specifici, è quello di raddoppiare nel giro di un anno il numero dei turisti cinesi che visitano l’Isola e che ora intercetta appena il 2% del flusso di turisti cinese. Troppo pochi rispetto al suo potenziale turistico legato a bellezze naturali, storia e cultura millenarie. «L’anno scorso dalla Cina sono arrivati in Italia 3,5 milioni di turisti, con 5 milioni di pernottamenti, e questo ha fatto del nostro Paese la prima destinazione europea per i loro viaggi – spiega Geraci -. Ora vogliamo aumentare il numero dei turisti cinesi in arrivo e la durata dei loro soggiorni facendo conoscere loro altre località oltre alle classiche Roma, Firenze e Venezia». Oltre a promuovere il «prodotto Sicilia» su tutti i social del gruppo, CTrip non esclude la possibilità di suggerire a breve di istituire un nuovo collegamento Pechino-Palermo, visto che «l’apertura di nuovi voli diretti è la priorità dell’Anno Italia-Cina turismo e cultura».I cinesi potrebbero investire in nuove strutture turistiche ma il loro sguardo potrebbe andare anche oltre. Una delegazione tecnica che nei mesi corsi ha preceduto il viaggio di Xi Jinping a Palermo ha raccolto diversi dossier che serviranno a focalizzare meglio gli obiettivi su cui concentrare i possibili investimenti. In cima alla lista ci sono i porti di Palermo e Porto Empedocle, gli aeroporti di Palermo e Catania ed una serie di siti nei quali realizzare resort adeguati agli standard del turismo cinese di fascia alta. Focus sulle infrastrutture I cinesi, che sono alla ricerca di un hub nel cuore del Mediterraneo, guardano con interesse innanzitutto al nuovo terminal crociere del porto di Palermo ed al progetto del nuovo terminal merci. Per superare i nostri tradizionali problemi burocratici stanno concentrando il loro interesse innanzitutto su strutture già esistenti, eventualmente da adeguare realizzando fondali più profondi, in modo da poter ospitare non solo le grandi navi da crociera ma anche le portacontainer. Ed offrire così una alternativa al porto greco del Pireo e da qui alimentare Genova e Trieste che dovrebbero a loro volta diventare i terminali marittimi della futura via della Seta per tutta l’Europa. — cBY NC ND ALCUNI DIRITTI RISER
10 onu sul clima
Svolta dell’Onu sul clima: «Economia verde contro la povertà del pianeta»
Allarme riscaldamento globale
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Guterres, chiede ai governi «un impegno concreto contro inquinamento e gas serra». Esperti riuniti a Ginevra in vista del grande vertice di settembre al Palazzo di Vetro
Dall’economia circolare al riciclo, alle nuove fonti rinnovabili: la crisi climatica trasforma il mondo produttivo e della finanza – Il ruolo dei fondi europei Secondo l’ad di Enel Francesco Starace molte aziende italiane sono abili nel fare efficienza energetica. Possono esportare pratiche virtuose all’estero
Gianluca Di Donfrancesco sul Sole a pagina 4
Il check-up del pianeta, nell’anno dei picchi-record di temperatura nel Nord Europa, dell’ascesa dei Verdi in Germania e del fenomeno Greta Thunberg. Più di 100 scienziati di 52 Paesi sono riuniti da ieri a Ginevra, nel quartier generale del Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), per esaminare il «Rapporto speciale sui cambiamenti climatici e sul suolo». Aumento delle temperature, desertificazione, gestione sostenibile delle risorse, sicurezza alimentare, gas serra: gli esperti dell’ambiente discuteranno fino al 6 agosto le contromisure. L’8 agosto il rapporto sarà presentato al pubblico: ribadirà la necessità di fermare la deforestazione e rendere più sostenibile la produzione alimentare se si vorrà davvero contenere l’innalzamento della temperatura globale sotto 1,5 gradi, come stabilito dall’Accordo di Parigi del 2015. Minaccia per salute ed economia La conferenza in corso di Ginevra è uno dei più importanti passi di avvicinamento al vertice Onu sull’ambiente, in programma il 23 settembre a New York. A questo appuntamento, gli Stati dovranno presentarsi con proposte in linea con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 45% nel prossimo decennio e di azzerarle entro il 2050. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno l’inquinamento atmosferico causa 7 milioni di morti premature (600mila bambini). Per la Banca Mondiale, l’inquinamento atmosferico costa all’economia globale circa 5.110 miliardi di dollari ogni anno. Nei 15 Paesi con le più alte emissioni di gas serra, le conseguenze sulla salute sono stimate in oltre il 4% del Pil. Il global warming o climate change, eufemismi per indicare gli incendi in Siberia o la trasformazione del ghiacciaio islandese Okjökull in un vulcano, è per l’Fmi una minaccia per la salute e per la crescita globale, che si scarica in particolare sulle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, vittime di un «Apartheid climatico», come lo ha definito l’Onu: disastri naturali e carestie, prima ancora delle guerre, ogni anno scacciano milioni di persone dalle proprie case e le ammassa alle frontiere sempre più insofferenti del Nord del mondo. L’appello di Guterres Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha messo tra le priorità globali «l’azione sul clima, che deve essere promossa in modo da ridurre la disuguaglianza, passando a un’economia più verde che potrebbe creare 24 milioni di posti di lavoro entro il 2030, salvaguardando gli 1,2 miliardi di posti che dipendono da un ambiente stabile e salubre». Venerdì, Guterres ha rinnovato l’appello ai capi di Stato a impegnarsi per ridurre i gas serra. L’isolamento degli Usa Rispettare l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, firmato nel 2015, potrebbe salvare oltre un milione di vite all’anno entro il 2050, sostiene l’Onu, che stima in 54.100 miliardi di dollari, solo attraverso la riduzione dell’inquinamento atmosferico, i vantaggi economici. Al G20 di Osaka di fine giugno, tutti i Grandi hanno ribadito «l’irrevocabilità» e la «completa applicazione» degli impegni presi sul clima, con l’eccezione degli Stati Uniti: nel 2017 il presidente Donald Trump aveva annunciato l’uscita dall’accordo, ma a maggio la Camera dei rappresentanti ha votato una legge che chiede alla Casa Bianca di fare marcia indietro. Il Green Deal per l’Europa La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha citato l’ambiente come primo punto del suo discorso di insediamento, confermando l’obiettivo di fare della Ue un continente a «emissioni zero». Nell’Agenda per l’Europa, von der Leyen ha proposto un Green Deal che prevede, tra l’altro, la trasformazione di parte della Banca europea degli investimenti in una Banca europea per il clima, in modo che promuova investimenti nell’ambiente per mille miliardi di euro in 10 anni, coinvolgendo anche i privati; la revisione degli obiettivi di riduzione delle emissioni entro il 2030, portandoli almeno al 50 e possibilmente al 55%, dal 40% attualmente previsto; l’introduzione di un’imposta sul carbonio alle frontiere europee (Carbon Border Tax), per evitare la delocalizzazione dei gas serra. Italia tra virtù e fragilità Come ribadisce un recente rapporto Istat: «I cambiamenti climatici concorrono all’inasprimento di alcune calamità di natura idro-metereologica che accrescono la vulnerabilità del territorio e delle popolazioni e aggravano le criticità legate alla disponibilità di acqua». Sempre secondo l’Istat, il 17% dei consumi è coperto da rinnovabili, al di sopra della media Ue, e nel 2017 l’Italia ha toccato il minimo storico nella produzione di anidride carbonica. Alla conferenza Onu di settembre, l’Italia porterà la sua proposta (già annunciata ad Abu Dhabi) di «transizione energetica»: realizzare infrastrutture energetiche intelligenti e digitalizzate nei Paesi in via di sviluppo. Alla conferenza sulla desertificazione, in programma a New Dehli dal 2 al 13 settembre, Roma presenterà invece un progetto di contrasto alla desertificazione in Burkina Faso, Ghana e Niger. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Groenlandia L’isola siscioglie sempre di più peril caldo record:10miliardi ditonnellate fusi in un solo giorno
Francesco Giambertone sul Corriere a pagina 13
Sul calendario dell’Istituto meteorologico danese c’è una data cerchiata di rosso: mercoledì 31 luglio 2019. Gli scienziati che monitorano i ghiacci dellaGroenlandia non dimenticheranno facilmente questa data: soltanto in quel giorno della settimana scorsa, l’isola tra l’Atlanticoel’Artico ha perso oltre 10 miliardi ditonnellate di ghiaccio, squagliate dall’ondata di caldo nordafricano che ha travolto l’Europa continentale e ora flagella i territori del Nord. Il Continente scotta, la Siberia va a fuocoela Groenlandia si scioglie. Ma non bastano i dati di una stagione a gettare i ricercatori nel panico: il luglio in cui le temperature hanno toccato picchi mai registrati prima in Belgio, Germania, Lussemburgo, Olanda e Gran Bretagna, non è il più caldo di sempre in Groenlandia, nonostantei13 gradi in più della mediadel periodo.Il 2019 insidia il primato del torrido 2012, quando il fenomeno dello scioglimento di almeno un millimetro di superficie (consueto d’estate, soprattutto nelle zone più vicine al mare) arrivòacoinvolgere il 97% dei ghiacci della calotta, trasformati in 290 miliardi di tonnellate d’acqua. Quest’anno siamo già a quota 240 miliardi, e manca ancora tutto agosto: in alcune parti della Groenlandia il ritmo di scioglimento—ha spiegato il climatologo Jason Box—è1,2 volte superiore a sette anni fa; ci si aspetta un innalzamento dei mari di 0,5 millimetri. Certo, le immagini di questi giorni, spettacolari e inquietanti, dei fiumi in piena scroscianti di acqua ghiacciata fino ai fiordi groenlandesi, non lasciano tranquilli (soprattutto i profani): in realtà, una gran parte di quell’acqua il prossimo inverno si ghiaccerà di nuovo, anche se i dati raccolti negli ultimi mesi suscitano un po’ di preoccupazione. «Le previsioni a lungo termine — racconta all’Ap Ruth Mottram, scienziata del clima — dicono che il tempo soleggiatoecaldo andrà avanti, e il ghiaccio continuerà a sciogliersi». Per Mike Sparrow, portavoce dell’agenzia meteorologica dell’Onu, «queste ondate di calore ci sono sempre state, ma ora accadono almeno 10 volte più spesso di un secolo fa». La colpa, ha confermato una ricerca di un team di studiosi europei pubblicata venerdì, è dell’uomo. Che può ancora fare qualcosa, prima che la Groenlandia si sciolga per sempre: il livello dei mari si alzerebbe di 7 metri. E il panico sarebbe giustificato. Francesco Giambertone © RIPRODUZIONE RISERVATA
«Ghiacci addio E conseguenze imprevedibili»
Giovanni Caprara sul Corriere a pagina 13
Dieci miliardi di tonnellate di ghiaccio fuse in un solo giorno in Groenlandia. Che significato ha il drammatico dato diffuso dall’Istituto meteorologico dellaDanimarca? «La situazione in Groenlandia sta peggiorando di anno in anno — risponde Leonardo Langone, direttore dell’Istituto Polare del Cnr a Venezia — ad un ritmo preoccupante perle conseguenze possibili sul nostro pianeta. Dal 1972 al 2018 il bilancio dei 260 ghiacciai distribuiti sulla grande isola rivela che fino al 1980 questi erano in crescita ma da allora hanno incominciatoaperdere ghiaccio in maniera sempre più consistente». Da quando la situazione sta precipitando in modo serio? «Dal 2000 al 2010 le perdite salivano a 187 miliardi di tonnellate ogni anno e nel decennio successivo si è arrivati a 286. I ghiacci più sensibili nelle perdite sono nel settentrione». Con quali conseguenze ? «Un innalzamento delle acque dei mari: in 46 anni il livello è aumentato di 13,7 millimetri. Ciò che preoccupa è l’accelerazione del fenomeno con un trend sempre in crescita. Ma assieme si verifica anche una fusione del ghiaccio marino. Già il 14 luglio siamo arrivati ad una perdita significativa che ha ridotto l’estensione a 7,9 milioni di chilometri quadrati; un valore uguale a quello della stessa data nel 2012 che rimane un terribile anno record. Alla fine della stagione a settembre l’estensione era arrivata a 3,4 milioni di chilometri quadrati. E quest’anno potremmo scendere ancora più in basso. Ciò significa che ci avviciniamo in fretta alla soglia di un milione di chilometri quadrati, un valore sotto il quale i ghiacci del Polo Nord si considerano scomparsi. Con conseguenze imprevedibili». © RIP
Scioglimento record della calotta polare con gli incendi artici In un solo giorno, il 31 luglio, sciolti 10 miliardi di tonnellate d’acqua e il 56% dei ghiacci della Groenlandia si è assottigliato di 1 millimetro
RACHELE GONNELLI sul Mamifesto a pagina 8
Sono i colori che proprio non tornano anche ad un occhio non esperto, quasi come se fosse sbarcato in Groenlandia un artista alla Michel Gueranger che negli anni Settanta pitturava di rosa shocking i ghiacciai del Monte Bianco. Le immagini riprese in questi giorni dal documentarista Caspar Haarløv tra i ghiacci di Kangerlussuaq, oltre il Circolo polare artico, mostrano al posto di paesaggio dominato dal bianco, impetuosi torrenti turchesi e ghiacciai grigi a perdita d’occhio, oppure cascate di acque marroni ancorate a rive di un marrone più cupo, terroso. Il suo video Into the Ice è la documentazione di ciò che sta tragicamente avvenendo nella Groenlandia occidentale: uno scioglimento epocale della banchisa polare con il caldo torrido di questa estate. IL 31 LUGLIO SCORSO – le immagini di Caspar Haarløv sono del giorno successivo – l’Istituto metereologico danese ha registrato un’enorme massa di acqua che si è riversata nell’oceano, pari a 10 miliardi di tonnellate, in un solo giorno. In tutto il mese di luglio, con temperature che in alcuni punti della Groenlandia hanno superato i 22 gradi centigradi, segnando il record del luglio più caldo dal 2012, si sarebbero riversate nell’Atlantico 197 miliardi di tonnellate d’ acqua (60 miliardi sarebbe la normalità stagionale). C’è da dire che proprio il 1° agosto, nel quarantesimo compleanno del primo modello di misurazione meteorologica globale dell’Ecmwf (l’European Centre for Medium-Range Weather Forecasts, ente di ricerca che raggruppa scienziati di 34 Paesi tra cui quelli dell’Istituto danese) è stato lanciato il nuovo modello di misurazioni a medio raggio, cioè stagionali, molto più accurate e integrate e che si avvalgono anche di strumenti di Intelligenza artificiale e algoritmi previsionali. «Abbiamo fatto grossi passi in avanti ma ci sono ancora molti dati da decifrare meglio, in modo integrato», afferma Roberto Buizza, fisico dell’atmosfera e climatologo che dall’Ecmwf di Londra è approdato alla Scuola Normale Superiore Sant’Anna di Pisa e da lì ha recentemente inviato una lettera aperta al presidente della Repubblica Mattarella firmata da oltre 300 scienziati perché anche in Italia si attui una politica seria per contrastare il riscaldamento climatico. «Ciò che è certo – continua Buizza – è che i cambiamenti climatici sono più rapidi nell’Artico rispetto a qualsiasi altra regione sul pianeta Terra e le temperature medie annuali stanno aumentando lì di oltre il doppio rispetto alla media globale. Di conseguenza la copertura del ghiaccio marino sta diminuendo, il ghiaccio si sta assottigliando in modo molto più rapido rispetto a quello che avevamo previsto». CI SONO DIVERSE IPOTESI sul perché di questa inattesa vertiginosa accelerazione che viene definita «amplificazione artica» e che gli scienziati tendono ad attribuire al coefficiente chiamato «effetto albedo», che dipende dalla rifrazione della luce sulla superficie bianca del ghiaccio ma anche dalle nuvole basse che lo sovrastano e sono in grado di aumentare o diminuire,l’irradiazione di onde corte in onde lunghe, più capaci di raffreddare l’aria. Lo sbilanciamento dell’albedo sarebbe dunque un moltiplicatore del riscaldamento dell’Artico, la centrale di regolazione climatica della Terra. TORNANDO AI COLORI stravaganti, il turchese intenso dei fiumi e degli stagni immortalati in Groenlandia sono tipici della fusione fresca di ghiaccio di banchisa. A tingere di nero i ghiacciai perenni potrebbero aver contribuito le ceneri sospese dei grandi incendi che stanno divampando non soltanto in Siberia e Yakuzia, ma anche in Groenlandia, Alaska e Canada: il satellite Sentinel ne ha censiti oltre cento, di vaste proporzioni in tutto il circolo polare artico. Questa fuliggine chiamata black carbon depositandosi sulla banchisa potrebbe interferire sull’albedo. Nell’ultimo bollettino dell’Ecmwf , che si riferisce all’estate dell’anno scorso – il quarto anno più caldo dall’inizio delle misurazioni storiche nel 1880 – è riportata una ricerca che si è avvalsa delle rilevazioni fatte dalla spedizione a bordo del rompighiaccio svedese Oden. Già nell’agosto 2018 a largo delle isole Svalbard l’Oden aveva dato l’allarme sulla quantità di stagni turchesi al posto dei ghiacciai. Ma i colori erano ancora bianco e blu.
Tra i discepoli di Greta
Al raduno tedesco dei ninja del clima Tutti in fila per lavare i piatti “Ma poco sapone”
Il congresso nello storico parco di Dortmund, la vecchia città delle miniere Niente plastica, l’acqua soltanto dalle fontanelle, bandito l’alcol. Ma per nessuno è un sacrificio
Tonia Mastrobuoni su Repubblica a pagina 18 e 19
DORTMUND — Il “chili senza carne” sa di niente e di futuro. E la fila per il pranzo è lunga, si snoda dal tendone bianco al grande prato strapazzato dal caldo. Accanto, c’è un’altra fila, quella per lavare i piatti. Una cinquantina di ragazzi aspettano pazienti il loro turno per infilare le stoviglie sporche nelle vaschette. Puliscono piatti e bicchieri con le stesse tre spugnette, li sciacquano, li mettono ad asciugare. Quando aggiungiamo un po’ di sapone, un ragazzino che avrà sì e no dieci anni ci fulmina con lo sguardo: «Hey, vacci piano», ci rimprovera, un po’ stridulo: «Il sapone è veleno». Vero. E l’ambientalismo una rivoluzione che comincia da te. Ovunque, nel mega campo all’aria aperta organizzato dai “Fridays for future”, valgono le stesse regole: niente plastica, niente che non sia riutilizzabile, bandite sigarette, vietato l’alcol. Per l’acqua, ci sono le fontanelle pubbliche. Ma nessuno sembra considerare questi dettagli un sacrificio. E non solo perché i tedeschi sono noti per la loro frugalità. Leonie Bremer e Anna Kopal sembrano due ninja: maglietta identica con il logo del movimento, benda verde in testa, sguardo deciso. Le due ventunenni vengono da Colonia, dove studiano “Ambiente ed energia”. Leonie annuisce, quando chiediamo com’è cambiata la loro vita da quando hanno aderito alle proteste del venerdì per fermare i cambiamenti climatici. «Non andiamo in macchina, mai, e siamo entrambe vegane. Quando i miei mi hanno detto di raggiungerli quest’estate in Irlanda, ho detto di no. Col treno ci avrei messo troppo, l’aereo non lo prenderò mai più». Per il loro primo, grande congresso in Germania, i discepoli secchioni di Greta Thunberg hanno scelto un parco storico di Dortmund. Nella vecchia città delle acciaierie e delle miniere, il Comune aveva costruito negli anni Settanta un polmone verde per attutire l’effetto del cielo avvelenato. Ora che le acciaierie sono chiuse, questi ragazzi accampati tra gli alberi che si battono per un futuro più verde sembrano una piccola nemesi, per questa regione che una volta era il polmone nero della Germania. Nel parco sono arrivati 1.700 partecipanti, molti dei quali accampati tra gli alberi. Pagano 100 euro per una settimana di seminari e di piazza, di pranzi gratis, di studio e di rivolta. Dietro ai tendoni della mensa, seduti sul prato, gli attivisti si preparano alla grande manifestazione prevista in città per il giorno dopo. Sono
divisi per gruppi, a seconda delle azioni di disturbo – loro li chiamano “tentacoli della ribellione”. Tom Patzelt ha vent’anni e si è costruito un cartello rosso con la scritta “Crime scene”. Non ci vuole rivelare che tipo di azione sta preparando con il suo gruppetto, ma ci anticipa che “prenderemo di mira Deutsche Bank, Commerz e Sparkasse”. Sarà un’azione goliardica, “rigorosamente pacifica” per criticare “le banche che finanziano armi ed energia sporca e fanno politiche troppo poco orientate al futuro”. Ma soprattutto si tratta di convincere i bancari a scioperare con loro: il 20 settembre i Fridays for future tedeschi vogliono organizzare uno sciopero generale, in concomitanza con la discussione governativa sugli obiettivi anti cambiamenti climatici annunciata da Angela Merkel. Lo sciopero generale per motivi politici è vietato, in Germania; dunque si tratta “di convincere i lavoratori tedeschi uno a uno”, sorride Tom, accarezzandosi la barba bionda. I “tentacoli” prenderanno di mira supermercati come Rewe, aziende elettriche come E.On, librerie e catene di abbigliamento. Uno spezzone in particolare si staccherà dal corteo per organizzare un blocco stradale con barricate fiori secchi e terra. Una ragazza puntualizza al megafono che «tranquilli, sarà tutta terra bio e i fiori sono tutti già morti e da buttare», ma la discussione si concentra sulla resistenza o meno alla polizia. L’idea generale è di sciogliersi subito, se gli agenti glielo chiedono. Un partecipante che si presenta come Ingo e ha disciplinatamente alzato la mano prima di parlare, ragiona diversamente: «Secondo me dovremmo resistere; se la polizia ci carica o ci butta i lacrimogeni, l’opinione pubblica simpatizzerà con noi. Non è come quando attaccano quelli di sinistra e i black bloc, di noi sanno benissimo che siamo pacifisti». Che pragmatismo. È una generazione visibilmente abituata a governare con destrezza i social media e a trattare la stampa come un’alleata. Lo dimostra anche il loro ufficio stampa efficientissimo. Uno di loro è Lucas Pohl, ventunenne di Kiehl, maglietta bianca di solidarietà con i profughi. E l’instagram manager del movimento tedesco e ci tiene a spiegare che «Twitter, in Germania, è poco usato; Facebook ormai una roba per i ventenni in su. Ma siccome il movimento è per lo più fatto di studenti che vanno ancora a scuola, i mezzi più adatti in assoluto sono Instagram, Snapchat. E tra di noi comunichiamo via Whatsapp». Tra i capannelli che costruiscono fantocci di cartapesta per la manifestazione si aggira anche Luisa Neubauer, la star del movimento, la Greta tedesca. Non vuole parlare con noi, né con gli altri giornalisti che le gironzolano intorno in attesa di udienza. «Fa meno interviste, è una decisione condivisa un po’ da tutti – ci spiega Pohl – perché siamo un movimento orizzontale e vogliamo rimanerlo». L’unica star ammessa, insomma, è Greta, la studentessa che per mesi ha scioperato da sola, davanti al Parlamento svedese, prima di essere scoperta da una generazione globale in cerca di riscatto. Mentre ci incamminiamo per andare a uno dei numerosissimi seminari su ambiente e politica organizzati dal congresso, qualche maestro del coro improvvisato sta allenando i ragazzi per gli slogan: «What do we want?», cosa vogliamo, grida. E i ragazzi gli rispondono, urlando a squarciagola «climate justice», giustizia per l’ambiente. «When do we want it?», “quando la vogliamo? «Now!”», replicano, la vogliamo adesso. Avviciniamo una ragazza bionda: Christine ha 14 anni, è venuta da Berlino e ci spiega che «quell’“adesso” va preso sul serio: ci restano otto anni per fermare la catastrofe. E non possiamo farlo da soli: i colpevoli siete voi adulti ed è arrivato il momento che che facciate qualcosa».
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DOVE FISSARE I LIMITI DELLA SORVEGLIANZA SULLE PERSONE
di Luca De Biase
Colpirne uno per educarne dieci milioni. Non è il piano di un’organizzazione terroristica: si direbbe che sia piuttosto il progetto della polizia di Romford, Londra. Le forze dell’ordine stanno sperimentando una nuova tecnologia che serve a riconoscere i criminali inquadrandoli con una telecamera connessa a un’intelligenza artificiale che opera sul gigantesco insieme di dati costruito nel tempo nella megalopoli britannica, vice campione del mondo, dopo Pechino, nella sorveglianza con telecamere: i criminali eventualmente individuati sarebbero arrestati seduta stante. Un passante rifiuta di collaborare, si copre il viso con la visiera del cappello e tenta di andarsene. Viene fermato. Segue un alterco e una multa. L’uomo non aveva precedenti. Tutto è filmato da giornalisti. La polizia si giustifica: «Il fatto che quel signore si copra il volto per evitare la nostra telecamera è un buon motivo per fermarlo». È l’attacco cruciale di un’inchiesta del Financial Times. Una tecnologia che registra il volto di tutti i cittadini e lo confronta con un database di persone ritenute pericolose genera come unico vero automatismo il sospetto nei confronti di chiunque non si adatti al sistema. Da notare che, come riportato da Forbes, alcuni ricercatori dell’università dell’Essex avevano appena pubblicato un paper che mostrava come la polizia di Londra con i suoi sistemi di sorveglianza veda falsi positivi nell’80% dei casi. Può darsi che la tecnologia migliori: ma è accettabile in una democrazia che la polizia arresti anche una singola persona innocente esclusivamente in base al responso di un sistema automatico? Un fatto è certo. Gli errori, con questi sistemi, sono fisiologici. Si tratta di machine learning che funziona facendo uso di varie tecniche statistiche a base di calcolo delle probabilità per le quali una certa quota di errori è minimizzata ma mai abolita. Inoltre, queste tecnologie si basano su insiemi di dati organizzati da umani secondo logiche varie. Il recentissimo, magnifico libro di Luca Rosati, «Sense-making» (UxUniversity 2019) non si occupa di intelligenza artificiale ma di organizzazione dell’informazione: ed è una guida raffinatissima alle problematiche che si incontrano nella classificazione dei dati. Dimostra che l’interpretazione umana è parte integrante di ogni organizzazione dell’informazione e che non esiste una classificazione oggettiva dell’informazione. Sicché una lettura di questo testo aiuta anche a immaginare quello che non si deve fare con un sistema per il riconoscimento facciale, che evidentemente produce classificazioni macinando dati a loro volta classificati. Con queste macchine non si può decidere automaticamente un arresto. Non si può interpretare una persona che rifiuti questa tecnologia come un potenziale criminale. E non si può registrare impunemente qualunque cosa faccia qualunque cittadino in attesa che i dati archiviati possano servire. Il caso Ed Bridges è destinato a lasciare il segno: il cittadino gallese combatte in tribunale contro la polizia che gli ha registrato il volto durante una manifestazione di protesta contro le armi. Sostiene che se la polizia potesse sorvegliare sistematicamente tutti, le persone non potrebbero più sentirsi libere di manifestare. Alcuni diritti umani fondamentali sono in gioco. Il progresso non si ferma. Ma l’umanità può decidere che cosa sia, il progresso. © RIPRODUZIONE RISERVATA
POLITICA
1 decreto sicurezza
Dl sicurezza e Tav, in tre giorni il governo si gioca tutto
Manifesto a pagina 4
Sicurezza bis, servirà l’aiutino di Fdi e Forza Italia Una decina di grillini potrebbero non partecipare al voto domani a Palazzo Madama. A votare no Pd, Leu e dei senatori a vita. Mantero (M5S): “Contesto la natura del decreto, e se c’è la fiducia uscirò dall’Aula”
Da autonomisti e gruppo misto in arrivo altri sì al provvedimento
Repubblica pagina 6
Toti “La legge è giusta Dopo la manovra al voto col nuovo centrodestra”
No alla fiducia, ma ci asterremo. Il mio movimento si chiamerà “Cambiamo!”. Io e Salvini su due spiagge diverse ma parallele
Repubblica pagina 6
L’intervista a Toti
GENOVA «Non ci opponiamo ai provvedimenti giusti, come il decreto sicurezza. Ma se viene posta la fiducia, allora ci asterremo. Forse lasceremo l’aula. Ma non voteremo contro». Giovanni Toti parla all’ombra della sua casa a Bocca di Magra, ai suoi piedi ci sono i quotidiani, sopra i quotidiani c’è il gatto Spread, arancione, come il movimento che ha appena fondato, “Cambiamo!”. In tre giorni, il governatore della Liguria è passato da coordinatore azzurro e consigliere politico di Berlusconi a fuoriuscito di Forza Italia e fondatore di un nuovo soggetto politico di centrodestra. Toti, come voteranno in Senato, i suoi, il decreto sicurezza? «Sceglieremo l’astensione o il non voto, se sarà posta la fiducia. È difficile votare la fiducia a questo governo, ma è altrettanto difficile vedere la bava alla bocca di Forza Italia che bada più a fare un dispetto a Salvini, che il bene del Paese. Il decreto è un provvedimento utile». Se c’è un uomo in mare, è utile che diventi un reato salvarlo? «Va salvato, ma una cosa è salvare un uomo, un’altra è portarli tutti in Italia. Se trovi naufrago, e non lo salvi, non sei un essere umano, ma trasportare signori, da una spiaggia all’altra, è diverso». Quanti saranno i “suoi” parlamentari? «Non cerco né un deputato né un senatore. Chi ritiene che ci sia bisogno di cambiare è il benvenuto, chi vuole restare nella palude, ci stia. Partiamo dall’opposto. Diamo voce ad amministratori, sindaci, consiglieri, alle persone che sono state soffocate e compresse dall’apparato nazionale, finora. Mi interessano le molte migliaia di nuovi follower sui miei social, le migliaia di messaggi che sto ricevendo. E mi fa pensare che, per la prima volta, Berlusconi stia ricevendo critiche pesanti, come non era mai successo». Staccherebbe la spina a questo governo? «È un governo di compromesso, logorato da un anno di attività. Dico alle forze politiche di farsi un esame di coscienza, se sono utili al Paese vadano avanti. In franchezza, una riflessione la farei, dopo un anno mezzo così. Di questo governo va superata la divisione del Paese tra buoni e cattivi, tra Nord e Sud, tra banchieri truffaldini contro i risparmiatori truffati, tra grandi opere contro piccole: la visione manichea dei grillini. Il mio auspicio è che approvino la legge di Stabilità e poi si vada alle urne». Ha scelto il nome per il suo movimento? «Sarà “Cambiamo!”. Si declina bene con tutto quello che vogliamo fare: cambiare il centrodestra, l’Italia, le regole della politica, della partecipazione. È al plurale, perché nessuno viene prima, tutti collaborano. Il 2 settembre, da Matera, partirà il tour in 13 regioni. Poi faremo le primarie. I nostri alleati saranno la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia della Meloni. Sono i miei alleati di governo in Liguria. La divisione non è più tra destra e sinistra, ma tra chi difende i propri interessi nazionali e chi ha una visione più lassista. Io credo che si possa fare un riformismo liberale popolare di massa che difende gli interessi nazionali». Swg la stima tra il 4 e il 7%. «Si tratta di un sondaggio del 24 luglio, ben prima che “Cambiamo!” nascesse. Riteniamo, dai diversi e continui riscontri, di essere cresciuti rispetto a quella soglia minima». Le ha telefonato Matteo Salvini, dopo lo strappo con Berlusconi? «Salvini mi pare molto impegnato nella gazzarra con i 5 stelle. È a Milano Marittima, io in Liguria. Diciamo che siamo su due spiagge diverse. Ma parallele». Lei è anche giornalista: che ne pensa della moto d’acqua di Salvini? «Una debolezza da papà, non sono scandalizzato. Io non sarei salito sulla moto, ma io non faccio neanche gli sport più sedentari. Chi vuole criticare Salvini, però, credo possa trovare altri argomenti. Certo Matteo farebbe bene a non maltrattare i giornalisti. Per citare un Cavaliere d’antan, gli direi: si contenga». Ha più sentito Berlusconi? E Carfagna? «Non ci siamo più parlati, con Silvio. Lui si vede in Forza Italia come l’alfa e l’omega, io volevo costruire una piattaforma per il futuro. Con Mara ci sentiamo, ha fatto una scelta molto coraggiosa e anche lei condivide la necessità di un cambiamento. La considero un interlocutore». Ha già scelto il suo delfino? «Nessun delfino, in “Cambiamo!” siamo salmoni, siamo pesci di branco. E talvolta andiamo controcorrente».
Decreto sicurezza, governo alla conta sulla fiducia in Aula Di Maio: “Passerà” Almeno 10 senatori grillini contrari alle norme leghiste Salvini riconvoca i sindacati per spiegare la flat tax
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Non mancheranno però le sceneggiate agostane. Se i sì saranno molto meno della maggioranza, che oggi sulla carta sono 167, inclusi due senatori del gruppo misto, allora l’opposizione potrà gridare che il governo guidato da Giuseppe Conte non ha più i numeri per andare avanti. Lo stesso Matteo Salvini avrà modo di fare un po’ la faccia cattiva, evidenziare che Luigi Di Maio non è in grado di tenere saldo il suo gruppo parlamentare mentre il suo è granito.
Chi sa fare i conti spiega che non ci sarà alcun rischio che la fiducia al Senato sul decreto sicurezza bis non passi. Fonti della Lega che seguono la vicenda a Palazzo Madama sostengono che non sarà necessaria la maggioranza assoluta di 161 voti: basta invece un voto in più di chi voterà contro, cioè una maggioranza semplice. Certo, può succedere di tutto, che i grillini che votino contro siano più del previsto, che i senatori di Fratelli d’Italia e Forza Italia siano tutti presenti alla votazione alzando il quorum, cosa improbabile. Ma Luigi Di Maio ha dato ampie garanzie a Matteo Salvini che non ci saranno problemi e il ministro dell’Interno non ha motivo di essere troppo preoccupato. «Anche perché – avvertono i leghisti – se dovesse succedere che il provvedimento non passa, la maggior parte dei 5 Stelle, con nuove elezioni, non torneranno più in Parlamento e non verrebbero eletti nemmeno nei loro consigli comunali». Sicuramente mancheranno all’appello una decina di grillini. Tra questi Elena Fattori, Matteo Montero, Virginia La Mura, Lello Ciampolillo. Forse anche il voto di Alberto Airola, arrabbiato per il sì alla Tav da parte del premier Conte, verrà meno. Alcuni non si presenteranno in aula e non si faranno vedere nemmeno a Palazzo Madama. Non mancheranno però le sceneggiate agostane. Se i sì saranno molto meno della maggioranza, che oggi sulla carta sono 167, inclusi due senatori del gruppo misto, allora l’opposizione potrà gridare che il governo guidato da Giuseppe Conte non ha più i numeri per andare avanti. Lo stesso Matteo Salvini avrà modo di fare un po’ la faccia cattiva, evidenziare che Luigi Di Maio non è in grado di tenere saldo il suo gruppo parlamentare mentre il suo è granito. Ma soprattutto potrebbe essere l’occasione per il leader della Lega di ricordare ai naviganti 5 Stelle che a settembre si farà sul serio: si comincerà mettere mano alla flat tax. «Dovranno mettersi il cuore in pace – precisano nel Carroccio – perché i soldi dovranno essere trovati. E non sarà la presenza di un commissario europeo indicato dalla Lega a impedirlo». Martedì Salvini ha convocato di nuovo le parti sociali (assente la Cgil) e sarà l’occasione per ritornare sulla manovra economica e sostenere che al momento opportuno sul tavolo del governo verranno calate le carte della tassa piatta, anche sulle coperture. Di Maio dice che per il momento è una sorta di oggetto misterioso, innanzitutto per quanto riguarda la parte sulle coperture. Ma l’alleato ostenta sicurezza: ci vorranno circa 12 miliardi e verrà spiegato al ministro dell’Economia Giovanni Tria come e dove. C’è nel Carroccio una sicurezza ostentata, a dispetto dei numeri e in contrasto con le altre richieste avanzate dai 5 Stelle che chiedono il taglio del cuneo fiscale. Oltre alla necessità di trovare 23 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva. Ma Salvini per il momento non se ne cura e si gode le ultime ore di vacanza a Milano marittima dove ieri è tornato in consolle al Papeete beach, a torso nudo, in costume da bagno e infradito. La cosa paradossale sarebbe, tra l’altro, se alla fine sarà veramente il viceministro leghista Massimo Garavaglia ad andare a rappresentare l’Italia nella Commissione Ue, lo stesso leghista che insieme ad Armando Siri ha in mano il dossier flat tax. Forse a Bruxelles, sempre che ci vada, Garavaglia avrà modo di spiegarla direttamente al suo futuro collega che avrà il portafoglio dell’Economia.
Tav e sicurezza, falsa tensione Al Senato passerà tutto liscio Frondisti 5s fuori dall’Aula: così scende il quorum per la fiducia. E sull’Alta velocità Di Maio cerca solo visibilità
Giornale p.3
Nonostante i media alimentino la tensione annunciando un giorno sì e l’altro pure una imminente crisi di governo. Che non ci sarà neppure stavolta
Nell’ultima settimana prima delle vacanze (per chi ancora ci deve andare e non è già da tempo in panciolle sotto l’ombrellone, tra Costa Smeralda e Milano Marittima), la schizofrenica maggioranza grillo-leghista si esibirà nell’ennesima serie di salti (poco) mortali. Tavoli contrapposti con le parti sociali (uno a Palazzo Chigi, l’altro al Viminale) sulla manovra d’autunno, mozioni Tav e No Tav, fiducia sul decreto Sicurezza bis: una raffica di appuntamenti parlamentari cui i partiti azionisti del governo Conte si presentano talmente divisi, confusi e su posizioni diametralmente opposte che in qualsiasi paese normale sarebbero ineluttabilmente destinati a separarsi. Non in Italia, però, nonostante i media alimentino la tensione annunciando un giorno sì e l’altro pure una imminente crisi di governo. Che non ci sarà neppure stavolta, anche perché grillini e leghisti non vedono l’ora di andarsi a godere le meritate vacanze. Domani si inizia con il voto del secondo decreto-bandiera sulla Sicurezza, voluto da Salvini. Nel partito dei Cinque Stelle si è manifestata una fronda numericamente significativa: in diciassette non hanno votato la fiducia alla Camera, e il presidente Roberto Fico, impavido custode dell’anima sinistra dei Cinque Stelle, è rumorosamente uscito dall’aula (commessi in guanti bianchi al seguito) per segnalare il proprio turbamento. Ovviamente a costo zero: visti i numeri della maggioranza alla Camera, i diciassette eroici dissidenti più Fico erano matematicamente certi che la fiducia sarebbe passata, che il governo sarebbe sopravvissuto e con lui il loro scranno. Al Senato, notoriamente, il margine della maggioranza è più esiguo. Ma le probabilità di un «incidente» con relativa crisi sono le stesse: i cosiddetti «dissidenti» grillini, calcolati in cinque o sei, hanno già studiato il modo migliore per fare il loro show, ma senza correre il minimo rischio di restare tragicamente disoccupati. «Ci limiteremo a non partecipare al voto, a non entrare in Aula», confida il prode Matteo Mantero, fiero oppositore dell’alleanza con i leghisti. Oppositore sì, ma a patto che l’alleanza non salti. «Ma veramente pensavate che qualcuno di noi potesse votare un provvedimento su cui il governo pone la fiducia, col rischio di mandare sotto la maggioranza?», chiede candida Elisa Pirro, atterrita dall’idea di dover tornare a fare la No Tav in Val Susa. La fiducia non richiede alcun quorum, dunque l’uscita dall’aula di qualche grillino cambierà poco o niente. E peraltro tra Svp, Fratelli d’Italia, gruppo Misto ci sono senatori dispostissimi ad assentarsi nell’improbabile caso di rischio per la maggioranza. Dunque il decreto Sicurezza passerà. Martedì e mercoledì, poi, ci sarà l’altro show sulla Tav. Necessario ai grillini per gettare un po’ di fumo negli occhi ai propri elettori, quando è diventato evidente che le contorsioni per prendere tempo e non ufficializzare il via libera del governo all’opera non erano più ammissibili. Si tratta solo di mozioni parlamentari, che quindi non comportano rischi per il governo. Lega e Cinque Stelle si divideranno platealmente in aula, con i primi che voteranno contro il testo No Tav dei secondi e che probabilmente voteranno a favore di quelle pro-Tav delle opposizioni. I grillini faranno una gran sceneggiata per ricordare che a loro la Tav fa orrore ma che sono costretti a rassegnarsi, Toninelli incluso, e poi chiusa la pratica, tutti al mare.
Salvini avverte ancora il M5S: dateci una mano o faremo da soli «Zingaraccia?Ribadisco».Il comizio a Cerviamentre nel partito sale la spinta perle elezioni
Corriere a pagina 7
Senatori, fermate il Decreto sicurezza
Luigi Ciotti su Repubblica a pagina 35
C aro direttore, è una normativa perfino peggiore della precedente, questo “decreto sicurezza bis” in procinto di passare al vaglio del Senato. Finalità e scopi restano però gli stessi: restringere sempre più l’area dei diritti e dunque della civiltà. Il metodo è ormai evidente: estendere il già enorme potere del ministero dell’Interno in materia d’immigrazione, estensione che non si può più definire solo interferenza, evidenziandosi ormai come vera e propria invasione di campo, appropriazione indebita di ruoli e competenze altrui. Ennesimo segno di un’ambizione sfrenata e totalitaria, indifferente alla divisione dei poteri su cui si basa una vera democrazia. Tutto ciò, inoltre, nel più totale disprezzo di trattati internazionali che hanno ratificato per il nostro Paese l’obbligo di prestare soccorso a naufraghi e persone in difficoltà. Figli, quei trattati, di capisaldi della civiltà occidentale, carte che hanno inaugurato la stagione della pace, della democrazia e dei diritti come la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e l’articolo 10 della nostra Costituzione sul diritto di asilo da garantire allo straniero. Carte in cui ho ritrovato l’anima e lo spirito del Vangelo, la sua etica esigente e intransigente: accogliere gli oppressi e i discriminati, denunciare le ingiustizie, costruire una società più umana già a partire da questo mondo. Nessuno nega la difficoltà e la necessità di governare il fenomeno migratorio in tutti i suoi risvolti e implicazioni, ma il governo deve essere ispirato dall’intelligenza, dalla lungimiranza, dalla conoscenza della Storia e dal rispetto di quei principi che ci rendono degni della qualifica di “esseri umani”. Ebbene, questo non è governo, è gestione cinica del potere tramite mezzi di cui la storia del ’900 ci ha fatto conoscere gli esiti tragici: la propaganda ossessiva, la sistematica manipolazione della realtà, la rappresentazione della vittima e del debole come nemico, invasore, capro espiatorio. Mi auguro che i senatori sentano la responsabilità non solo politica ma anche etica di questo voto. Bocciare questo decreto significa riaprire nel nostro Paese un varco alla speranza, ricongiungere la nostra Italia alla parte migliore della sua Storia: quella costruita da tante persone oneste, ospitali e solidali, ribelli alle parole e agli atti dei demagoghi e dei prepotenti. Luigi Ciotti è il fondatore e presidente dell’associazione Libera, impegnata nella lotta contro la criminalità organizzata
1 ribelli cinque stelle
I senatoriribelli dei 5 Stelle: potremmo dire no alla fiducia Tormenti peril voto sulla sicurezza. Fattori ha già deciso, gli altri ciriflettono
Corriere a pagina 8
Ira di Di Battista contro la Lega Ma poi «salva» l’esecutivo: non si può andare ora alle urne «Nonostante i tradimenti, il prezzo sarebbe troppo alto»
Corriere pagina 8
2 commissario
Impasse italiana sul commissario Ue Lo sconcerto di von der Leyen La Lega non si fida: bocceranno il nome
Marco Cremonesi e Monica Gurzoni sul Corriere a pagina 6
La colazione di lavoro con la presidente della Commissione europea ha lasciatoaGiuseppe Conte l’impressione che, al primo faccia a faccia, sia scattata la scintilla di un «ottimo feeling personale». Ma la soddisfazione di Palazzo Chigi per un incontro definito «molto positivo», poco si intona con la delusione che Ursula von der Leyen ha messo in valigia prima di fare rientro a Bruxelles. Al vertice della presidenza Ue c’è preoccupazione e sconcerto per l’impasse dell’Italia sulla scelta del commissario, che spetta al nostro Paese nel nuovo esecutivo comunitario. La ex ministra tedesca sperava in un nome secco, mentre il professore pugliese, in imbarazzo e con le mani legate, si è limitato a tratteggiare il profilo di «una figura autorevole e fortemente politica». Un po’ poco, per la numero uno dell’Unione Europea, che ha fretta di comporre il delicatissimo puzzle del governo e che ha tutto l’interesse di trovare una solida intesa con un grande Paese fondatore. Se Conte si è preso due settimane ditempo, è perché l’accordoèlontano. Matteo Salvini, che a suon di voti si è conquistatoil diritto di indicare il candidato, non ha deciso quale strategia adottare e procede su un doppio binario. Da una parte cerca la personalità giusta per «pesare» in Europa, dall’altra medita di sfidareivertici Ue con proposte irricevibili. Un atteggiamento che impedisceaConte di corrispondere, come vorrebbe, alle aspettative di von der Leyden. Per scongiurare un clamoroso flop, che relegherebbe l’Italia in un ruolo di secondo piano per cinque anni, il premier haprovatoamettere Salvini alle corde. Gli ha fatto sapere che sarebbe stato «molto felice» di indicare un leghista del calibro di Giancarlo Giorgetti. E quando il sottosegretario, fiutata l’ariaccia che tira a Bruxelles verso il Carroccio, si è tirato fuori dal sudoku, Conte ha intensificato il pressing sul vicepremier. «Se perdiamo altro tempo e non indichiamo un nome forte—lo ha ammonito il capo del governo — rischiamodiperdereil commissario alla Concorrenza». Il fattoèche Salvini proprio non condivide l’ottimismo di Conteeha interesse a portare avanti il gioco del cerino con Palazzo Chigi. Se il premier mostra di credereavon der Leyen, cheha promesso all’Italia un importante portafoglio economicoegarantito che non farà «sgambetti», il segretario della Lega non si fida. Il ministro Lorenzo Fontana si è convinto che «al massimo Roma potrà ottenere l’Industria». E il leader si mostra altrettanto scettico: «A Bruxelles parlano di cordone sanitario contro di noi, figuriamoci se ci danno la Concorrenza!». Questo ostentato pessimismo sembra preludere alla «mossa del kamikaze», che i leghisti spiegano con nome e cognome: «Proponiamo Centinaio e ce lo facciamo bocciare». A microfoni e telecamere accesi, Salvini spiega che non svelerà la scelta definitiva finché non saprà quale commissario verrà individuato per l’Italia. Ma la prassi consolidata vuole che le competenze dell’esecutivo europeo siano disegnate attorno a chi dovrà ricoprire il ruolo. Per dirla con un parlamentare del M5S, «Salvini gioca all’uovo e alla gallina». Il segretario leghista scalpita e pregusta la sfida. Ma poiché non si è ancora convinto che il «tanto peggio, tanto meglio» sia la giusta strategia, aggiunge petali alla «rosa» che, obtorto collo, ha suggerito a Conte. OltreaGaravaglia, Bongiorno e Lorenzo Fontana, gira il curriculum di Silvia Covolo, componente della commissione Finanze della Camera. Intanto l’Europa aspetta. E spera nel ripescaggio di un leghista di rango come Giorgetti, o di una figura più neutrale come Enzo Moavero Milanesi, rilanciato dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung. © RIPRODUZIONE RISERVA
La nuova presidente ha rassicurato Conte sul ruolo di peso dell’Italia nella Commissione Ma al vicepremier leghista interessa continuare a sfidare Bruxelles: in pole torna Centinaio “Niente sgambetti a Roma” L’impegno di Von der Leyen
Il piano di via Bellerio per ottener e il portafoglio all’Agricoltura
La strategia di Conte per integrare l’Italia e anche i leghisti nella governance Ue
Stampa p.5
LORENZO FONTANA Il nuovo ministro degli Affari europei: “Noi per il dialogo, ma l’Ue lo vuole? E sulla partita delle nomine: “Preferirei avessimo la Concorrenza per tassare i colossi del Web” “Non devono isolare il Carroccio Se non cambia, l’Europa morirà”
Bene l’apertura sui migranti: ma gli altri Paesi accolgano pure quelli economici
Conte tratta a nome dell’Italia però deve farlo tenendo conto del ruolo dei leghisti
Stampa p.5
Ue, Conte insiste sulla Concorrenza: ipotesi Garavaglia Gian Marco Centinaio Ursula von der Leyen a palazzo Chigi (foto MISTRULLI) `Pressing del premier perché Salvini dia un nome “alto” per la Commissione
La Lega però fa girare quello di Centinaio in chiave anti-Bruxelles
Messaggero p.8
Commissione Ue l’Italia acceleri per evitare i saldi di fine stagione
Romano Prodi sul Mressaggero in prima
Speravo proprio che il lungo e cordiale colloquio fra Conte e Ursula von der Leyen, dopo aver toccato i temi più generali riguardanti i futuri rapporti fra l’Italia e l’Unione Europea, avrebbe affrontato in modo concreto la proposta di nomina del Commissario italiano. Lo speravo prima di tutto perché la mia passata esperienza mi ha reso evidente che, nel processo di nomina dei commissari europei, chi tardi arriva male alloggia. Quando le caselle sono infatti prenotate, anche solo da accordi informali, diventa molto difficile inserirsi in un quadro nel quale il complesso intreccio degli interessi nazionali ha già trovato concrete ipotesi di intesa. Lo speravo anche perché pensavo che si sarebbe dovuto arrivare alla concordata proposta di un nome e di un ruolo che avrebbero più facilmente potuto ottenere la necessaria approvazione del Parlamento Europeo. Obiettivo non semplice dopo la decisione italiana che la designazione del candidato spetti alla Lega, cioè ad un partito sovranista che si oppone alla maggioranza in carica e che ha addirittura votato contro la candidatura della stessa von der Leyen. Sembra che sia invece arrivata a Conte una serie di nomi numerosa e non specificamente finalizzata al ruolo a cui l’Italia sembra ambire. L’unico obiettivo che si sente ripetere è quello di aspirare ad un importante dicastero economico.
Data l’improponibilità di ottenere il portafoglio degli Affari Economici e Monetari, che avrebbe il compito di giudicare sulla sostenibilità del nostro debito, l’attenzione sembra concentrarsi verso il commissariato alla Concorrenza. La sua competenza consiste soprattutto nel controllare i cartelli, gli abusi di posizioni dominanti, le combinazioni antitrust e gli aiuti di Stato. Riguarda cioè soprattutto i comportamenti collusivi tra le grandi imprese, riguardo ai quali l’interesse italiano, dato che non abbiamo più grandi imprese, è oggi divenuto purtroppo marginale. Fa solo eccezione il caso degli aiutidi Stato,che tocca direttamente l’Alitaliamachemi sembraun capitolo giàchiuso. Resta inoltre da sottolineareche il portafogliodellaConcorrenza è divenuto progressivamentemenopolitico e più tecnocratico.Esso è inquadrato da regole semprepiù strette, tanto che è stato addirittura propostodicancellarlo, per affidarne i compiti adun’autorità indipendente. InoltreMarghrete Vestager,candidata incarica,ha forti probabilitàdi essereconfermata, pur essendo statacontestatada Francia eGermania per essersiopposta alla fusione delsettore ferroviariodi Siemens eAlsthom.Tuttociò rende estremamente difficile la vittoria diuna battaglia fondamentalmente inutile. Se siha come guida ilperseguimento degli interessi italiani (che purenon dovrebbe essere prioritarionell’ambito europeomache è così preminenteper laLega)mi sembra più appropriatoriservare un’attenzione particolare ad altri settoricome l’agricoltura e l’industria. Sull’industrianon ènecessario spendere molteparole perché, pur avendo perduta la nostrapresenzanelsettore delle grandi aziende,siamo pure il secondoPaese manifatturierodiun’Europachehabisogno di lanciareuna nuova imprenditorialità e rafforzare lacrescita e l’internazionalizzazione dellepiccole emedie imprese. Si tratta diun portafogliochenonha ancora ledimensioni e il ruoloche dovrebbe ricopriremache sta attirandouna forte attenzione da parte diun crescentenumero diPaesi. Gigantesco è invece ilbilancio dell’Agricoltura,che da un lato deve ancora gestire la difesa diun settore sempre più aperto allaconcorrenza internazionalemache, proprio inconseguenza di questo,ha l’obbligo dirafforzare sempre di più le specializzazioni europee,nelle quali l’Italia è tra i leader indiscussi.Alla difesa della qualità e dei prodotti tipici si aggiunge inoltre l’obbligo di rafforzare la presenzanell’organizzazionedei mercati e degli aiuti diretti agli agricoltori: un portafogliopiùcorposo e importante di quanto lacomune opinionenon pensi. Non voglio a questopunto fornire la lista esaurientedi quali siano gli interessi italianinel campodelcommercio, dell’energia odella digitalizzazione, anche perché dipendono dalla capacitàdel futuroCommissariodi rafforzarne l’importanzaconconcrete strategie,nutrite da adeguati aumenti delbilancio deldicastero.E, datoche il nostro governoha sempre insistito suun dicastero economico, trascuro del tuttodi sottolinearequanto sarebbe positivo avere competenza sui grandi problemidelle migrazioni.Mi limito, alla fine diquesta troppo rapida analisi, a ricordare quanto potrebbe essere economicamente epoliticamente rilevante assumere la responsabilitàdello Sviluppo e dellaCooperazione economica. Questoportafoglio (anche per l’impulso del direttore italiano StefanoManservisi) sta raggiungendo ilbilanciodi 10miliardi all’anno ecostituisceun pontecon l’Africa e il Mediterraneodi importanzaunica e,non ultimo,unaconcreta possibilitàdi presenza dellenostre imprese. Di fronte a questo quadrocosìcomplesso non abbiamo finora avutonessuna discussione nell’ambitodel governo e, ovviamente,nessun dibattitoparlamentare.Diconseguenza il PresidentedelConsiglio si è dovuto limitare a ricevere indefinite istruzionibalnearida parte dellaLega enonha potutochiudere alcun discorsocon laPresidentedellaCommissione. Nel frattempo tutti imigliori alloggi stanno per essereoccupati.
Quando in Europa contavamo
Mario Monti su Repubblica a pagina 34
C aro direttore, su Repubblica di ieri Stefano Folli opportunamente ricorda un caso in cui “i commissari italiani nell’Unione europea furono scelti in un quadro almeno parzialmente condiviso con l’opposizione”. Era il 1994, primo governo Berlusconi, formazione della Commissione presieduta da Jacques Santer. Allora, ognuno degli Stati membri maggiori aveva diritto a designare due commissari. Il presidente del Consiglio Berlusconi designò per tempo il sottoscritto e, dopo aver esitato a lungo tra Giorgio Napolitano ed Emma Bonino, proprio allo scadere del termine optò per la seconda. Nella linea di argomentazione di Stefano Folli, vorrei aggiungere che per la verità quella del 1994 non fu l’ultima volta in cui si ebbe una condivisione tra governo e opposizione. Nel 1999 il Consiglio europeo nominò Romano Prodi presidente della Commissione. Presidente del Consiglio italiano era Massimo D’Alema. Il Trattato era stato nel frattempo modificato. Pur mantenendo temporaneamente i due commissari per i maggiori Stati (oggi, come è noto, vi è un commissario per Stato, grande o piccolo che sia), si introduceva la regola, in vigore anche oggi, che la scelta di ogni commissario sia fatta di comune accordo tra il presidente designato della Commissione e il governo del relativo Stato membro. Un posto dei due riservati all’Italia veniva naturalmente attribuito a Prodi. Per l’altro, entrambi gli italiani uscenti dalla Commissione Santer, Bonino e il sottoscritto, erano disponibili e interessati alla conferma. Alla fine, D’Alema e Prodi decisero di designare il sottoscritto. In seguito il presidente della Commissione Prodi, nella sua autonomia e – immagino – tenuto anche conto dell’esperienza fatta per cinque anni come commissario al mercato unico, servizi finanziari e fiscalità, con grande atto di fiducia mi nominò alla Concorrenza. Rispetto al punto sollevato da Stefano Folli, la condivisione governo-opposizione sulla nomina a commissario, io ne beneficiai due volte. Prima nel 1994, quando venni nominato da Berlusconi ma anche l’opposizione di centro-sinistra manifestò apprezzamento per la nomina. E poi nel 1999, quando fui nominato da D’Alema e Prodi ma con analogo apprezzamento espresso dall’opposizione di centro-destra. Per la credibilità del mio lavoro nel “governo” dell’Europa, tanto più in anni di bipolarismo assai conflittuale in Italia, quelle designazioni sostanzialmente bipartisan rappresentavano un punto di forza per la mia legittimazione e per il modo in cui venivo percepito in Europa e ancor più in America. Quando si è trattato di porre fine alle garanzie statali alle banche tedesche, di eliminare i privilegi di Électricité de France distorsivi della concorrenza o di vietare la fusione tra due multinazionali americane già autorizzata a Washington, le parti “lese” potevano certo criticare le mie decisioni, ma non si sono mai permesse di dire, o di far scrivere, che esse erano prese in modo incompetente da “un uomo di Berlusconi” o da “un uomo vicino al former Communist Party”, come spesso dicono negli Stati Uniti un po’ sbrigativamente. Certo, in quegli anni la battaglia politica in Italia era senza quartiere. Ma Berlusconi, Prodi, D’Alema vedevano un interesse nazionale nell’affermare l’Italia a livello europeo. Se invece un leader politico considera l’insulto all’Europa come facile strumento di consenso, auspica in cuor suo sconfitte del proprio Paese in Europa come prezioso combustibile di rivolte da cavalcare, provoca così al Paese una sconfitta dopo l’altra e un gelido isolamento, quel leader vedrà anche nella nomina del commissario un’occasione per perseguire il suo inqualificabile disegno.
10 salvini e di maio siamo stufi
CRISI PERMANENTE Salvini e Di Maio: siamo stufi MA NOI PIU DI LORO I due litigano sempre e gli italiani sono senza governo
Giornale in prima
Salvini e Di Maio sono una coppia in crisi che nessuna terapia matrimoniale può curare.
Non sono Sandra e Raimondo, sono gli azionisti di maggioranza del governo. Si punzecchiano, s’insultano, ma poi – attratti dal magnetismo che le poltrone esercitano sulle loro terga – si ritrovano a Palazzo. A stilare riforme abborracciate e leggi zoppe, che non soddisfano né gli uni né gli altri. Perché l’armonia iniziale è finita, la fiducia è scomparsa, i pesi reciproci sono cambiati e la coppia non sta più insieme neppure con la colla. Loro sono stufi e noi siamo arcistufi. Ma li prendiamo comunque in parola e chiediamo aiuto al dizionario. Stufo, secondo la Treccani, significa: «Stanco, annoiato, senza più voglia di continuare o forza di resistere». A volte un buon vocabolario dirime più problemi che un trattato di scienza politica. Ne prendano atto, basta accanimento terapeutico, smettano di resistere e riportino il Paese alle elezioni. Perché quelli veramente stufi sono gli italiani.
Stufi. Sono stufi. Di Maio e Salvini, ieri, in due interviste rispettivamente al Corriere e alla Stampa, hanno usato lo stesso termine. «Sono stufo di litigare», ha confessato, esausto, il vicepremier grillino al cronista. Ma, nel frattempo, anche il suo omologo leghista dava sfogo alla sua frustrazione: «Beghe, polemiche e attacchi da parte di tutti, Toninelli, Bonafede, Di Battista, Di Maio, la Lezzi. Io sono stufo, e vabbè, ma inizia a stufarsi anche la gente». Fuochino. Salvini è già andato più vicino al problema rispetto al suo collega. Se sono stufi loro, spiaggiati a Milano Marittima o a sbocciare bottiglie in Costa Smeralda, figuriamoci gli italiani. Il governo del cambiamento è diventato il governo degli stufi. E noi siamo stufi di vederli stufi. Di vederli bighellonare e poi azzuffarsi in continuazione. Di assistere a questa patetica commedia. Dovevano ribaltare tutto, aprire il Parlamento come una scatola di tonno e invece sono lì, a incartarsi sui cavilli e a farsi guerre sotterranee, che in confronto la Prima Repubblica era un convento di orsoline. Salvini e Di Maio sono una coppia in crisi che nessuna terapia matrimoniale può curare. Il problema è che dal loro sbilenco matrimonio dipendono le sorti del nostro malandato Paese, non l’economia domestica di una famiglia. Sembra una questione da tinello, ma in realtà è una questione di Stato. Non sono Sandra e Raimondo, sono gli azionisti di maggioranza del governo. E mentre il Pil scende, l’industria arranca, le tasse aumentano e gli sbarchi continuano, loro cosa fanno? Litigano. Litigano sulle pagine dei giornali, sui loro profili Facebook, su Twitter, su Instagram, in televisione, persino in spiaggia. Come storditi da un colpo di sole agostano dicono tutto e il contrario di tutto. Sì Tav, No Tav, Ni Tav. E poi si dividono sulla sicurezza, sull’autonomia, sui trasporti, sui mancati rimpatri e sulla flat tax. Praticamente su ogni cosa. Si punzecchiano, s’insultano, ma poi – attratti dal magnetismo (…)
(…) che le poltrone esercitano sulle loro terga – si ritrovano a Palazzo. A stilare riforme abborracciate e leggi zoppe, che non soddisfano né gli uni né gli altri. Perché l’armonia iniziale è finita, la fiducia è scomparsa, i pesi reciproci sono cambiati e la coppia non sta più insieme neppure con la colla. Loro sono stufi e noi siamo arcistufi. Ma li prendiamo comunque in parola e chiediamo aiuto al dizionario. Stufo, secondo la Treccani, significa: «Stanco, annoiato, senza più voglia di continuare o forza di resistere». A volte un buon vocabolario dirime più problemi che un trattato di scienza politica. Ne prendano atto, basta accanimento terapeutico, smettano di resistere e riportino il Paese alle elezioni. Perché quelli veramente stufi sono gli italiani. Francesco Maria Del Vigo
10 crisi d’agosto
Ma la crisi d’agosto è archiviata lo scontro si sposta sulla manovra Giuseppe Conte con Luigi Di Maio (foto LAPRESSE) `Salvini non concede nulla al Movimento per adesso però non pensa ad una rottura `Dopo l’ok al taglio dei parlamentari il voto si allontanerà ulteriormente
Messaggero p.5
ROMA Ultima settimana di wrestling, a Camere aperte, tra Di Maio e Salvini. Ma non c’è da attendersi tregue ferragostane perché in riva al mare o sopra una montagna, meglio se esposti al sole, l’imminenza di una crisi di governo («roba di ore»), si annuncia o si denuncia più facilmente. Il problema, per Salvini, è come passare dalle parole ai fatti e per Di Maio sapere come si fa ad uscire dall’incubo di una relazione senza futuro. Forse. LA SCENA Martedì Salvini otterrà il via libera al Senato al secondo decreto sicurezza. Poichè la stagione del pallottoliere è tramontata, così come quella di Turigliatto e Pallaro, a palazzo Madama non ci si attende sorprese se non quelle offerte dal Pd che – dopo aver mancato l’appuntamento con la mozione di sfiducia – è riuscito a spaccarsi su qual è la petizione più bella e che fa più paura a Salvini. Ovviamente dalla spiaggia di Milano Marittima il ministro dell’Interno si gusta la scena offerta dal principale partito di opposizione e da un movimento alleato che tira un sospiro di sollievo dopo aver temuto, sino a qualche settimana fa, che Matteo avrebbe mandato in aria a tutti le vacanze. Invece, colui che per mesi è stato additato come il sicuro responsabile della fine estiva della legislatura e che avrebbe costretto le Camere a rimanere aperte stravolgendo i palinsesti, ha battuto tutti ed è in spiaggia da giorni. Lui a torso nudo, mentre Conte in giacca, cravatta e fazzoletto nel taschino, tiene aperto il portone di palazzo Chigi e cerca di offrire ai suoi ospiti – specie se stranieri – un’immagine meno devastata possibile del governo che presiede. Abituati per anni al rassicurante e solitario messaggio di Ferragosto del responsabile del Viminale, un ministro dell’Interno che mette l’infradito prima di tutti e balla con le cubiste, è una novità. Ma poichè Salvini è anche – forse soprattutto – leader della Lega, prima di andare al mare si è curato di bucare i canotti dell’alleato. E così, dopo il Tap, l’Ilva e la Tav, l’ultimo sfregio è di qualche giorno fa e ha sgonfiato la riforma della giustizia che molto difficilmente, potrà essere licenziata nell’ultimo consiglio dei ministri di giovedì prossimo. Il tenace Guardasigilli, Alfonso Bonafede, tornerà certamente alla carica a settembre, ma alla ripresa gli appuntamenti in agenda sono tanti. A cominciare dalla legge di Bilancio, passando per la riforma costituzionale che “sforbicia” il numero dei parlamentari senza migliorare il sistema. I due appuntamenti si intrecciano con quelli in sospeso. Alcuni temi della manovra – aumento dell’iva, flat tax, salario minimo – sono stati già oggetto di scontro tra i due pariti di maggioranza e torneranno in primo piano. Il taglio lineare dei parlamentari, arrivato ormai all’ultimo voto, invece non appassiona più, anche se per il M5S rappresenta la polizza per spostare in là le elezioni anticipate. Tra possibile referendum e sistemazione dei collegi ex legge 51, si rischia – in caso di crisi di governo e fine anticipata della legislatura – di poter votare non prima di giugno. Una iattura per molti colonnelli della Lega che vorrebbero far saltare il banco, ma un’opportunità per il ministro dell’Interno, inventore di una formula che rappresenta una vera novità per la scienza politica: governare, in una stagione economicamente molto difficile, e aumentare i consensi a danno dell’alleato con il quale si vota in Parlamento. Poichè la formula continua a funzionare da un anno e mezzo, il “vincolo esterno”, rappresentato dalla riforma costituzionale, fornisce a Salvini un argomento non da poco per mostrarsi con le mani legate ma voglioso di andare a palazzo Chigi. Sino a quando renderà il “gioco” di governare guadagnando consensi, come un qualsiasi partito d’opposizione, difficilmente Salvini staccherà la spina all’attuale esecutivo. Sinora la formula ha funzionato e non è detto che non possa superare anche lo scoglio della manovra di bilancio. Marco Conti
«Precaria tranquillità» al Colle: pochi spazi per tornare al voto Se a settembre dovesse passare anche il taglio dei parlamentari i tempi per le urne si allungherebbero
Giornale p.3
Se infatti l’esecutivo sopravviverà domani al voto di fiducia al Senato sul decreto sicurezza bis, se mercoledì, sempre a Palazzo Madama, scamperà alla mozione grillina anti Tav, allora il gabinetto Conte sarà «obbligato» a durare a lungo. Almeno fino a metà primavera. L’otto settembre la Camera dovrebbe varare il taglio dei parlamentari e in questo caso, tra l’attesa per eventuali richieste di referendum e l’applicazione della riforma, la finestra elettorale si richiuderà per diversi mesi. C’è di più. Se nel frattempo Salvini e Di Maio romperanno davvero, il Quirinale non scioglierà ma dovrà comunque mettere in piedi un altro governo. «Qualunque cosa accada», il presidente non può far «aggirare una volontà espressa» dalle Camere.
Mattarella non sta brigando per allungare il brodo e non ha avuto contatti con le forze politiche su questo argomento. Si tratta insomma, di una constatazione oggettiva della situazione politica, di una presa d’atto logica: se ci sarà il taglio di deputati e senatori – una riduzione per altro sostanziosa, da 945 a 600 – non si potrà far finta che non sia successo nulla. L’opposizione potrebbe chiedere lo svolgimento di un referendum confermativo: bastano un quinto dei parlamentari di una Camera, o mezzo milione di firme, o cinque consigli regionali. La Costituzione prevede tre mesi di tempo per domandarlo e altri 90 giorni per fissare la data della consultazione. Prima di un annetto sarebbe impossibile rimandare il Paese alle urne. Senza contare che potrebbero essere i Cinque stelle a volere il referendum. «Incasseremmo il risultato politico e allungheremmo la durata della legislatura». Un doppio vantaggio. E se nel frattempo ci sarà una crisi, il capo dello Stato dovrà cercare un’altra maggioranza. Matteo Salvini ha quindi due strade davanti. La prima è fare il duro e andare allo scontro su sicurezza e Tav. La seconda, a Montecitorio considerata più probabile, è fare buon viso e aspettare l’8 settembre e la riforma, mantenendo però una forte pressione mediatico-politica sui 5s.
Roma Un salto a Rimini, per il concerto di Riccardo Muti, poi le ultime udienze romane e tra qualche giorno anche il capo dello Stato farà i bagagli per le vacanze, destinazione Maddalena. Sergio Mattarella vive con una «tranquillità precaria» l’attesa dell’ennesima settimana decisiva del governo, il milionesimo scontro da dentro o fuori della maggioranza gialloverde. Se infatti l’esecutivo sopravviverà domani al voto di fiducia al Senato sul decreto sicurezza bis, se mercoledì, sempre a Palazzo Madama, scamperà alla mozione grillina anti Tav, allora il gabinetto Conte sarà «obbligato» a durare a lungo. Almeno fino a metà primavera. L’otto settembre la Camera dovrebbe varare il taglio dei parlamentari e in questo caso, tra l’attesa per eventuali richieste di referendum e l’applicazione della riforma, la finestra elettorale si richiuderà per diversi mesi. C’è di più. Se nel frattempo Salvini e Di Maio romperanno davvero, il Quirinale non scioglierà ma dovrà comunque mettere in piedi un altro governo. «Qualunque cosa accada», il presidente non può far «aggirare una volontà espressa» dalle Camere. Niente zampine e nemmeno Zampetti, fanno sapere dal Colle. Mattarella non sta brigando per allungare il brodo e non ha avuto contatti con le forze politiche su questo argomento. Si tratta insomma, di una constatazione oggettiva della situazione politica, di una presa d’atto logica: se ci sarà il taglio di deputati e senatori – una riduzione per altro sostanziosa, da 945 a 600 – non si potrà far finta che non sia successo nulla. L’opposizione potrebbe chiedere lo svolgimento di un referendum confermativo: bastano un quinto dei parlamentari di una Camera, o mezzo milione di firme, o cinque consigli regionali. La Costituzione prevede tre mesi di tempo per domandarlo e altri 90 giorni per fissare la data della consultazione. Prima di un annetto sarebbe impossibile rimandare il Paese alle urne. Senza contare che potrebbero essere i Cinque stelle a volere il referendum. «Incasseremmo il risultato politico e allungheremmo la durata della legislatura». Un doppio vantaggio. E se nel frattempo ci sarà una crisi, il capo dello Stato dovrà cercare un’altra maggioranza. Matteo Salvini ha quindi due strade davanti. La prima è fare il duro e andare allo scontro su sicurezza e Tav. La seconda, a Montecitorio considerata più probabile, è fare buon viso e aspettare l’8 settembre e la riforma, mantenendo però una forte pressione mediatico-politica sui 5s. Magari il leader del Carroccio si accontenterà di un rimpasto autunnale per far fuori ministri scomodi e dare una maggiore impronta leghista alla squadra. Di Maio ha fatto capire di essere disposto a sacrificare Danilo Toninelli. Pure i grillini hanno però i loro problemi interni. Dieci senatori Cinque stelle sono orientati a non votare la fiducia sul decreto sicurezza bis. I numeri a Palazzo Madama ballano parecchio, anche se potrebbe arrivare in soccorso Fdi. Il gruppo della Meloni potrebbe uscire dall’aula prima del conteggio, abbassando così il quorum. Ma la questione si ripresenterà due giorni dopo a parti invertite. La Lega si troverà a votare con Pd e Forza Italia contro la mozione degli alleati: quale miccia migliore per aprire la crisi e evitare una Finanziaria di molti tagli e poche spese?
3 toti
Toti in soccorso a Salvini Ma i suoi ora tentennano
Tra fiducia al governo gialloverde e Torino-Lione, numeri sul filo al Senato. L’incognita dei dissidenti 5S e degli ex forzisti
Forza Italia pensa di uscire dall’Aula per non far contare gli scissionisti
Fatto p.2
4 sarzanini
Salvini dj, inno e cubiste la festa d’addio al Papeete
In consolle a petto nudo mentre a Milano Marittima sfila tutto il nuovo potere leghista (Giorgetti escluso) Poi comizio a Cervia e ultimatum al M5S
Repubblica pagina 7
Adesso diventa «dj» Matteo Va in consolle tra le cubiste (con Mameli disottofondo) In spiaggia incontra Sacchi, «gaffe» sul Milan dell’89
Corriere pagina 7
Ma ilViminale non è in spiaggia
Fiorenza Sarzanini sul Corrire in prima e a pagina 7
Un ministro dell’Interno che a torso nudo fa il dj sulla spiaggia di Milano Marittima, mentre cubiste coperte solo da un ridotto costume maculato ballano alritmo dell’inno di Mameli, è uno spettacolo che non si era mai visto.
Se Matteo Salvini fosse soltanto il leader della Lega potrebbe decidere come e dove organizzare le feste del suo partito. E invece lui è anche e soprattutto il titolare del Viminale, dunque l’esponente di governo che ricopre un ruolo strategico. Nell’ultima settimana abbiamo visto poliziotti costretti a scarrozzare il giovane figlio del ministro sulla moto d’acqua, cercando di vietare i filmati. Abbiamo assistito alla conferenza stampa sulla riforma della giustizia convocata tra gli ombrelloni e terminata con insulti al cronista. Sembrava già troppo. E invece ieri si è andati ben oltre. Il momento di tornare indietroèarrivato. È urgenteeopportuno che il ministro rientri al Viminale. Gli italiani non sono soltanto quei bagnanti presenti alle sue performance vacanziere. Ci sono problemi da affrontare, emergenze da coordinare. C’è soprattutto un Paese da governare. Salvini torni a Roma e poi opti per un periodo di ferie tra le valli bergamasche. La succursale del Palazzo non può essere il Papeete Beach. Fiorenza Sarzanini © RIPRODUZIONE RISERVATA
La repubblica del Papeete
L’affermarsi di un totalitarismo pop con l’astuta necessità di distrarre la gente dai tanti guai italiani buttandola in caciara
Filippo Ceccarelli su Repubblica a pagina 34
C he si fa? Si ride o si piange, ci si vergogna, si fa finta di niente, ci si stracciano le vesti o magari, tanto per cambiare, ci si indigna dinanzi alla visione di Salvini, Re e Sacerdote del Papeete Beach, che a torso nudo, nello spazio sacro del dj, officia al rito del divertimento con musiche, cubiste e una folla che si agita in costume da bagno? Sono due video d’intensa euforia meridiana. Nel primo, collana al collo e bicchierone con cannuccia in mano, il titolare del Viminale appare lieto e disinvolto dietro ballerine in costumino leopardato e tatuaggi che si muovono flessuose al ritmo frastornante di “Settimana bianca”: “Na-na-na-na-na-na-na/ ostriche e champagne, viene giù una valanga,/ striscio lo ski pass, settimana bianca,/ faccio il pieno al Suv, scende il mio conto in banca…”. Sembra un po’ una scena del primo Loro di Sorrentino, ma è una citazione imprecisa perché lì, dalle parti di Berlusconi, quello stato di effervescenza e quel trionfo di carne avveniva in una villa privata, su cui era stato addirittura posto il Segreto di Stato, mentre qui è tutto più aperto e “democratico” – per quanto l’aggettivo si sia logorato e perso in una dimensione di misterioso sconforto. Nel secondo video Salvini sembra all’inizio un po’ meno a suo agio perché l’animatore, una specie di paggio con occhiali da sole e calzoncini dorati, le graziose cubiste maculate e la moltitudine di bagnanti continuano a danzare al suono dell’inno di Mameli, i più scatenati anche con la mano sul cuore, come hanno visto fare in tv. Ma poi la cosa gli appare normale e recupera la consueta disinvoltura. D’altra parte, solo a sentire il “parapà” iniziale, il suo maestro Bossi si voltava di spalle e al verso “ché schiava di Roma” si prodigava in gestacci, corna, dito medio, ombrello – riservando semmai la mano sul cuore al “Va pensiero”. Più o meno negli stessi anni Berlusconi, dal canto suo, non poteva sentire “siam pronti alla morte” senza fare boccacce e scongiuri. Per cui, già prima dei riti del salvinismo balneare, l’Italia era una nazione tutta farsa e parodia. Ma dagli e dagli, oltre a logorarla rendendola anche più nevrotica e cattiva, quest’accentuata attitudine impone, se non un atteggiamento emotivo o un giudizio più o meno sommario, almeno una valutazione, che la gravità della situazione rende necessariamente problematica. Perché l’ideale sarebbe capire, ma che cosa? Il crollo della parola politica e la fine del contegno dei capi, d’accordo; poi l’evidente affermarsi di un totalitarismo pop; quindi l’astuta necessità di conquistare attenzione e distrarre la gente – e i giornali – dai tanti guai italiani buttandola in abbagliante caciara; e magari perfino un tentativo di trasfigurare quel (poco) che resta del sacro all’insegna di un sovranismo spensierato e ballabile, stati alterati, momenti fusionali, corpi nudi che si muovono, cosce, chiappe, frastuono, gioventù, popolo, po-po-lo… Oh, mamma mia, che pensieroni complicati! Eppure, col suo cocktail verde nel bicchierozzo e le agognate cuffie dietro la consolle, Salvini ieri appariva all’apice dell’estate e della popolarità, ma anche della contraddizione. La sua patria è una tribu estiva: un mese appena, forse meno, e l’Italia si mostrerà assai più complicata e infida del Papeete Beach.
4 salvini bullo
I dittatori e il popolo
L’editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica in prima e a pagina 35
Inaccettabili gli insulti di Salvini al lavoro giornalistico di Valerio Lo Muzio, che ha documentato gli abusi della scorta del ministro
In realtà molti sistemi democratici sono guidati in ambito territoriale da personalità che hanno un fascino e quindi guidano le pubbliche opinioni. In Italia la presenza di questo tipo di leader, con caratteristiche diverse, è particolarmente notevole in alcuni Comuni o Regioni: ad esempio a Palermo, a Napoli e in Campania, a Milano, in Veneto. Questo è il panorama ma non è certo limitato al mondo moderno: fu così anche nell’antica Grecia e nella civiltà chiamata democratica da lei diffusa in tutto il Mediterraneo: i pochi in realtà hanno sempre condotto i molti. I molti a loro volta, quando non ne potevano più, facevano la rivoluzione. Ne vedemmo il punto massimo in quella francese e più di un secolo dopo in quella russa e questa, più o meno, è la storia del mondo che si ripete con modalità diverse ma con il contenuto che è sempre il medesimo. *** Nell’Italia odierna la personalità che ha condensato nelle sue mani una elevata dose di potere è Matteo Salvini. La sua Lega che un tempo era stata creata da Umberto Bossi nei piccoli paesi rurali soprattutto nelle zone del Piemonte, in Lombardia e nel Veneto si è estesa a tutto il nostro Paese dando a Salvini una dose di potere politico che si colloca intorno al 35-37 per cento e arriva intorno al 45 per cento con le alleanze della Meloni e di Berlusconi. Poi ci sono i Cinque Stelle di Luigi Di Maio, la cui storia rimonta a Beppe Grillo. La loro origine è populista, cioè una massa di persone che ha soprattutto ideali negativi: la distruzione delle classi dirigenti, siano di sinistra e siano di destra. «Gli alberi vanno tagliati e deve restare solo il prato per noi» diceva Beppe Grillo nella sua predicazione durata dieci anni e terminata solo un paio di anni fa con il lascito a Di Maio e al suo gruppetto dirigente. Questa è l’Italia di oggi nella quale tuttavia la Sinistra non è affatto scomparsa come sembrava. Sta riprendendo con un gruppo dirigente di notevole qualità, tant’è che nelle ultime occasioni elettorali la Sinistra si è collocata al 23-24 per cento ed è la seconda subito dopo il 34 per cento di Salvini. La strada che la sinistra cerca di intraprendere è quella di un Movimento che non si iscrive al partito ma lo affianca e lo affiancherà nelle future occasioni elettorali. Questa è la situazione. Aggiungo che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha genericamente indicato un limite temporale che sarebbe quello dell’8 settembre prossimo. Se Salvini non avesse per quella data mandato all’aria il governo e provocato le elezioni, questa ipotesi diventerebbe inattuabile per ragioni costituzionali. È evidente che la palla da gioco a questo punto passerebbe da Salvini a Giuseppe Conte, presidente del Consiglio e quindi capo del governo. Conte ha già intuito questa situazione e si sta comportando, come abbiamo notato da oltre un mese, in conformità. Conte governa, anche se non piace affatto a Salvini e piace poco anche a Di Maio, dal cui movimento Conte è stato designato. Nel caso in cui per ragioni costituzionali le elezioni non dovessero farsi, è evidente che il potere del premier aumenterà ancora di più. Qual è la sua mira? Conte ipotizza un Paese democratico dove si contrappongono una destra conservatrice e una sinistra progressista. Questo è il Paese moderno come volevano i fratelli Rosselli e come volevano anche Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi con il loro Manifesto redatto a Ventotene settantotto fa. Quel gruppo puntava sull’Europa e naturalmente sull’Italia, ma l’Europa era indispensabile e avrebbe dovuto assumere la forma d’una Federazione con moneta unica e una politica progressista e sociale. Tutto ciò non avvenne, ma non si può escludere che Giuseppe Conte a questo pensi. Lo vedremo. Sarebbe un risultato del massimo interesse per l’Italia e per l’Europa. Ps. Il collega Valerio Lo Muzio da collaboratore del nostro giornale ha raccontato e documentato il comportamento scorretto della scorta di Matteo Salvini, che ha accompagnato il figlio del ministro su una moto d’acqua della Polizia di Stato e ha minacciato il giornalista. Salvini ha poi insultato in modo inaccettabile il lavoro giornalistico del nostro Lo Muzio. Questo atteggiamento è stato ritenuto indecente da una quantità di giornali sia in Italia che all’estero, a cominciare da Le Monde di Parigi e per quanto ci riguarda dal Corriere della Sera e da La Stampa. Anche il nostro giornale ovviamente ha fatto quel che doveva ed io faccio qui altrettanto in quanto Fondatore del medesimo.
La direttrice di Stern “Il populismo non tollera i giornalisti che domandano”
In Germania Carola Rackete è diventata un vero caso quando è stata insultata dal ministro dell’Interno, è stato un autogol
Tonia Mastrobuoni su Repubblica a pagina 8
DORTMUND-Anna-Beeke Gretemeier, 32 anni, dal 2017 è direttore di uno dei più importanti settimanali tedeschi, Stern. Sugli attacchi di Matteo Salvini alla stampa italiana e in particolare a Repubblica, ha le idee chiare. Direttore, Matteo Salvini ha attaccato i giornalisti di Repubblica che tentavano di chiedergli conto del figlio ospitato sulla moto d’acqua della polizia e di Moscopoli. Lei che ne pensa? «La strategia dei populisti è quella di considerare nemici i giornalisti che tentano di fare il loro mestiere. E il loro mestiere consiste nell’essere critici, nel fare i cani da guardia contro gli abusi di potere. Gli attacchi alla stampa libera – ma anche i tagli dei fondi a certi media – sono fatti profondamente antidemocratici. E ciò vale per entrambi i partiti attualmente al governo, Lega e 5Stelle». Perché accade, secondo lei? «Politici come Salvini non vogliono lasciarsi controllare. A loro non interessano il Paese o i cittadini, sono interessati solo a se stessi. Vogliono intimidire la stampa per non essere più criticati. Perciò Stern non può che esprimere tutta la sua solidarietà ai colleghi che in Italia, in Austria e negli Usa prendono sul serio il loro mestiere, che è quello dell’informazione critica e dell’inchiesta. Stiamo parlando di elementi essenziali di ogni società democratica. Ed è preoccupante che in Europa non si possano più dare per scontati». Alcuni giornalisti, nella conferenza stampa degli insulti, hanno attaccato i colleghi che facevano domande. «Anche questo è tipico della politica populista: dividere i media in amici e nemici. Ma un giornalista che prenda sul serio il proprio mestiere non può essere amico del potere. È un’idea totalmente sbagliata dal nostro compito». A qualcuno i metodi di Salvini cominciano a ricordare quelli di Trump. «L’insulto e la denigrazione dei giornalisti ricorda ovviamente Trump, che usa anche il termine ‘fake news’ per intimidirli. Quando è lui stesso a mentire». Cosa fare contro la delegittimazione continua? «Continuare a scrivere. Degli insulti, del comportamento di Salvini. I lettori devono sapere. Se si rinuncia, si lascia il campo libero a chi vuole lisciargli il pelo». In un’epoca di destra populista sempre più aggressiva qualcuno fa paragoni con la Repubblica di Weimar. Troppo? «Ci sono somiglianze, anche nella radicalizzazione di fette di popolazione: ma la grande differenza è che allora i cittadini non avevano molta esperienza di democrazia. I cittadini tedeschi e italiani di oggi vengono da decenni di democrazia. È perciò che la stampa è fondamentale. Ed è per questo che, nonostante tutto, per i populisti è ancora difficile vincere un’elezione. Credo che la maggioranza dei cittadini in Europa si riconosca ancora nei principi fondanti della democrazia». Di recente Salvini ha anche insultato una rom, l’ha chiamata ‘zingaraccia’. Può un ministro dell’Interno, preposto alla sicurezza di tutti i cittadini, esprimersi in questo modo? “La decenza imporrebbe di no. Non è solo un cittadino, è un ministro della Repubblica che non dovrebbe mai discriminare, né mai legittimare chi tenti di farlo. In tutte le democrazie, dagli Usa all’Europa, i populisti tentano di mettere alla prova le regole della decenza e di spostare le linee rosse sempre più in là. Ma è la società che deve decidere se consentirglielo o meno». Salvini ha definito Carola Rackete una “zecca tedesca”. Lei che ne pensa? «Il termine ‘zecca’ viene usato qui in Germania soltanto dai neonazisti per screditare qualsiasi persona considerata di sinistra. Si tratta di umiliare chi la pensa diversamente. Anche in Germania c’è stata una discussione sulle Ong che salvano vite in mare. Ma l’odio cieco contro di loro ha scatenato qui un’ondata di solidarietà. Noi di Stern ci siamo sicuramente occupati molto più del caso Carola quando è stata arrestata e insultata da Salvini. E per questo motivo è stata molto più ascoltata e ha ricevuto molta più attenzione che se non fosse successo nulla». Un autogol, insomma. «Esatto». E tra la Lega e gli ‘amici’ della destra tedesca dell’Afd che somiglianze vede? «L’Afd cavalca sempre lo stesso tema: la paura dell’altro, del profugo, ad esempio. Ma per molti problemi del nostro tempo – la scuola, la pensione, la rivoluzione digitale – in realtà non hanno risposte. Non ne parlano mai, sono un partito monotematico. Ma il populismo funziona anche finché tutti cadono nella trappola di occuparsi solo dei loro temi».
Pansa: Panorama mi caccia, criticavo Salvini
La replica di Belpietro “L’hanno licenziato i lettori, sono pieno di lettere di protesta”
Su Repubblica a pagina 8
4 cinque stelle bugani
“Di Maio non mi ha perdonato qu e l l’intervista: mi dimetto” Max Bugani Il socio Rousseau lascia l’incarico nella segreteria del vicepremier “Mi volevano dimezzare lo stipendio, ma io non sono attaccato alle poltrone”
Fatto p.2
N e sono successe tante, forse troppe. E lo strappo con il capo, con Luigi Di Maio, si è dilatato, diventando una voragine. Così Massimo Bugani, bolognese di 41 anni, veterano del M5S, ha deciso che è ora di uscire da quella porta. “Mi dimetto da vice-caposegreteria di Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, e lascerò anche i ruoli di referente del Movimento in Emilia Romagna e dei sindaci”. RIMARRÀ CONSIGLIERE c omunale a Bologna, l’amico di vecchissima data di Beppe Grillo e dei Casaleggio, “per – ché sono convinto di aver svolto un grande lavoro in Comune”. Ma è pronto anche a un altro addio: “Se dovessi rendermi conto che la mia permanenza nell’ass ociazione Rousseau può diventare un problema per Davide Casaleggio, non avrò problemi a farmi da parte. Voglio troppo bene ai miei soci e all’a ss o c i a z i o n e ”. Bugani spiega, precisa, e lo ripete più volte: “Non sono attaccato alle poltrone”. E la voce a tratti s’incrina. Perché racconta la rottura con il capo politico del Movimento, con Di Maio, politica e in parte umana. “Certe coppie che stanno assieme da anni poi iniziano a convivere, ma dopo pochi mesi capiscono di far fatica a stare vicini”prova a scherzare. Ma la sostanza dei fatti è cruda, dritta: “È iniziato tutto dopo la mia intervista al Fattodel 19 giugno, in cui auspicavo unità nel Movimento e sostenevo che Di Maio e Di Battista non sono alternativi ma complementari. Poche ore dopo mi chiesero di non rilasciare più interviste. E non capisco perché, visto che io non volevo certo mettere in difficoltà Luigi. Ritenevo doveroso richiamare alla compattezza in un momento difficile, e invitare a non puntare il dito contro Di Battista o altri, perché le diverse anime del M5S vanno tenute assieme”. Ma il leader l’ha presa malissimo. “In quella circostanza ho capito che il mio ruolo veniva messo in discussione e che non c’era più fiducia in me. E nel giro di qualche giorno mi hanno fatto sapere che il mio stipendio da vice-caposegreteria sarebbe stato dimezzato per contenere le spese”. Da lì inizia il grande freddo tra Bugani e Di Maio. Ma tutto si spezza un paio di settimane fa, quando il socio di Rousseau attacca a muso duro il ministro dei Trasporti Toninelli e il sottosegretario Dell’Or – co, invocandone la cacciata per il sì al Passante di Bologna. “Lo ridirei mille volte, ho dato 14 anni di vita al Movimento e alle sue battaglie per la tutela dell’amb ient e, contro opere inutili e costose come l’allargamento di u n’au to st ra d a” ri ve nd ic a Bugani. PERÒ AI PIANI ALTI s’infuria – no, e un paio di giorni fa gli è
arrivato il conto: “Il suo caposegreteria Dario De Falco, persona per bene, mi ha invitato a dimettermi e io ho replicato che Luigi poteva rimuovermi. Poche ore dopo mi hanno mandato un provvedimento con cui riducono il mio stipendio da 3800 a 1600 euro. Io non sono aggrappato ai contratti, e allora ritengo doveroso dare le dimissioni. Anche per il bene che voglio a Di Maio, nonostante in questi mesi non abbia condiviso molte sue scelte”. Nessun contatto con il vicepremier? “Non ultimamente”. Il filo per ora si è spezzato. “Ho informato delle mie dimissioni Grillo, Casaleggio, Di Battista e ad altri amici – continua Bugani – Ma quello che ci siamo detti rimarrà tra di noi”. Però il consigliere comunale tiene a dirlo: “Quella di lasciare è una mia decisione totalmente autonoma, e voglio anche precisare che non ho alcuna intenzione di candidarmi alle prossime Regionali in Emilia Romagna”. Ma ora come sta il Movimento? Bugani riflette, poi lo dice: “Ora nei sondaggi siamo al 14 per cento, è il momento più difficile per il M5S, e sinceramente non credo di essere io il problema ”. E perché va male, perché Di Maio sta sbagliando rotta? P ICCOL A pa u sa , poi arriva la metafora: “Parafra – sando quel film Ogni maledetta d om en ic a, potrei dire che in politica se cedi un centimetro alla volta, poi ti ritrovi nei guai”. E quei centimetri sono (o sarebbero) stati tutti ceduti all’avversa – rio che non vuole citare, alla Lega. “Io ho una storia, e la voglio preservare” conclude Bugani. Dopo aver chiuso quella porta. Twitter: @
5 tav
“La Lega ci ripensi Votando sì al Tav viola il contrattto”
Il capogruppo M5S in Senato: “Gli eletti piemontesi ci aiutino”
Conte ha dato il via libera al progetto? Ha detto anche che il Parlamento è sovrano e quindi avrà l’ultima parola
Fatto p.3
6 renzi querela
Renzi minaccia querele e fa compagnia a Salvini
È offeso col Fatto Quotidiano che lo accosta al “Papeete M a n”. Ecco i suoi insulti ai (pochi) giornalisti sgraditi Compreso “ti spacco le gambe”
Dal Corriere a Sallusti fino a noi: anche all’ex segretario dem non piace chi indaga
Fattp p.4
LO BATTERÒ E DARÒ I SOLDI AI TRUFFATI DI ETRURIA&C. » ANTONIO PADELLARO P robabilmente depresso dal fatto che i giornali non si occupano più di lui, Matteo Renzi si occupa dei giornalisti per strappare una breve in cronaca. In ogni caso plaudo alla querela che l’ex premier ha annunciato contro di me dopo il mio intervento alla trasmissione In Onda Es ta te di giovedì scorso, anche se egli non spiega affatto quali sarebbero gli estremi della mia presunta diffamazione. Impaziente di vederlo finalmente in un’“aula di tribunale”, gli darò una mano reiterando il reato che non c’è. Ho infatti detto che l’arroganza di Matteo Salvini verso i giornalisti che fanno il loro mestiere ha dei precedenti. E ho citato il collega del Corriere della SeraMarco Galluzzo che qualche estate fa in Versilia la scorta dell’ex statista di Rignano tentò di intimidire solo perché s’i nf or ma va sulle tariffe di un lussuoso hotel della zona. Presso il quale Renzi e i suoi cari avevano ottenuto affettuosa ospitalità. Trattamento subìto da Galluzzo che tutti in studio ricordavano e che il direttore del Corriere, Luciano Fontana, in collegamento, non ha certo smentito. Ho accennato anche all’amichevole telefonata subita dal direttore del Gio rnal e, Alessandro Sallusti (“ti spacco le gambe”) da parte di un tipo che sosteneva di essere il presidente del Consiglio. Dunque grazie di cuore allo spericolato querelante perché, con la sfilata di testimoni e testimonianze che intendiamo richiedere, forse per la prima volta un personaggio politico risponderà dei suoi comportamenti con la stampa. S’intende che, nel caso il Renzi fosse condannato a versare un risarcimento per la sua lite temeraria, m’impegno a devolvere la relativa somma ai risparmiatori truffati di Banca Etruria e ai dipendenti lasciati sul lastrico dall’intraprendente Babbo.
7 moscopoli
IL RUSSIAGATE E PIENO DI SORPRESE È stato consegnato pure alla Rai l’audio per intrappolare Salvini «Report lavora all’incontro di Mosca da mesi. Ranucci: C’è stata una strana accelerazione. Noi stiamo verificando tutto. L’espresso ha altri metodi. Cosi nasce il blitz al Metropol. Che non trova riscontri.
PER GLI ABUSI DI RENZI REPUBBLICA NON HAVOCE
di MAURIZIO RELPIETRO Siccome la faccenda del petrolio di Mosca si è rivelata un flop, anzi un boomerang perchè ogni giorno che passa si capisce che il grande intrigo dei soldi russi in realtà era solo un grande trappolone, a Repubblica hanno allestito un nuovo scandalo contro Matteo Salvini. Questa volta non ci sono di mezzo i rubli. Vladimir Putin e i servizi segreti del Cremlino o della Casa Bianca, ma più semplicemente una moto l…)
Maurizio Belpietro sulla Verità in prima e a pagina 2
(…} d’acqua. Complici le vacanze e il caldo. la questione che appassiona i cronisti del quotidiano radical chic è la gitarella del figlio minorenne del ministro su un mezzo della polizia. Sappiamo come vanno certe cose. soprattutto quando si ha a che fare con un personaggio noto. Due agenti in servizio di pattugliamento della costa si fermano sulla spiaggia dove soggiorna il capo della Lega. Salutano il numero uno del Viminale e forse si scattano pure qualche selfie in sua compagnia. mentre il ragazzino guarda con curiosita le moto con cui sono approdati. Uno dei due poliziotti. a questo punto. gli offre di fare un giro e il giovane. ignaro delle ricadute della gita acquatica sull’immagine pubblica del padre. accetta. Certo. si tratta di uno strappo alle regole. che riguarda più il poliziotto che il figlio di un ministro. perche la pattuglia non e li per fare acrobazie in mare. ma per garantire la sicurezza dei bagnanti. Potrebbe finire qui. con una banale contestazione per un uomo delle forze dell*ordine. ma nei paraggi c`e un videomaker di Repubblica che riprende la scena. Ci manca poi che la scorta del ministro SUI MONTI Matteo Renzi in Alto Adige cerchi di evitare che il collaboratore del quotidiano di De Benedetti filmi il ragazzino mentre sale sulla mot.o d*acqua. Forse ci scappa addirittura una minaccia: sappiamo dove abiti. Beh. insomma. gli ingredienti ci sono tutti per montare un caso di abuso di potere che tracima sulle pagine del giornale. fino a conquistarne il titolo principale. Alla conferenza stampa in spiaggia il cronista insiste. chiede conto e a Salvini scappa una battuta: vada a filmare i bambini in spiaggia. visto che le piace tanto. Il giornalista e offeso a morte (soprattutto perchei colleghi non gli danno man forte. ma anzi sembrano disinteressati e infastiditi dalle domande sul presunto scandalo) e Repubblica il giorno dopo tuona. con tanto di editoriale in prima pagina del suo direttore. A questo punto Fargomento non è più la gita con la moto d’acqua. ma la minaccia alla libertà di stampa. ossia il tentativo di impedire di riprendere la scena e gli insulti al collega [evade a filmare i bambini in spiaggia. visto che le piacesl che sembrano dargli del pedofilo. Si mobilita l”Internazionale dei giornalisti democratici e Repubblica schiera addirittura il direttore di Le Monde. il quale ovviamente usa la questione per attaccare i sovranisti. passando da Salvini a Trump. Da banale che era – una gita di pochi minuti su una moto d’acqua della polizia – il caso è diventato mondiale. esempio evidente dell`abuso di potere di un ministro di cui Repubblica non sopporta il potere. Peccato che quei giornalisti che oggi si indignano a gridano allo scandalo siano gli stessi che non avevano nulla da eccepire quando Matteo Renzi portava in vacanza a Courmayeur la famiglia con l”elicottero di Stato. E siano anche gli stessi che non fecero un plissé davanti al racconto di Alessandro Sallnsti. il quale in un editoriale scrisse di essere stato «avvertito» direttamente dall’allora presidente del Consiglio. che in una telefonata minaccio di spezzargli le gambe. Che da Palazzo Chigi chiamassero il direttore di un giornale d`opposizione promettendogli una gambizzazione non desto alcun allarme. Cosi come non provoco alcuna reazione il resoconto. confermato poi da Ferruccio deBortoli.. della minaccia da parte del capo scorta di Renzi a un giornalista del Corriere della Sera che aveva osato prendere una stanza nello stesso hotel in cui soggiornava. in vacanza con la famiglia. l”e:›-: Iiottamatore. Gia. ma allora erano altri tempi. Renzi era potente e in questi casi a Repubblica non ravvisarono alcun abuso di potere. Le cronache adoranti descrivevano anzi il rinnovamento democratico del Paese. Erano i tempi in cui ogni mese Carlo De Benedetti. il padrone di Repubblica. faceva colazione a Palazzo Chigi e. dopo un caffe e una brioche. usciva e telefonava al suo agente di cambio per informarlo che la riforma delle Popolari si sarebbe fatta. In questo caso nessun abuso. Solo esercizio del potere.
7 pd
FIRME CONTRO SALVINI Renzi ritira la sua raccolta ma ormai ci sono due Pd
Daniela Preziosi sul Manifesto a pagina 4
Alla fine, dopo due giorni di polemica interna, Matteo Renzi ritira la sua «personale» (parole sue) raccolta di firme a sostegno della mozione di sfiducia contro Salvini. L’iniziativa era uguale e parallela – e cioè concorrente – a quella lanciata dal segretario più o meno contemporaneamente (le opposte fazioni litigano per la primogenitura dell’iniziativa, le ricostruzioni assegnano il premio ai renziani). I militanti dell’uno e dell’altro per due giorni si lanciano accuse di plagio. Ieri Carlo Calenda prova a unificare le due petizioni – quella renziana si svolgeva online, quella del Pd ai tradizionali banchetti delle feste dell’Unità. Ma anche Calenda deve ritirarsi con le pive nel sacco: i renziani non l’hanno presa bene. «Mi pare chiaro che la priorità non è sfiduciare Salvini ma sfiduciare chiunque non sia Renzi», la sua conclusione. Nel pomeriggio però l’ex segretario ritira l’iniziativa: «Abbiamo raccolto in due giorni più di 30mila firme. Oggi ci viene detto che la raccolta firme va bloccata, sostituita o unita a quella improvvisamente annunciata dalla segreteria del Pd», «Noi blocchiamo la nostra raccolta di firme, spero che altri blocchino le loro ossessioni ad personam». Il riferimento è a un post di Camilla Sgambato, membro non notissimo della segreteria che aveva chiesto di stoppare la gara fratricida e raccogliere tutte le firme «con il modulo del Pd». Renzi dunque ferma polemicamente le macchine. Ma la vicesegretaria De Micheli puntualizza: «Nessuno impedisce o ha impedito nulla a nessuno. Gli avversari sono fuori di noi». Risparmiamo al lettore altri dettagli del vaudeville. La verità però è poco allegra: quello che succede ai dem è grave ma non serio. Anche perché nel frattempo Salvini scala i consensi a colpi di insulti, decreti illiberali e balletti patriottici sulla spiaggia. Al confronto le liti Pd sono una realtà parallela, pura fantascienza. Renzi nega l’intenzione di fare una scissione, ma nel Pd ci sono ormai due partiti. Da quando è sfumato il ritorno al voto imminente, ha ripreso in pieno l’iniziativa politica con i suoi comitati civici, che nega essere una corrente. Ma la coincidenza fra i suoi slanci e quelli del segretario autorizza il Nazareno sospettare la sistematica controprogrammazione. Al fine di oscurare le iniziative – di per sé non luminosissime, va detto – del segretario. Tutto nasce dalla mozione di sfiducia contro Salvini sul caso «rubli». Renzi la propone a tamburo battente, Zingaretti rallenta per allungare i tempi del litigio fra M5S e Lega. Quando il premer Conte va al senato per la sua informativa, Renzi fa sapere che sarà lui a parlare in aula. Dopo qualche timido malumore dei suoi colleghi senatori rinuncia. Ma svolge l’intervento su facebook, non senza qualche polemica velenosa sul segretario – accusato di intelligenza con il nemico grillino. La mozione finirà poi in un buco nell’acqua: la camera l’ha rimandata a settembre. Alla successiva direzione Renzi non va, ma posta una enews a riunione appena iniziata. A settembre ‘capiterà’ una nuova coincidenza. Il Pd inaugura il 23 agosto la festa nazionale a Ravenna. Per quegli stessi giorni Renzi ha fissato nel lucchese la sua scuola quadri per under 30.
Un Pd e due petizioni per sfiduciare Salvini Renzi ferma la sua Lite per la doppia raccolta di firme. L’ex premier: “Ossessionati da me” Per la vicesegretaria De Micheli “discussione ridicola”. Torna lo spettro scissione
Rosato: “Zingaretti ci insegue su tutto” Ma dal Nazareno si sostiene il contrario
Repubblica pagina 10
Oltre il ridicolo: il Pd litiga anche sui no al leghista L’ex premier stoppa la raccolta firme per cacciare il ministro. Che si diverte su Twitter: “Geniali”
Fatto p.5
BATTI E RIBATTI VIA TWITTER E il Pd litiga pure sulle raccolte firme anti Matteo Calenda propone (ironico) di riunirle. Renzi blocca la sua ma scatena la polemica interna
Giornale p.2
Nel Pd convivono già due partiti. Che litigano anche sulla mozione di sfiducia contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Da un lato i renziani, riuniti nei comitati civici; dall’altro, la nuova dirigenza dem guidata da Nicola Zingaretti. Nel mezzo, l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, passato da organizzatore di cene a mediatore tra le varie correnti del Partito democratico. Anche ieri, Calenda ha provato a rimettere insieme renziani e zingarettiani. Dopo lo scontro sulla mozione sfiducia al titolare del Viminale. Il Pd ha lanciato due petizioni, con lo stesso simbolo, per chiedere le dimissioni del ministro dell’Interno. La prima, lanciata da Matteo Renzi e dai suoi comitati; l’altra dal segretario dem Zingaretti. Insomma,un derby in casa dem per fare opposizione al governo Lega-Cinque stelle. E il ministro dell’Interno se la ride: «Il Pd, dopo anni di disastri, pretenderebbe di cacciare la Lega con una raccolta firme (e litigano pure). Geniali, no?» La polemica va avanti già da giorni. Ieri però è esplosa con un durissimo botta e risposta tra renziani e zingarettiani. Quando Calenda è intervenuto (via Twitter) per riportare la pace. E unire le due petizioni. «Ecco qui. Con 15 minuti di duro lavoro ho fuso le due petizioni per le dimissioni di Salvini. Che ne dite Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Nicola Zingaretti, facciamo questo sforzo di unità? Daje», scrive l’ex ministro allegando il testo della petizione «unitaria». L’intervento di Calenda, inizialmente, scatena la dura reazione dei renziani. Anna Ascani risponde piccata: «Carlo, basta. Non fa neanche più ridere. Renzi ha lanciato una mobilitazione riprendendo la nostra richiesta di mozione di sfiducia che tu ed altri avete ridicolizzato sostenendo che avrebbe ricompattato la maggioranza. Cambiato idea? Vuoi firmare? Bene». A stoppare le polemiche che rischiavano di far naufragare l’attacco contro il ministro dell’Interno è Matteo Renzi che annuncia il ritiro della sua petizione. Ma non senza lanciare frecciatine al gruppo dirigente. «Continuano ad attaccare il Matteo sbagliato. Ma io non voglio polemica. Ecco perché stoppiamo la raccolta firme», cinguetta Renzi. Che Poi affonda il colpo, ricostruendo i fatti dal suo punto di vista: «Ho promesso di non parlare delle discussioni interne al Pd perché litigare tra noi in presenza di un Governo come questo è allucinante. Purtroppo anche oggi ci sono polemiche inspiegabili sul fatto che i bravissimi comitati di Azione Civile hanno presentato una raccolta firme per la mozione di sfiducia a Salvini». Per l’ex presidente del Consiglio l’obiettivo della sua petizione era quella di tenere alta l’attenzione contro il leader della Lega. E punta a chiudere in fretta le polemiche anche il vicesegretario dei Dem Paola De Micheli: «Basta con queste discussioni ridicole sulle firme. Più siamo meglio è, più firme ci sono meglio è, più si dice la verità meglio è. Nessuno impedisce o ha impedito nulla a nessuno. Gli avversari sono fuori di noi. Occupiamoci delle persone, dei lavoratori, degli studenti, dei pensionati, delle imprese. Questo si aspettano da noi».
7 Berlusconi
Cavaliere, lei e nella storia Perché passare alla farsa?
di MARCELLO VENEZIANI
Maestà Silvio I, perché inventarsi un’Altra Italia dopo che l’Italia reale le ha voltato le spalle? Perchè non prendere atto che il suo tempo è scaduto e accettare il ruolo di emerito come già accade a Papi e capi dello Stato? La sua Altra Italia ricorda una celebre battuta di Bertolt Brecht: «Se il popolo non è d’accordo con me allora nomino un nuovo popolo». Cosi ha fatto lei: visto che l’Italia non e più con lei, allora s’inventa d’insana pianta un’altra Italia immaginaria, si costruisce una protesi d`Italia. un plastico d`Italia. siliconata. littata. col riporto. fatta su misura perla suacorona.Italiadue come Milano due. dopo Italia uno. E se quelfltalia e troppo corta. ci mettogli alzatacchi allo stivale. iL`altra Italia. in verità. la fondammo ad Ascoli Piceno il sindaco Guido Castelli ed io. ma era un ciclo d`incontri culturali. non un piano per clonare l”ltalial. Se la realtà nazionale mi volta le spalle. avrà pensato il Re. se persino il «partitino» di Giorgia Meloni su cui tanto ironizzavo fino a poco tempo fa. mi scavalca neisondaggi. allora. cribbio. mi produco una fiction. fondo il mio cartoon la mia Italia in cartongesso su cui proseguire il mio reame virtualee cacciareo ripescare chi voglio io. Una specie di Villa Italia di Re Umberto in esilio a Cascais. una sorta di Little Italy come quella degli emigrati. insomma pn`altra Italia in miniatura. E la sindrome del Monza dopo il Milan. Perche scendere dalla propriastatua a cavallo e andare in caduta libera nell`indecente mercatino dei partitini nuovi. usati. riciclati? Nel bene e nel male lei e passato alla storia. perché passare alla farsa? Lei à considerato il precursore di Donald Trump. l”amico di Vladimir Putin. non pub ridursi ora a fare il Gabibbo in questi giochi di simulazione. Lasci almeno quel ricordo. seppur controverso. Perche ridurre Fia una bad conipany su cui scaricare negatività eseguaci da annegare e concludere una parabola il -_ NUMERO UNO Silvio Berlusconi con la maglia del Monza [Ansa] politica che fu anche esaltante e popolare con una patetica parodia dei regni perduti? Intendiamoci. non e folle immaginare che esista un target cent.rista. liberale. cattolico popolare. moderato. distinto dai populisti come dalla sinistra. attualmente non rappresentato: non e il mio mondo. malo capisco. Pero non pub rappresentarlo lei che e il Padre ditutti ipopulismi.da Matteo Renzi a Beppe Grillo. da Matteo Salvini alla Meloni; lei cheestato il più estremista dei moderati. il più sovranista dei liberali. E non puo inventare lei quel soggetto politico fondato sulla sobrietà e il pluralismo. lei che e stato un Vistoso Monarca Bgocentrico. tutt`alt.ro che defilato e collegiale. lei che si reputa tuttora lnsostituibile e Perpetuo e non riconosce a nessuno il ruolo di erede o di successore. Non puo esserelei ilfondatore di una nuova fase della politica. perche e percepito come il Passato. il protagonista di una stagione ormai irrimediabilmente trascorsa; ed effettivamente ha B3 anni. ne ha passate tante. si av
verte su di lei tutto il peso degli anni e dei t.ravagli. ha perdut.o i tre quarti dei suoi eletti e anche più dei suoi elettori. La mia convinzione – che ho espresso nel corso di questi anni. e non a caso dovetti lasciare Il Giornale – e che il suo ruolo politico sia finito sette anni fa. dopo che fu silurat.o con un mezzo golpe da un asse franco-tedesco-napoletano. Fini una stagione politica. la sua. di Umberto Bossi e di Gianfranco Fini; motivi divergenti ma destini convergenti. Pur non essendo mai stato berlusconiano. le ho sempre riconosciuto la leadership indiscussa e trainante. Ma da quando tu privato del governo ha perso lucidità. ha perso empatia con gli italiani. ha sostenuto tutto e il contrario di tutto. à rimbalzato da un Matteo all”altro. e stat.o alleato. socio e nemico di tutti. a turno. a volte con doppi turni giornalieri: ha nominato e trombato una marea di delfini e candidati premier. ha ucciso col suo abbraccio mortale tutti coloro che le facevano ombra. L`ultima con Giovanni Toti e Mara Carfagna e da manuale. Ma di cabaret. Provo alietto e solidarietà non solo nei loro confronti ma anche verso coloro che le sono rimasti fedeli e sono costretti a incensarla da mane a sera. a dire che vedono quel che leivede. anche le allucinazioni. e a ripetere che Berlusconi non ha successori. si autorigenera e loro sono solo il contorno. la claque. i suoi droni. E una gara di resistenza. anche perche a lei debbono quasi tutto. incluso ilnaufragio. Finora la gara la capeggia Antonio Tajani. che partito nelruolo di Falcone Lucifero. Ministro della Real Casa. ha accettato di trasformarsi in Sancho Panza e vede mostri al posto di mulini a vento per assecondare il Cavaliere Visionario. La trasformazione avvenne da quando lei si presento in tv con un foglio piegato tra le mani. come una specie di bacchetta magica o di lampada d”Aladino da cui estrarre improbabili dat.i su ogni argomento. Da allora non l`ha più mollato. come un agente che vuol farti firmare la polizza. E riuscito perfino a far rimpiangere la fase giudiziaria e pomiciona di un tempo. i bei processi e i bunga bunga. Avolte. per salvarla dalla caricatura di se stesso. mi illudo che leifinga di aver perso il senno. sia entrat.o in una fase dadaista e stia giocando con la realtà e con la ragione. divertendosi a spiazzare e a coglionare tutti. E come un pittore che ha perduto la vena ligurativa e si sia dato al surrealismo: e lo eserciti con spirito ironico e autoironico. mettendo i baffi alla Gioconda e sostituendo le dame con i pisciatoi. Ci dica che e cosi. la prego.
BERLUSCONI È IN GRANDE CRISI Sfruttato Sfruttato e abbandonato e abbandonato Quando Forza Italia era florida, Silvio era pieno Quando Forza Italia era florida, Silvio era pieno di leccaculi, ora è stato tradito da chiunque di leccaculi, ora è stato tradito da chiunque Cavaliere, non se la prenda con Salvini ma con Cavaliere, non se la prenda con Salvini ma con i suoi ex fedelissimi, ominicchi e donnicciole
Libero in prima
FEDELI TRADITORI Quante coltellate. Al momento giusto La carriera di Silvio è costellata di trionfi e adulatori, sempre pronti a fuggire non appena il vento mutava Da Montanelli al Giornale, ai tanti miracolati della televisione e della politica. Fino all’addio della moglie
Di Renato Farina su Libero a pagina 3
È sempre stato un toro, in tutti i sensi, dove vedeva rosso caricava, creava il vuoto intorno, seminando il panico tra i matador. Quanti ne ha incornati Silvio Berlusconi di concorrenti e avversari nel mercato televisivo prima e in quello politico dopo, e in quello giudiziario pure? Una moltitudine. Nomi? Non è questo l’articolo giusto per ricordarli. Quelli meritano fiori. È la giravolta dei cicisbei a disgustare. Ora che il Toro è seduto e persino sedato,assistiamoinfattiall’abbandono difiglioliefigliole dalui prediletti. Quando li ha fatti salire in ascensore con lui, erano festevoli. Ora che scende, anzi precipita, saltano fuori e gli fanno marameo. Nell’animo, nell’intelligenza e nella volontà resta lo stesso fenomeno mitologico, ma ora che gli pulsa la giugulare e ha reclinato un pocoil capo,farfalline e farfalloni sono volati via. L’età del Cavaliere, 82 tondi, è quella che è, ma non è questo il punto. Si vedano Napolitano, Scalfaro, Pertini: a 85 anni erano riveriti e portati sulle spalle dal popolo e dai compagni più giovani, devoti nonostante le loro contraddizioni e procedettero di gloria in gloria fino ai 90 e passa. Una ragione c’è. Leader di partito e di governo non lo eranomai stati, non avevano trascinatoversoil potereeil successo nessuno. Furonoe sono calibrimedi, spediti su un missile tra le stelle dai casi fortunati e dall’astuzia. Per Berlusconi sta accadendo come capitò nel secolo scorso ad uno che comincia per M, a un altro di nome De Gasperi, al terzo il cui cognome fa Craxi (più fortunati, quanto ad amicifedeli sono statiAndreottieCossiga). Per Berlusconi il festival del si salvi chi può è accentuato perché è stata sconsiderata la sua generosità e forse perché ha premiato costantemente i peggiori. Gli restano accanto di sicuro quelli che sono coetanei, e che anche senza di lui avrebbero primeggiato: FedeleConfalonieri e Gianni Letta. Gli sarebbero vicini, magari tirandogli le grande orecchie, anche Giampiero Cantoni, se non fosse precocemente deceduto e ricchissimo di suo, e Marcello Dell’Utri, consegnato però ai domiciliari. TRIONFI E SOLITUDINE Sindal principioin tanti e tante hanno sfruttato la forza della natura di questo signore che liberava il terreno politico e commerciale per regalarne l’usufruttoa personaggi senza qualità, a parteil blazer ole belle gambe. Posizioni prestigiose inventate per chi era poca cosa nel mercato della vita. Quanti (e quante) hanno approfittato molto volentieri dei suoi servizi taurini, e quando hanno scoperto che, come il vecchio capo apache, era vivo sì ma ferito e bisognoso di sentire il fiato amico di principini e principine da lui incoronati, si è ritrovato lì come un pirla. La storia di Berlusconiè sempre stata caratterizzata da questo andamento per metà trionfale e per l’altra metà di solitudine. A parte casi seri, e separazioni consensuali, la più parte dopo averlo implorato e per tre minuti ringraziato, una voltafattoil pieno e spremutoil succo dall’ubertoso brianzolo, lo ha mollato, spietatamente rinfacciandogli che la cuccagna non abitavapiù adArcore. Quello che sta succedendo in questi giorni è in realtà una ripetizione triste della stessa scena.Resa più drammatica dall’esplosione di un partito che lui aveva fatto crescere fino al 38%. Per trent’anni ha ricevuto palle di cannone giudiziarieemediatiche, certo incoraggiate da errori e debolezze anch’esse perlopiù taurine. Chi gli stava intorno non ha mai eccepito. Adesso che è stanco gli tagliano i tendini. Gli ultimi casi sono quelli di Giovanni Toti e, sia pure con motivazioni più angelicamente espresse, di Mara Carfagna. I quali hanno le loro ragioni, ma non quelle del cuore, come direbbe Pascal. Il partito va male. D’accordo. Che bisogno c’è di ferire il benefattore? Berlusconi sembra re Lear alla fine della sua parabola, assiso su un trono assai gramo, magari circondato da ancelleefamigli dilevatura non straordinaria, però conilmerito della fedeltà, si spera non pelosa. LA LUNGA FILA Chi si sente non più prescelto, usa questa scusa del cerchio magico per abbandonarlo e abbindolarlo, senza restituirela dote che Berlusconi aveva loro concesso, ma anzi sfruttandola per relegarlo ai margini della scena italica. Magari anche bendandolo a parola come una sacra mummia da onorarecon un giro di turibolo dichiarandolo però defunto, come Lazzaro, ma senza più speranze di risurrezione. Possiamo cominciare dai primi tempi? A mollarlo senza un grazie fu nientepopodimeno che il grandissimo Indro Montanelli, che non osiamo includere nella categoria dei perdenti di successo, ci mancherebbe. Esiste l’esercizio della libertà e del ripudio, ma c’è modo e modo. Berlusconi aveva salvato, mettendoci un sacco di soldi, il Giornale nuovo (si chiamava così), il coraggioso naviglio pirata di Indro che aveva radunato unamagnifica ciurma di ribellial conformismo progressista del Corriere della Sera,la cui proprietaria simpatizzava per Mario Capanna e dintorni, consentendo che il glorioso quotidiano della borghesia milanese esponesse il vessillo comunista, custodito con paracula benevolenza da Piero Ottone. Il quotidiano, che elargiva fior di stipendi ai giornalisti azionisti, perdeva montagne di quattrini. Berlusconi comprò le azioni arricchendo i profughi di via Solferino, e da quelmomento fu il padrone del Giornale specialmente nel senso che ne ripianava i debiti. Quando la famosa rivoluzione italiana mandò in tribunale, in galera, in esilio i leader del pentapartito, dando libero campo agli ex comunisti, Berlusconi pensò che l’unica speranza fossefondare un suo partito e sfidare Occhetto. Chiese unamano aMontanelli e ai suoi fidi, e quelli lo abbandonarono, come eraloro diritto.Ma, e questo forse non era proprio un dovere, conifondi raccolti daun bravofaccendiere comunista, aprirono laVoce per affondare l’avventura del loro mecenate. Non ci riuscirono. Un anno e si inabissarono. Nella Voce militavano tra gli altri ex salariati del Cavaliere che non gli perdonarono mai di essere finiti sul suo libro paga. Un paio di nomi: Marco Travaglio e Peter Gomez. Camparono con lui e campano contro dilui. Anche quellifiniti alCorriere della sera, come Beppe Severgnini. Nella sua “discesain campo”,Berlusconi era riuscito nel capolavoro di mettere insieme, ascoltando Vittorio Feltri,Gianfranco Fini e Umberto Bossi. Sdoganò l’Msi sin dalle elezioni comunali di Roma del dicembre 1993. Poi portò Fini al governo con tutta la sua truppafascista,che nonè uninsulto, per carità. Così come fece con Bossi, il quale pensò bene, dopo sei mesi, di ribaltareil governo di colui che allora chiamavano Sua Emittenza, ingannato da Oscar Luigi Scalfaro. Bossi peraltro è l’unico che dopo averlo tradito al grido di «Berluscaz!» ha compreso l’errore e dal 2001 è diventato il suo amico personale e politico più fidato. VOLTAFACCIA IN VIDEO In quella tornata magica datata 1994, Carlo Freccerofu innalzato a direttore in Rai, avendo costruito il suo curriculuma Fininvest.Ottimo professionista. Ma non gli ha perdonato la regalia al suo mentore, ed è finito tra i fan di Daniele Luttazzi, che dopo aver lavorato nelle televisioni del Berlusca, ha chiamato in Rai Travaglio per dargli del mafioso. La parabola di Fini è troppo nota per rievocarla di nuovo. Altri casi clamorosi? Vittorio Dotti, avvocato di Berlusconi, e poi accusatore insieme alla sua compagna Ariosto. Il duo Casini-Mastella, cui si perdonano molte cose per la simpatia e la guasconaggine. Da lui salvati quando il loro partito valeva lo 0,8% e messi in lista in Forza Italia, fatti ministri e presidenti della Camera, e sbarcati poi con nonchalance come Guardasigilli con Prodi o senatori con Renzi e Zingaretti. Siamo ancora in politica: al capitolo delfini. Berlusconi ne ha scelti parecchi. Ed è brutto quando seiinnalzato e poi, viste le scadenti evoluzioni, scaricato nell’acquario dei tonni. Ricordiamo Antonione, Scaiola, Bondi, persino apparve con rango simile la Daniela Santanchè. Noi guardiamo sempre le loro storie a partire dalla loro delusione. Ma dal punto di vista di Berlusconi, dove sta l’errore? Nell’averli scelti, e poi, avendo capito che non reggevano il compito, averli alla fine destinati alle seconde file? Buona la prima. Hanno giocato male, si perde. Alfano è un caso a sé, non ha detto mai una sola parola contro il capo, e ha dimostrato mollando tutto di saper reggere la concorrenza nella vita civile. Lo stesso dicasi per Verdini.Ma andarsene, se ne sono andati. Fuori della politica? Qui siamo al privato di nome Veronica.Bastala parola, lasciamo perdere. E il calcio? Silvio ha portatoilMilanin cima almondo. Egli ultrà si sonomessiadinsultarlo, ainvocarnela cacciata. Berlusconi, con Galliani, si è rifugiato nel Monza, vicino a casa, discute di terzini e forse di ballerine conilfratello Paolo. Quanta gente ad Arcore faceva la fila. Ne ricordo tanti. Personalmente, porto volentieri il suo orologio al polso. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Povero Berlusconi sfruttato e abbandonato
L’editoriale di Vittorio Feltri.
Caro Silvio Berlusconi, tardivamente le do un consiglio: non faccia mai del bene ad alcuno se non è sicuro di poterne sopportarel’ingratitudine. Me lo ripeteva sempre la mia mamma. E lei ha fatto del bene a tanta gente, alla quale ha regalato posti importanti nel partito e nelle sue aziende, gente che ora le voltale spalle,fuggealla ricerca di nuovi protettori e benefattori inesistenti. Quando Forza Italia eraflorida e mieteva consensi alla grande, lei aveva un codazzo di leccaculi impressionante. Tuttilì afarlefesta, a chiederle favori, occupazioni, denaro, raccomandazioni.Ho assistitoa scene pietoseindimenticabili: «Silvio qui, Silvio là, tu sei immenso, io ti stimo, ti adoro, ma ti prego, fammi questofavore e io ti sarò eternamente riconoscente». Ovvio, aveva un potere notevole, governava, era visto come un padreterno in grado di dispensare a sua volontà onori e poltrone. Nella massa dei postulanti abbondavano gli arraffonie specialmenteicretini, i più difficili da addomesticare, buoni a nulla e capaci di tutto. Poi, sintetizzando, la sorte, caro presidente, si è voltata e lei è rimasto con il cerino in mano. Ricorda quando sdoganò Gianfranco Fini in occasione delle elezioni del sindaco di Roma? Fu unamossaeleganteeintelligente.Malui,essendosi montato la testa come tutti coloro che non ce l’hanno, poi ha lasciato il Pdl nel tentativo di sfasciarleil governo. Il quale poi si sfasciò da solo, e da quel momento è stato uno sfacelo. Io sono stato perseguitato e bollato in modoingiurioso per aver utilizzato il cosiddetto metodo Boffo. Costui è scomparso e io sono ancora qui a rompere le balle. A lei Cavaliere le cose sono andate peggio: l’hanno distrutta grazie al metodo Berlusconi, una condanna per un reato mai commesso, visto che Mediaset non era più nelle sue mani. Poi la faccenda delle donne, come se uno non potesse scoparsi quelle che gliela danno volentieri. Non è finita. (…) segue ➔
(…) Allorché le fortune politiche sono scemate, i succitati lacchè si sono diradati fino a scomparire lentamente. E ora sono impegnati a ripararsi – illusi – sotto altri tetti ospitali. Silvio, ora ti do del tu, sei stato tradito dachiunque.Non devi prendertela con Salvini, un tuo concorrente, ma con i tuoi fedelissimi che si sono rivelati infedelissimi.Ominicchie donnicciole, profittatori e profittatrici.Andreotti una voltami disse: ho più fiducia in lei che è un nemico sincero che non in certi amici i quali, mentre ti lodano e ti sbrodano, affilano il coltello. Questo concetto vale pure per te. Ti sei contornato negli anni da un folto gruppo di traditori che adesso, nella bufera, smammano dimentichi di quanto, troppo, hanno ricevuto per servirti malamente. Non perdo tempo a fare dei nomi, li conoscono tutti, ma consentimi di menzionare almeno un cognome: Toti. Rammenti quando ti fotografarono accanto a lui, festante, perché promosso tuo consigliere principe? Ti ha compensato con una pugnalata nella schiena. E Forza Italia, a furia di scossoni, è andata a puttane. Stendo un velo pietoso sulla Ravetto nonché su vari deputati vicini alla Gelmini, un esodo disgustoso. Berlusconi è stato sfruttato ed abbandonato. Non si trattano così neanchei cavalli. E neppure gli asini.
Messaggini Whatsapp Chi è l’autore segreto della chat anti-Matteo?
Libero a pagina 2
La guerra, si sa, si combatte e si vince anche nelle retrovie. Guerra di propaganda, di notizie e retroscena sull’avversario di turno, chiacchiericci e gossip mirati a indebolire il nemico… Tutto un arsenale che non sta mancando nella guerricciola tra salviniani e berlusconiani, totiani e forzisti duri e puri. Le ultime raffiche partite in questa direzione consistono in alcune immagini e messaggi che negli ultimi giorni stanno passando da un cellulare all’altro di deputati e senatori leghisti a testimonianza dell’odio che dalle parti di Arcore si alimenta nei confronti del Capitano di via Bellerio. Una di queste immagini mostra un cartellone che ritrae la «Madonna di Montevergine», chiamata la protettrice dei «femminielli», che, vestita coi colori dell’arcobaleno, schiaccia col piede la testa del leader della Lega, Matteo Salvini. Sotto una scritta che non lascia spazio alle interpretazioni: «Resistenza». E non sarebbe l’unica forma di resistenza azzurra nei confronti dello scomodo alleato leghista che si sta divorando l’intera dispensa dei consensi moderati. Altre due immagini pescano nella mitologia partigiana contro il nuovo leader liberticida. La prima reca una scritta, buona per tutte le stagioni: «Oggi e sempre resistenza». La seconda aggiunge una connotazione di genere che molto fa discutere nelle chat leghiste: «La resistenza è donna», recita il motto. E, naturalmente, il quesito ricorrente riguarda chi sia l’autore di questi «stati di Whatsapp». Chiunque sia, di sicuro, non apprezza molto il ministro dell’Interno come si arguisce dal fatto che questi viene definito «ministro dell’inferno» in una didascalia che commenta una campagna di qualche mese fa della rivista Rolling Stone intitolata proprio «Noi non stiamo con Salvini». Chi è l’autore che si accanisce tanto su Salvini?, si chiedono i leghisti. Domanda anche più piccante visto che si dice che l’autore (o autrice) sia persona assai vicina al Cavaliere. © RIPRODUZIONE RIS
7 zingaraccia
L’ANTI-SALVINIANA Parla la “zingaraccia”: «Io e mio marito rubiamo tutto quello che ci capita» La signora ribadisce le minacce di morte al ministro. Il consorte chiede il condono per la villa abusiva costruita coi proventi di furti e truffe. Il leader del Carroccio: «Bella famiglia… Arriva la ruspa!»
Lorenzo Mottola su Libero in prima e a pagina 4
Il campo di via Monte Bisbino è una specie di Beverly Hills dei rom costruita alla periferia nord di Milano. Parliamo di decine di ville in muratura su due o più piani realizzate su terreni agricoli ovviamente non edificabili. (…)
(…) In pratica,i nomadi si sono comprati annifa dei campi e ci hanno fatto una città abusiva,dove risiede uncampionario umano degno del’Inferno di Dante, ma con una varietà di peccati anche superiore. Si segnalano perfino poligami: uno dei residenti aveva quattro mogli e diciassette figli. Qui abita la signora che per alcune strane coincidenze è riuscita a diventare la nuova star dell’informazione in Italia. Il tutto per aver minacciato di morte di frontealle telecamereMatteo Salvini,il qualeha replicato dandole della “zingaraccia”. Sul termine adottato dal ministro degli Interni Libero si è giàespresso e evitiamo di tornare sul tema, però può essere interessante raccontare chi è la nuova antagonista del politico più popolare d’Italia. A RUBARE «Rubavo tutto quello che mi capitava», ha raccontato la damina in un’illuminante intervista andata in onda a Stasera Italia «Portafogli, tutto. Sono sette anni ai domiciliari e ho combattuto per tutta la vita affinché i miei figli nonfaccianolamia stessa vita».Equindi aprele porte della sua umile dimora. All’ingresso troviamo un colonnatomodello tempiogreco, sormontatoda una tettoia di plexiglass (tanto per ricordare a tutti che comunque ci troviamoin un campo rom). All’interno domina il colore bianco, conarredamenti stile-Gomorra, candelabri di cristallo, divani angolari in pelle da una quindicina di persone e così via. Tutto ottenuto, conferma il marito, “truffando e rubando,ma mica agli italiani, solo agli svizzeri”. Un’uscita che haaperto unfronteanche con il governo elvetico: i cronisti del Corriere del Ticino da ieri si stanno occupando della faccenda. Tornando a Salvini, qualche benpensante ritiene che questoinsediamento dovrebbe essere spianato dalle ruspe quanto prima. Tra questi, perfino qualcheesponente di centrosinistra, come il sindaco di Milano Giuseppe Sala. Gli abitanti della favela a cinque stelle, tuttavia, non intendono mollare, per questo la “zingaraccia” s’è messa a minacciare il vicepremier. Senza pentirsene. «Certo che confermo, servirebbe una pallottola”, ha ribadito sempre di fronte alle telecamere di Rete Quattro la Signora « io penso che ce l’abbia con il nostro popolo, ci vuole sterminare». Teoria curiosa: sospettiamo che Salvini se la sarebbe presa per gli avvertimenti mafiosi anche sefosseroarrivate da una guida alpina. Ma il marito sembra non considerare importante la cosa e insiste: «Un condono, serve un condono». Ma il leader leghista non sembra ben disposto: «Che bella famigliola», ha commentato ieri sera su Twitter, «E c’è che li difende… Serve una democratica ruspa!». AI CONFINI DELLA REALTÀ Però qui da condonare c’è parecchia roba: allacci alla corrente elettrica abusivi, fogne abusive, tubature abusive. Nel campofino a qualche tempo fa c’era perfino una piccola stalla abusiva e un maneggio. Ci troviamo letteralmenteai confini della realtà, tra depositi dimerce rubatae nullatenenti che sfrecciano su Mercedes da 40mila euro. Quando arriva la polizia in questa zona spunta semprefuori qualcosa di bizzarro, dalle Jacuzzi ai camper spariti nel nulla a Napoli e trasportati in Lombardia. Qualche mese fa qui è stato rinvenuto perfino un chihuahua, sottratto alla sua padrona tre anni fa e oggi riconsegnato. La famiglia pensava che l’animale fosse morto. Pernon parlare dell’uomoarrestatoinloco per aver partecipato a una rapina a Roma nella quale è stata uccisa una signora di 89 anni. Meglio non girare la sera tra questi giardini, insomma. A meno che non si arrivi muniti di una ruspa, ovviamente. © RIPRODUZIONE RISERV
7 Travaglio
Travaglio
Mi scuso con i lettori per la nostra scelta eccentrica di aprire anche ieri la prima pagina con una notizia, anziché con l’ultima minchiata espettorata da Salvini spiaggiato con la bavetta agli angoli della bocca, l’ascella pezzata e la panza di fuori sul bagnasciuga del Papeete Beach. Noi, com’è noto, siamo strani e lo facciamo strano, il giornalismo: cioè con i fatti anziché con le parole. Certo, ci fa ribrezzo un vicepremier nonché ministro dell’Interno che insulta i giornalisti che gli fanno le pulci e dà della “zingaraccia” a una rom che gli ha augurato un proiettile in capo. Ne preferiremmo uno che: non usi i poliziotti per gli svaghi del pupo e le minacce a cronisti e contestatori; risponda anche alle domande che non gli piacciono; se una persona lo minaccia di morte, la quereli e, se proprio vuole dirle qualcosa, non usi riferimenti spregiativi alla sua etnia, ma aggettivi più appropriati e universali. Tipo “stronza”. Dopodichè, appena insigni colleghi si stracciano le vesti per le minacce “mai viste” alla “libera stampa” (mai vista pure quella), capiamo subito perchè un simile cazzaro veleggi nei sondaggi verso il 40%: perchè avevano fatto ben di peggio altri due cazzari prima di lui, B. e Renzi. Solo che ai tempi di B. era come oggi: si indignavano soltanto quelli di sinistra. E ai tempi di Renzi non si indignava nessuno, perché destra, centro e sinistra erano sdraiati ai suoi piedi (lo ricorda a pag.4 Antonio Padellaro, che l’altra sera in tv ha osato rammentare le intemerate del bulletto ai pochi che osavano contestarlo, e s’è subito beccato una minaccia di querela). Ormai Salvini conosce bene i suoi polli, e li usa a suo piacimento sparandone una al giorno, nella certezza che l’indomani finirà su tutte le prime pagine e il giorno appresso tutti lo intervisteranno per sapere se sia pentito della vaccata del giorno prima. Sempre meglio che lavorare, attività ormai vivamente sconsigliata ai politici di successo: infatti, nel governo giallo-verde, chi lavora perde voti, punti e copertine, mentre chi cazzeggia stravince. Ma noi siamo strani e, anziché inseguire Salvini col suo Trota sull’acquascooter, preferiamo inseguirlo sui fatti. Tipo quello che abbiamo scoperto ieri a proposito del Tav Torino-Lione. Che, per inciso, non è un Tav: dagli anni 90 il treno ad alta velocità per i passeggeri è stato riconvertito, per mancanza di passeggeri, in un treno ad alta capacità per le merci, peraltro anch’esse scarsine. E non è neanche un Torino-Lione, visto che non è previsto alcun collegamento fra le due uscite del buco da 57,5 km. nelle Alpi, quelle di Bussoleno e di Saint Jean de Maurienne, e rispettivamente Torino e Lione. SEGUE
M a questo era già noto, almeno a chi legge il Fatto. La novità è che il non Tav non Torino-Lione costerà all’Italia circa 3 miliardi in più di quel che ci avevano raccontato. Cosa che, se l’avessero saputa i tecnici incaricati dal Ministero dei Trasporti dell’analisi costi-benefici sull’opera, avrebbe portato il loro esito negativo non più a 7 miliardi, ma a 10. E, calcolando solo i costi per l’Italia, escludendo quelli per Francia e Ue, non più a 3, ma a 6 miliardi. Cioè: se l’avesse saputo il premier Conte, quando ha annunciato che il Tav si deve fare, salvo un voto del Parlamento italiano che disdetti unilateralmente il trattato italo-francese, non si sarebbe azzardato a dire che ormai fermare le gare di appalto costerebbe più che vararli alla luce di un presunto cofinanziamento europeo al tratto ferroviario italiano “che costa 1,9 miliardi”. Vediamo perché. Ancora l’a l tr o giorno l’ex ministro dei Trasporti Pd Graziano Delrio, che è un po’ il Lunardi di Renzi, raccontava a Repubblica che “l’opera, così come finanziata dai governi di centrosinistra, ha visto una forte riduzione dei costi che sono passati nella tratta in Val di Susa da 4 miliardi (in realtà 4,6, ndr) a 1,9. Quindi abbiamo fatto quello che era utile per evitare sprechi, utilizzando nel progetto in gran parte la linea storica, non come volevano Berlusconi e la Lega”. Peccato che sia falso. Al Cipe, cioè al Comitato interministeriale programmazione economica, del project review di Delrio (governo Gentiloni) esiste solo un’ “informa – tiva”: un foglio di carta, mai dettagliato né approvato né deliberato come progetto definitivo. Un pour parler. Una supercazzola. Dunque, per il Cipe, cioè per il governo, la tratta italiana di collegamento al tunnel di base resta quella vecchia di B.&Lega, col potenziamento della B us s ol e n o- A vi g li a na – O rb a ss ano e la Gronda di Settimo Torinese che bypasserebbe il capoluogo e confluirebbe sulla linea Tav Torino-Milano. Costo: 4,6 miliardi: quasi 3 in più di quel che si pensava dando per fatto il progetto “low cost!” di Delrio, che tagliava la Gronda fermando i lavori a Orbassano. Non solo, ma risultano stanziati solo 146 milioni: il 3,1% del totale. Ora come farà il governo ad autorizzare Telt, la stazione appaltante italo-francese, a lanciare i bandi di gara senza soldi e con la prospettiva di dover spendere 3 miliardi in più del previsto? Boh. E su cosa voteranno mercoledì 7 al Senato i partiti pro e anti Tav? Ri-boh. Si attendono lumi dal ministro competente (si fa per dire) Toninelli, da Conte, ma soprattutto dagli ultimi convertiti al dogma dell’Immacolata Costruzione: i leghisti. Siccome già faticano a indicare le coperture per la Flat Tax, che richiederebbe 15 miliardi sull’unghia in aggiunta ai 23 necessari a scongiurare l’aumento dell’Iva, li vorremmo tanto vedere alle prese con la ricerca di altri 4,5 miliardi (4,6 meno i 146 milioni già stanziati) per la linea nazionale del Tav. Che dice il Salvini spiaggiato? Rinuncia a un’o p era inutile e dannosa che, ancor prima di partire con 30 anni di ritardo, si sta già rivelando un pozzo senza fondo? Oppure taglia la Flat Tax da 15 a 10 miliardi? Nel caso, potrebbe chiamarla Flat Tav.
8 Salvini basra dire no
Salvini: basta dire no dalla Tav alle trivelle o parola agli italiani
Dalla Romagna parte la sfida a M5S e all’Europa: tasse giù, piaccia o meno
«Grazie a spiagge sicure i vu’ cumpra’ ora non rompono più»
Messaggero p.4
9 Corinaldo
La banda dello spray non si fermò dopo la strage in discoteca “Ci ha preso la mano” Arrestati 6 ragazzi tra i 19 e 22 anni, tutti del Modenese Indagini su 60 rapine: fruttavano 15 mila euro al mese
I dettagli svelati al telefono: le tecniche, la concorrenza con le altre bande
FRANCESCO MESSINA Direttore centrale dell’anticrimine della Polizia “Dopo Piazza San Carlo, molte organizzazioni simili anche all’estero” “Dalle indagini di Torino siamo arrivati ad altre gang I colpi finivano sui social”
Due bande specializzate nei “furti con strappo” I baby ladri tra droga, trap e abiti firmati
Stampa p.8
La Banda del sabato sera. Una «baby gang» seriale dietro la strage alla discoteca di Corinaldo. Arrestati sei ventenni di Modena. Agivano nei fine settimana nel centro nord e anche all’estero. Lo spray al peperoncino come arma per rapinare giovani
L’apertura del Manifesto
DAL SOTTOBOSCO DELLO SPACCIO ALLA RIVALSA SOCIALE Una galassia criminale che cresce nel ricco nord
Gianfranco Bettin sul Manifesto a pagina 3
Arrestati i 6 killer dello spray «Banda di rapinatori seriali» Scatenarono il panico nel locale per derubare i clienti A segno altri 37 colpi (uno persino a Disneyland)
LE INTERCETTAZIONI CHOC «Mamma mia fra’, ci aveva preso la mano Gas, gas, gas». «Gli sbirri sono dei figli di p…» Delirio di onnipotenza tra i membri della banda che si facevano beffe del terrore dei ragazzi: «Tossivano tutti, sono saltato sui corpi di tre persone»
«Sono finiti in galera. Era ora» E il trapper torna sotto accusa I parenti delle vittime: «Bene così, ma in carcere devono andare pure gli organizzatori di quel concerto-truffa»
Giornale p.12
10 migranti
Migranti, mobilitazione di Ong verso la Libia Stop a Lampedusa, Alan Kurdi punta Malta
PER LA SPAGNOLA OPEN ARMS CHE HA A BORDO 123 PERSONE SEMBRA PROFILARSI UNO SBARCO A VALENCIA
Messaggero p.6
Sulla rotta balcanica trucchi delle Ong slovene (finanziate dal governo) Ieri altri 46 arrivi a Trieste. Migranti aiutati dai «passeur» sponsorizzati dall’esecutivo
Giornale p.8
Minniti “Sui migranti non si gioca a battaglia navale Ora è emergenza umanitaria”
In Libia la situazione è fuori controllo, non è più un porto sicuro Serve un’azione Onu dopo la chiusura dei campi di Tripoli Con l’interdizione alle Ong si è lasciato un gigantesco buco nel Mediterraneo rischioso anche per la sicurezza italiana
Il decreto sicurezza bis è una aberrazione giuridica. L’obiettivo è sfiduciare Salvini, non dividiamoci su chi raccoglie le firme
Giovanna Casadio su repubblica a pagina 11
«L’Italia non giochi a battaglia navale davanti alla Libia, siamo a un passo dall’emergenza umanitaria, mentre Salvini discute come se fosse sempre al Papeete Beach. Il mondo è un po’ più grande del Papeete». Marco Minniti, l’ex ministro dell’Interno del Pd, giudica «inaccettabile» il comportamento del suo successore al Viminale. Minniti, lei è stato il ministro degli accordi con la Libia per limitare gli sbarchi. Oggi ritiene che i migranti soccorsi vadano rimandati in quel porto? «La Libia non è un porto sicuro. In questo momento poi, c’è una guerra civile: non possono essere rimandati là. Né del resto il centrosinistra ha mai fatto operazioni di respingimento. Fino a luglio scorso nel Mediterraneo centrale c’era un sistema di salvataggio che coinvolgeva la Guardia costiera italiana, le Ong e le missioni navali Thesis di Frontex e Sophia. Adesso quel dispositivo è stato smontato. Il governo italiano non si occupa più del Mediterraneo centrale. Le Ong sono oggetto di una drammatica interdizione. Con questa logica spietata e brutale si è lasciato un gigantesco buco nero nel Mediterraneo, rischioso anche per la sicurezza italiana». Tuttavia per il suo successore al ministero dell’Interno, il bilancio sull’immigrazione è positivo. «Il presupposto su cui questo governo e il ministro dell’Interno avevano costruito l’approccio sull’immigrazione sta venendo meno. Non solo l’immigrazione non si cancella, perché non può essere cancellata. Ma c’è un dato preoccupante: sono aumentati in Italia gli sbarchi gestiti da scafisti. Solo l’8% degli arrivi è frutto delle azioni di ricerca e salvataggio in mare delle Ong. Le immagini di questi mesi sono quelle della Sea Watch 3 bloccata per 19 giorni in mare. O la nave Gregoretti che, a un anno di distanza dalla Diciotti, si ritrova a vivere lo stesso copione: sequestrati i migranti in una nave militare italiana, ostaggio gli stessi militari dell’equipaggio. Ecco il quadro di un conflitto istituzionale senza precedenti tra corpi dello Stato, infliggendo inoltre una immeritata umiliazione alla Guardia costiera E poi c’è la questione rimpatri. Dovevano essere 500 mila in poche settimane, ci vorrebbero 70 anni . Se non fosse una tragedia, perché si parla di vite umane, sarebbe una farsa. L’unica cosa che può fare una democrazia è governare i flussi migratori contrastando i trafficanti di essere umani e aprendo canali legali». Ma cosa è cambiato in Libia da quando il governo di cui lei era parte si accordò con l’esecutivo di Tripoli? Bartolo dice che fu un errore considerare allora la Libia porto sicuro. «La situazione in Libia si è deteriorata. Il governo di Tripoli, dopo il bombardamento al campo di Tajoura, ha deciso di chiudere 3 campi di accoglienza. Non può essere inteso dall’Europa e dall’Italia come un ricatto, ma è una drammatica realtà che è a un passo dal diventare fuori controllo trasformandosi in una emergenza umanitaria senza precedenti. Nel momento in cui la Libia chiude i centri di accoglienza, l’Italia e la Ue non possono fare finta di nulla. Quei centri di accoglienza devono essere svuotati in collaborazione con l’Onu. E vanno rilanciati i corridoi umanitari e i rimpatri volontari assistiti». Per Salvini il pugno duro è l’unica politica di immigrazione. E i sondaggi gli danno ragione. «L’approccio di Salvini è una “strategia della tensione” comunicativa. Ha descritto l’immigrazione come fuori controllo, ma con il centrosinistra gli sbarchi erano già diminuiti dell’80 per cento. È servita ad alimentare la gestione cinica della paura per il consenso elettorale. Se ne esce non sottovalutando la questione della sicurezza, ma coniugandola con l’umanità. Occorre avere capacità di relazioni internazionali». L’Italia in questo momento rischia un flop anche in Europa, tardando persino a indicare il “suo” commissario Ue. «Questo governo ha portato l’Italia in una condizione di irrilevanza internazionale. Evidente che l’Italia non può essere lasciata sola sull’immigrazione e che l’Europa deve fare molto di più. Ma l’immigrazione è stata utilizzata come arma contro la Ue. Ci siamo isolati. Non abbiamo la capacità di confronto a cui ci ha richiamati anche la presidente von der Leyen». Sicurezza bis: sul provvedimento può cadere il governo? «Quel provvedimento è una aberrazione giuridica. Cancella l’umanità e non garantisce la sicurezza. Lega e 5Stelle mi ricordano i ladri di Pisa, che litigavano al mattino e poi la sera lavoravano insieme. Questo governo ha una guida nazional populista in cui le cinque stelle stanno diventando ornamento di un monocolore leghista». È giusto sfiduciare Salvini, chiedergli di dimettersi? «Sì. E’ inaccettabile che un ministro non risponda al Parlamento.Non è solo maleducazione istituzionale, è qualcosa di più grave: è uno slittamento delle regole di democrazia parlamentare. Bene la raccolta di firme del Pd. Su queste cose non ci si divide, conta il risultato: moltissime firme. Con la mozione di sfiducia va fatta chiarezza su Moscopoli: il ministro dell’Interno è autorità nazionale di pubblica sicurezza, non ci può essere ombra di sospetto che sia in una condizione di soggezione psicologica, economica e politica di una potenza straniera. Ne va della sicurezza dell’Italia. Nella conferenza stampa balneare, ho visto un ministro sull’orlo di una crisi nervi. Il ministro della paura, sembra impaurito».
10 carabiniere
Il mistero delle telefonate prima di incontrare i killer
Per gli avvocati degli americani punti da chiarire sulle chiamate di quella notte `La difesa non chiederà la scarcerazione in attesa di completare le sue indagini
BRUGIATELLI RISCHIA IL FAVOREGGIAMENTO «HA AIUTATO I DUE RAGAZZI DICENDO AI MILITARI CHE ERANO AFRICANI»
Messagfero p.11
IL DELITTO DELLA DROGA Le ambasciate trattano lo scambio di prigionieri tra Italia e Stati Uniti Elder e Hjorth dopo la sentenza tornerebbero negli Usa. E Roma riavrebbe il velista Forti
Giornale p.15
La sarzanini recupera oggi il buco di ieri dal Messaggero
La rete ditelefonate segrete prima della morte di Cerciello Roma, il fitto scambio di contatti. Il giallo dell’accordo con i due americani
A La sera dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega ci sono state diverse telefonate di cui non si conosce ancora il contenuto. La traccia dei contatti è negli atti processuali, ma adesso si sta cercando di ricostruireidettagli dell’accordo tra il mediatore dei pusher Sergio Brugiatelli e i due americani accusati del delitto. E soprattutto quelli con i carabinieri. Un grammo di coca Rimane infatti tuttora oscuro il motivo che ha spintoimilitari adassecondare le richieste di Brugiatelli, nonostante fossero consapevoli che lo scambio prevedesse la consegna di un grammo di cocaina. Già quel particolare era infatti sufficienteadimostrare che l’uomo era al centro di un traffico illecito. E dunque non si comprende perché— invece di denunciarlo — si sia deciso di pianificare un intervento per recuperare il suo borsello. Un’operazione alla quale Cerciello ha partecipato pur non avendo con sé la pistola d’ordinanza. La ricostruzione, così come emersa grazie all’incrocio dei dati contenuti nelle annotazioni di servizio e delracconto dei testimoni, dimostra che prima di arrivare all’appuntamento con i due americani ci fu un fitto scambio di contatti. Il gip sottolinea che «una delle telefonate effettuate da Brugiatelli alla presenza dei carabinieri Andrea Varriale e Cerciello Rega, fu registrata». Ma poi dà conto di altri contatti effettuati da diversi telefoni. E soprattutto evidenzia le chiamate al 112 specificando che a un certo punto «Cerciello venne contattato sulla propria utenza cellulare dall’operatore della centrale del Comando del gruppo Roma». Perché tanto impegno? Che cosa c’era di così prezioso in quel borsello da determinare prima la mobilitazione dei carabinieri fuori servizio che si trovavano in quella piazza di Trastevere e poi l’operazione della pattuglia in borghese che dopo aver partecipato alla trattativa decise di andare nel quartiere Prati per effettuare lo scambio? Il ruolo del mediatore Anche se davvero non è un complice degli spacciatori, Brugiatelli ha un «profilo» che dovrebbe convincerlo a tenersi lontano dalle forze dell’ordine. E invece la notte tra il 25 e il 26 luglio è stato lui a chiamare i carabinieri più volte, a insistere per avere il loro aiuto. Qualche giorno fa ha deciso di diffondere un comunicato per negare di essere un confidente, maèproprio il comportamento tenuto dopo lo scippo ad avvalorare l’ipotesi che in realtà fosse consapevole di non avere nulla da temere. E sarebbe stato proprio lui, dopo l’omicidio del vicebrigadiere,aparlare della pista che portava ai nordafricani. Neiprossimi giornii pubblici ministeri coordinati dal procuratore Michele Prestipino valuteranno la sua posizione e analizzeranno la sequenza delle telefonate di quella notte.I«punti oscuri» di cui ha parlato lo stesso magistrato non sembrano affatto chiariti. Compresa la dinamica dell’aggressione terminata con le 11 coltellate che Lee Finnegan Elder ha ammesso di aver inferto al vicebrigadiere. Anche per questo si continua a verificare se ci fosse almeno un’altra telecamera accesa e finora sfuggita ai controlli.
10 pecorino
Sardegna, si riaccende la guerra del pecorino
`I pastori pronti a far scattare di nuovo la protesta, non piace il nuovo piano del consorzio: «Cambia poco, noi penalizzati»
Forze dell’ordine in allerta per scongiurare azioni violente nel pieno della stagione turistica. Come quelle di febbraio
Messaggero p.15
ROMA «Tenetevi pronti, ogni momento è buono e la protesta sarà improvvisa». Il passaparola tra i pastori sardi è continuo e ancora maggiore la preoccupazione tra le forze dell’ordine che temono la replica delle violente manifestazioni di febbraio quando le strade della Sardegna vennero messe a ferro e fuoco dai produttori di latte che protestavano per i prezzi troppo bassi pagati dai produttori di Pecorino Romano (50-60 centesimi contro almeno l’euro richiesto). In piena stagione turistica, la replica delle proteste di febbraio (latte sversato nelle strade e blocchi stradali, paralisi di alcuni porti) potrebbe avere ricadute disastrose per l’intera regione. I produttori in inverno avevano cessato le proteste a fronte di tre impegni: il governo avrebbe ritirato il prodotto in eccedenza per fare alzare i valori; un nuovo regolamento del consorzio, attualmente sbilanciato a favore dei caseifici; una anticipazione immediata ai pastori di 72 centesimi al litro con conguaglio a novembre. LA DELIBERA La delibera sul ritiro – dopo mesi di sollecitazione – è arrivata solo questa settimana: il ministero dell’Agricoltura – in accordo con i ministeri del Lavoro e degli Affari sociali – ha stanziato 14 milioni per ritirare le eccedenze tramite aste pubbliche. Ma passeranno altri mesi per l’operatività prima che l’Agea stili i regolamenti con i criteri per comprare e poi per donare in beneficienza (e a chi?) il pecorino. In alto mare anche la questione delle anticipazioni. Anzi c’è il rischio che sia un boomerang perchè il pecorino sardo dop continua ad essere venduto a valori ben lontani dagli auspicati 8,20 euro al chilo che avrebbero consentito ai caseifici di portare a 1,02 al litro il prezzo del latte. Nelle maggiori borse merci di venerdì il formaggio sardo è stato venduto mediamente ad appena 6,65 euro al chilo. Quindi a novembre gli allevatori potrebbero trovare la cattiva sorpresa di dover restituire gli anticipi ricevuti. Infine – ed è il capitolo più controverso – l’approvazione mercoledì delle nuove norme del consorzio della Dop. Gli allevatori se da un lato annunciano un pacifico ricorso all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, dall’altro minacciano nuove pesanti proteste. Eppure nel consorzio ogni loro voto varrebbe quanto quello dei produttori: con 12 mila allevamenti e 2,6 milioni di pecore garantiscono una produzione di 3 milioni di quintali di latte, che dopo la trasformazione in pecorino romano dop, vale 250 milioni di euro e per il 70% è esportato nel mondo. IL MECCANISMO «Il nuovo piano – dicono i portavoce della protesta Nenneddu Sanna e Gianuario Falchi – apparentemente sembrerebbe più rigido del precedente, ma in realtà è stato studiato in modo tale che ogni caseificio si tenga ben strette le proprie quote storiche. Pensiamo che il nuovo piano non modifichi sostanzialmente la situazione: così noi pastori restiamo asserviti a un sistema che non ci consente di valorizzare il nostro latte». Secondo i pastori i caseifici troverebbero facilmente i meccanismi per produrre in surplus in violazione delle regole e risparmiando proprio sul valore di acquisto del latte. «Noi – spiegano i pastori – vorremmo invece un maggiore potere contrattuale con un meccanismo che ci consenta quando ci spostiamo da un trasformatore ad un altro di portarci dietro oltre al nostro latte anche la quota percentuale che può essere trasformata in Pecorino Romano». C
10 formigoni
La raccolta fondi online per aiutare Formigoni Mobilitazione su Facebook: all’ex governatore ora ai domiciliari tagliati pensione e vitalizio
Giornale p.6
La sorte dell’ex governatore della Lombardia Contro Formigoni odio senza limiti: vogliono che torni in cella senza pensione
Fabrizio Cicchitto su Libero a pagina 7
Caro Direttore, credevo che ci fosse un limite a tutto, ma invece non è così. Non solo, come lei ha rilevato qualche giorno fa, a Formigoni è stata tolta la pensione di parlamentare, ma in precedenza gli è stata annullata anche quella regionale. Adesso però, forse per bilanciare le cose, la procura di Milano ha anchefatto ricorsoin Cassazione contro la concessione degli arresti domiciliari. A ben vedere forse quest’ultima iniziativa potrebbe avere un’interpretazione se non benevolaalmenologica: vistoche Formigoni è stato privato di ogni reddito, permantenersiallorala procuraauspica che lo Stato lo mantenga a proprie spese per alcuni anni attraverso il regime carcerario. Ciò detto, èevidente che esistonoforze potenti che non perdonano a Formigoni due cose: di aver avuto per molti anni un ruolo e una visibilità straordinari e di aver reso la Lombardiala regione all’avanguardia in Italia per ciò che riguarda la sanità. In questo quadro sul piano giudiziario è potuto anche avvenire che tutti coloro che per dovere d’ufficio hanno firmato in prima battuta (Formigoni li ha controfirmati) i provvedimenti messi sotto accusa, sono stati assolti. Formigoni invece non solo è stato condannato a 5 anni e 10 mesi, ma gli è stata tolta anche ogni risorsa per vivere. Facciamo una domanda amagistrati eautorità parlamentari e regionali. In ogni caso l’autorità giudiziaria non ha potuto condannare Formigoni all’ergastolo per dei limiti non aggirabili del codice penale che condiziona l’entità della pena e i reati commessi: di grazia, allora come dovrebbe vivere Formigoni fuori dal carcere? La domanda è legittima perché non è affatto scritto da nessuna parte che egli possa avere amici personali in grado di dargli un tetto e due pasti al giorno. Soloil combinato disposto di unamentalità totalitaria di stampo stalinista e di una soggettività inquisitoria e persecutoria di stampo controriformista (quella di cui parla Paolo Sarpi nella Istoria delConcilioTridentino), che vuole torturare il peccatorefino alla sua distruzione per redimerlo, potrebbero aver architettato la combinazione di similimarchingegnigiuridicied economico-finanziari. Siccome nei confronti di Roberto Formigoniil puntolimite è statolargamente raggiunto e superato, ci auguriamo che la ragionevolezza possa riemergere. ©
10 bibbiano
Non c’è solo il caso Bibbiano. I dati parlano chiaro: è strage degli innocenti… Cinquecento bimbi dati in affido e spariti nel nulla Duemila quelli fuggiti, quasi 5mila quelli con problemi di alcol e droga. Ronzulli (Fi): sopralluoghi in tutte le strutture
Giuliano Zulin su Libero in prima e a pagina 9
Parlateci di Bibbiano. Sì, ma anche di quello che succede nel resto d’Italia. Nel comune reggiano l’inchiesta “Angeli e demoni” ha scoperchiato un mondo brutto, respingente, inimmaginabile. Eppure, è da anni che va avanti la tratta dei minori. Perfino il Parlamento se n’è occupato tempofa. Gennaio 2018. Un’indagine conoscitiva aveva spiegato per filo e per segno il sistema. Bucato. Così come presentava delle falle la stessa relazione presentata (…) segue ➔ a pagina 9
(…) alla Commissione Infanzia: pochi dati e vecchi, poichè gli enti locali non comunicano molto, ognuno fa per sè (in questo caso c’è l’autonomia) e alla fine non è possibile avere una fotografia completa dei problemi, emersi proprio dall’inchiesta di Reggio Emilia. Però già dai pochi numeri a disposizione si capiva – e non si è intervenuto – che qualcosa nonandava. In queste settimane abbiamo raccontatolo strapotere degli assistenti sociali nel togliere i minori alle famiglie. Però «di grande interesse – si legge nell’indagine conoscitiva parlamentare – sono anche i dati relativi ai minori dimessi dai presidi residenziali per tipo di destinazione e ripartizione geografica. Di questi, su un totale di 14.633, 4258 hanno fatto rientro nella propria famiglia di origine, quasi altrettanti – 4055 – sono stati trasferiti in altre strutture residenziali, 546 sono stati dati in affidamento etero-familiare, 289 in affidamento intrafamiliare; solo 1151 sono diventati autonomi,mentre ben 2360 si sono allontanati spontaneamente o sono fuggiti dalle strutture». C’è poi una ulteriore voce che si vede nelle tabelle che fa impressione: 442 minori non si sa dove siano finiti, «destinazione ignota» è la denominazione. Spariti,insomma. Volatilizzati. Senza tuttavia specificare l’età del minorenne: se si tratta di un 17enne si può anche comprendere che possa aver tolto il disturbo dalla sera alla mattina. Ma se il bambino in questioneavesse 2-3 anni? Difficileimmaginare una fuga solitaria, giusto? Clamorosala classificazione deiminori ospiti: «Per quanto riguarda la tipologia di disagio dei minori nelle strutture, si rileva che la maggior parte di essi non presenta problematiche specifiche; infatti su un totale di 19.955 ospiti, quelli per cui non sono stati riscontrati particolari disagi sono pari a 11.735». Perché allora sono stati allontanati da mamma e papà? «Quelli che presentano disabilità e disturbi mentali – si scopre dalla relazione della Commissione Infanzia – sono in totale 3.147; mentre quelli con problemi di tossicodipendenza, alcolismo o altri disagi analoghi, sono pari a 4.917». Una cifra spaventosa. «A questi si devono aggiungereiminori stranieri (complessivamente pari a 8129, di cui 5938 maschi e 2191 femmine) di cui 249 maschi e 143 femmine presentano disturbi mentali o disabilità di vario genere.Mentre 1669minori stranieri di sesso maschile presentano invece problemi di tossicodipendenza, alcolismo o altri disagi». Tantissimi, troppi. MENO FONDI L’azzurra Licia Ronzulli, attuale presidente della Bicamerale per l’Infanzia, ha annunciato che «farà un tour dell’Italia per visitare le case famiglia e i tribunali dei minori, come segno tangibile di grande attenzione verso chi è indifeso e deve essere protetto con strumenti legislativi adeguati e con la presenza costante delle istituzioni». La senatrice di Forza Italia metteràa disposizione della nascituraCommissione d’inchiesta sugli affidi «una sorta di diario operativo» – come resoconto della sua iniziativa -in cui «saranno registratele eventuali criticità riscontrate, per individuare così soluzioni percorribili, in un’ottica di miglioramento dei servizi a tutela dei minori e per una formazione mirata di personale adeguato». Bene, era ora. Evviva. Forse però per stanare i furbetti degli affidi basterebbe tagliare la diaria per minore accolto – dai 70 ai 400 euro al giorno – che finiscono nelle tasche di chi gestisce le comunità. Lo stesso metodo che Salvini ha applicato alle coop ospitanti migranti. Con meno soldi in ballo, ci sarebbero meno casi Bibbiano, e più attenzione alle pratiche. Lavorare per nulla, o tanto per fatturare, non piace nemmeno agli assistenti sociali. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il governatore Zaia ha annunciato un’indagine Solo in Veneto perse le tracce di 102 ragazzi Il 27% dei minori resta in affido oltre i due anni previsti dalla legge. Molti quelli sradicati dalle loro regioni
Alessandro Gonzato su Libero a pagina 9
Centodue bambini “spariti”. Centodue minorenni tolti alle famiglie, portati in comunità, e chissà poi dove andati a finire. In Italia non c’è solo Bibbiano. Anche in Veneto emergono situazioni su cui andrebbe fatta chiarezza. Precisiamo:a oggi non c’èla prova di nessun “sistema” illegale dietro a questi affidi. E però anche a Nordest cominciano ad affiorare casi particolari. Lo dicono i drammi vissuti da certe famiglie perbene alle quali sulla base di relazioni sbagliate sono stati strappati i figli. I dati tratti dalla relazione del “Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza” non possono che far riflettere. Si basano su documenti del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, della Commissione parlamentare per l’infanzia e della Regione Veneto. Dicevamo che di 685 minori dati in affido ai servizi residenziali (ossia in comunità) dal primo gennaio al 31 dicembre 2017, solo 193 sono poi tornati a casaloro, e di 102 la destinazione è ignota. Proprio così. E non si sa se si tratti di ragazzini diventati nel frattempo maggiorenni o di bambini piccoli, i quali potrebbero essere finiti nelle mani di delinquenti senza scrupoli. Parte di questi 102 potrebbero essere ancheminori stranieri non accompagnati, ma le informazioni oltre a essere vecchie di due anni non sono complete e non esiste una banca datiintegrata. Inoltre nel caso specificoi dati non tornano, perché secondo un’altra statistica ricavata dalla medesima analisi i minorenni usciti dalle comunità del Veneto nello stesso periodo sono 662 e non 685: ne mancano 23, che fine hanno fatto? Sempre al 31 dicembre 2017, 35 bambini fino ai 2 anni si trovavano all’interno di strutture d’accoglienza. Quelli con meno di 10 anni erano 156. E però il quadro stride con la legge 184 del 1983 (art.2 comma 1) la quale stabilisce che «il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo (…) è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o a una persona singola in grado di assicurargli (…) le relazioni affettive di cui ha bisogno». E il comma 4 ribadisce: «Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento a una famiglia, ove ciò non sia possibile,medianteinserimentoin comunità di tipo familiare». LE COMUNITÀ Un quarto dei minori accolti in strutture del Veneto, poi, provengono dafuori regione, quindi anche da molto lontano rispetto a casa loro. Perché isolare del tutto bambini e ragazzini dai luoghi dove sono nati? Un altro dato: 177minori su 658 presenti nei servizi residenziali, dunque il 27%, sono rimasti in comunità per più di due anni benché la legge vieti di prolungare l’affidamento oltre tale periodo, a meno che la sospensione dell’affido «rechi pregiudizio alminore». Il 27% è da considerarsi un’eccezione? Alle comunità cheaccolgonoiminori,inmedia, vengono erogati dai 70 ai 100 euro per ciascun ospite. Quasi tutte le regolamentazioni locali prevedonola possibilità diinnalzarela quotafino a 400 euro in presenza di neonati,minori disabili o con problemi di salute. Intorno agli affidi girano una montagna di soldi. E spesso dove ci sono tanti quattrini, ma per fortuna gli onesti sono altrettanti, si nascondono anche farabutti. È doveroso investigare dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Il governatore del Veneto, Luca Zaia ha avviato un’indagine interna all’ospedale di Padova su un clamoroso caso verificatosi nell’ex Serenissima. Parliamo di una giovane coppia veneziana a cui per 9 mesi è stata tolta la potestà genitoriale. L’incubo è cominciatoil 24febbraio 2016 quandolamamma chiudendo il portone di casa ha fatto cadere dall’ovetto la figlioletta di 40 giorni. La piccola ha subito un brutto taglio alla lingua ed è stata operata nel reparto di Pediatria dell’ospedale di Padova. L’intervento è andato bene e però, evidenzial’avvocato difensore dellafamiglia, Matteo Mion, la mamma a sua insaputa e senza il proprio consenso è stata trasferita per 45 giorni con la bimba nel reparto dell’unità di crisi denominato “Casa del bambinomaltrattato”. Due settimane dopo nei capelli della bambina sono state trovate tracce di cocaina, il padre è risultato negativo, per la madre è emersa una positività ma semplicemente al principio attivo di un antidolorifico che le era stato somministrato in ospedale dopo il parto cesareo. Nonostante ciòil tribunale deiMinoriil 9 aprile ha trasferito la bimba in una struttura protetta insieme alla mamma. Sennonché grazie all’avvocatoMion è stata commissionata una consulenza tecnica per accertare se la piccola fosse stata maltrattata o meno, l’esito ha chiarito che si era trattato di un incidente, è stata confermata la questione della cocaina, e il 21 novembre è stato annullato l’affidamento ai servizi sociali. L’avvocato dellafamiglia ha chiesto all’ospedale di Padova 100mila euro di risarcimento: «Nonostante le evidenze istruttorie abbiano dimostrato le schiaccianti ragioni dei genitori, la struttura non vuole rifondere i terribili danni biologicimorali, esistenziali e patrimoniali. Dopo Zaia si muova anche la procura per verificare l’operato dei sanitari».
«Bibbiano diventi un’occasione» L’avvocato che difende i genitori dei bambini strappati alle famiglie: serve subito un disegno di legge, oggi chi viene accusato non ha diritto di difendersi. Riaperta anche l’inchiesta sui “Diavoli della Bassa”
LUCIA BELLASPIGA su Avvenire a pagina 10
Il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, Luca Ramponi, ha confermato gli arresti domiciliari per il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, ora sospeso dalla Prefettura. La decisione rientra nell’ambito dell’inchiesta “Angeli e Demoni” su un presunto giro di affidi illeciti dei bambini da parte dei servizi sociali della Val d’Enza. Carletti, che si è autosospeso dal Partito democratico, è accusato di abuso d’ufficio e falso ideologico e si trova agli arresti domiciliari dal 27 giugno. Immediata la replica dell’avvocato Giovanni Tarquini, difensore del sindaco. «C’è in questa vicenda un costante stravolgimento della realtà dei fatti e una palese confusione dei ruoli e delle competenze di amministratori e tecnici» ha detto. Intanto, dalla Procura di Modena arriva la notizia della riapertura delle indagini su un altro filone legato agli intrecci tra minori strappati, presunti abusi, famiglie e servizi sociali. Si tratta dell’inchiesta allora chiamata “I Diavoli della Bassa Modenese”.
Lei difendeva i genitori, quando i loro bambini venivano portati via la notte da casa, la mattina da scuola. Era la fine degli anni ’90 e l’avvocato Patrizia Micai era il legale di alcune delle famiglie entrate nell’inchiesta allora denominata “I Diavoli della Bassa Modenese”, l’antecedente (quasi a fotocopia) di “Angeli e Demoni”, l’inchiesta aperta un mese fa dalla procura di Reggio Emilia a Bibbiano e dintorni. Stesse modalità, stessi operatori, ma allora meno interesse politico e mediatico: «Di quella vicenda si occupò Avvenire e pochi altri, noi rimanemmo soli e tutto fu coperto dall’oblio», spiega Micai. «Anche i genitori che furono assolti dalle accuse di abusi e di riti satanici non rividero mai più i figli. Figli che durante le sedute con gli operatori della Asl di Mirandola pian piano si convinsero di essere stati davvero abusati e di aver partecipato a riti sanguinari, e alla fine odiarono madri e padri. Se a Bibbiano stava succedendo lo stesso – e sarà la magistratura ad appurarlo – forse questa volta siamo arrivati in tempo per salvare i bambini. Ma allora bisogna guardare a Bibbiano come a una grande occasione». Bibbiano una occasione? Occasione epocale di riforma del sistema minorile. Se le accuse saranno confermate, sarà un momento storico sconvolgente ma anL che di rifondazione, purché la politica se ne stia fuori e si resti sul piano strettamente tecnico scientifico. Occorre un disegno di legge che sia immediatamente esecutivo e approvato da tutti i partiti, in modo serio, puntando tutti solo alla tutela del bambino. Per fare ciò, ci vuole un tavolo tecnico non composto dalle solite rappresentanze autoreferenziali, ma da chi veramente sa cosa fare: dopo la Bassa Modenese e Bibbiano è chiaro a tutti che il sistema di tutela del minore ha delle falle. Dire “che non accada più” non serve, se poi non si cambia. Nel concreto, da dove partire? Quando arrivano le segnalazioni, i tempi delle indagini devono essere brevi e certi, in modo che il bambino venga subito messo sotto la protezione del suo curatore speciale, figura che l’ordinamente già prevede ma che in Italia pochi si possono permettere. Il bambino avrà così il suo avvocato che lo tutela e che nomina i propri consulenti su elenchi di professionisti specializzati, pagati dallo Stato. Altrimenti resteremo sempre ostaggio dell’articolo 403 del Codice civile, quello che oggi dà ai servizi sociali l’enorme potere di decidere autonomamente se allontanare un bambino dalla famiglia, senza che questa possa fare nulla. Il 403 va soppresso: è così vago e passibile di interpretazioni che difficilmente i genitori e il bambino possono sostenere verità diverse da quanto affermano i servizi sociali. Manca proprio dal punto di vista procedurale questa possibilità. Di questa prima fase, la più drammatica, resta traccia? Dei primi incontri tra operatori e famiglia non sono previsti video e nemmeno uno straccio di verbalizzazione. Se io non ho acceso il registratore in tasca (come il padre che avete intervistato giorni fa a Bibbiano e che per questo si è salvato), come dimostro se ho ragione io rispetto al racconto dell’assistente sociale? Non parlo necessariamente di dolo, anche l’operatore bravo si può sbagliare, aver preso appunti male, scambiare una pratica con un’altra, succede. Allora la cosa più civile è applicare ciò che già la Carta di Noto prevede, che ci siano video, audio e verbalizzazioni di tutti gli incontri: quando ci si lascia si firma il verbale, così nessuno può aver capito male, è a tutela di tutti, anche degli operatori. Accade nelle riunioni condominiali, e non in un contesto così delicato? Altra falla: com’è possibile che i genitori siano assolti ma i figli vadano lo stesso in adozione, come nel caso noto di Angela Lucanto? Non può essere che ci siano tempi incoerenti tra il processo civile, che si occupa della parte dell’affidamento del minore, e il processo penale, che riguarda gli adulti e i presunti abusi intrafamiliari. Alla fine il bimbo resta fuori famiglia per anni, è devastante. Occorre trovare una modalità perché intanto continui ad avere un contatto con la famiglia, con nonni, zii, anche con i genitori sotto accusa, a meno che non sia il bambino a non volerlo. La domanda che dobbiamo farci è: è interesse del minore rimanere completamente lontano dalla sua famiglia? Se avrà il suo avvocato, sarà lui a stabilirlo. Badi bene che, nel caso il bambino non voglia vedere i genitori, è importante capire perché: perché è abusato? O perché è alienato? Plagiato? In stress post traumatico, proprio da allontanamento? Nella Bassa Modenese i piccoli subirono tali trattamenti da psicologi e assistenti sociali che si convinsero di aver ucciso decine di bambini e tuttora, da adulti, ne sono convinti. Altra riforma urgente? Gli allontanamenti: nella Bassa successe che un presunto padre abusatore era stato arrestato, non c’era più, in casa restavano la mamma e i fratelli della bimba “abusata” (Margherita). Perché allora portarla via? Desaparecida per sempre. Persino un adulto, se è colto in fragranza di reato, per sua tutela ha diritto a un processo per direttissima entro 48 ore, perché invece la bimba, che è la vittima, resta sequestrata a tempo indeterminato? Il piccolo, innocente, vede le forze dell’ordine entrare in classe e venire proprio da lui, per un bimbo è la discesa dei marziani, è condotto in una struttura sconosciuta, perde tutti i suoi riferimenti, i giocattoli, gli amici. Poi ci vengono a dire che ha sintomi di malessere? L’Italia è continuamente condannata dagli organismi internazionali, è possibile che ciò accada in uno stato di diritto? Il padre di Margherita alla fine fu assolto, ma lei fu data in adozione e ancora oggi che è adulta rifiuta di rivedere la famiglia. Perché non accada più non ci si può affidare al buon senso dei singoli, va disciplinato. Una volta soppresso l’articolo 403, risalente al 1941, cosa cambierebbe? La famiglia avrebbe la possibilità di difendersi: oggi se un operatore entra in casa e porta via un figlio, i genitori non sono nessuno, non hanno diritto di contraddittorio, devono solo subire. Ma nel nostro ordinamento non esistono i provvedimenti “inaudita altera parte”, cioè con una parte che non può parlare, in qualsiasi contenzioso penale o civile ci si può sempre difendere, lo dice l’articolo 111 della Costituzione. Dopo 20 anni lei è sempre convinta dell’innocenza dei suoi assistiti, persino di quelli che furono condannati. Condannati sulla base delle relazioni di quei servizi sociali e psicologi, parte dei quali oggi sono indagati a Reggio Emilia. Quei genitori furono “presunti colpevoli”, anziché presunti innocenti come prevede il nostro ordinamento, dovevano loro trovare le prove di essere innocenti. Prove della colpevolezza non esistevano, erano condannati sulla base di perizie psicologiche fatte dalla onlus “Hansel e Gretel” oggi indagata. La grande notizia però è che il procuratore capo di Modena Paolo Giovagnoli ha appena annunciato la riapertura delle indagini sulla Bassa Modenese: riesaminerà le carte e i video di allora, verificherà tutti i legami tra i due casi, così come richiesto mesi fa dall’ex senatore Carlo Giovanardi in un esposto. La prescrizione? Non inizia a decorrere fin tanto che il reato persiste, e molte situazioni sono ancora in corso, inoltre le famiglie porteranno molti nuovi elementi. Io intanto ho già ottenuto la revisione di uno dei processi, il 10 ottobre avremo la prima udienza, poi procederò con gli altri, e questa volta si parlerà anche di omicidi: tra infarti e suicidi, sei persone ci hanno rimesso la vita.
10 viaggio nel sud
Cerignola, l’intolleranza che cresce nei campi Nel paese di Di Vittorio, padre del sindacato, la Lega ha ormai sfondato. Braccianti locali e stranieri si guardano in cagnesco. E molti italiani accusano la Cgil: ormai pensate solo ai diritti di “quelli”
Il segretario della Camera del Lavoro predica l’unità con gli immigrati, ma in piazza, dove si recluta, c’è divisione
Il gelataio Perrucci, fresco d’iscrizione leghista: “Salvini ha capito che qui al Sud ci sono imprenditori di valore”
Gad Lerner su Repubblica a pagina 12
CERIGNOLA (FOGGIA) — Se non riuscite a spiegarvi l’indulgenza dei meridionali che accorrono sul Carroccio del vincitore nonostante la matrice antiterrona della Lega, venite a Cerignola e fatevela spiegare dai suoi braccianti. Sì, proprio Cerignola la rossa, la patria di Giuseppe Di Vittorio, cui è intitolata la sala consiliare del Municipio. Statue e ritratti del comunista fondatore del sindacato italiano adornano in più punti il centro storico; in molte case popolari la sua fotografia venne appesa per gratitudine di fianco all’immaginetta della protettrice Maria Santissima di Ripalta. Ma dalle elezioni europee del maggio scorso la Lega di Salvini è diventata il primo partito di Cerignola col 30% dei voti. Per ora sono solo due i consiglieri comunali leghisti, Vincenzo Specchio e Antonio Bonavita, che volentieri si fanno fotografare sotto il murale dedicato a Di Vittorio anche se provengono dalla destra post-fascista e si proclamano tuttora ammiratori del Duce: «Mussolini e Di Vittorio sono stati entrambi grandi difensori del nostro popolo -affermano col palese intento di apparirmi equanimi – ma ormai la sinistra ha tradito il popolo e sostiene i poteri forti». Poco importa che Di Vittorio fosse detenuto in una cella del carcere di Lucera perché aveva tentato di opporsi all’assalto fascista della Camera del Lavoro, quando il direttore venne a comunicargli che era stato eletto deputato al Parlamento, nel 1921. Orfano di padre a 7 anni, costretto al lavoro minorile nei campi da quando ne aveva 9, era un adolescente quando nel 1909 pose la mano destra su un aratro per giurare eterna fedeltà alla Lega Contadina. Le notti d’estate Peppino dormiva nelle cafonerie dove i latifondisti ammassavano i braccianti al loro servizio, di fianco alla masseria. Oggi le nuove cafonerie hanno cambiato nome. Gli oltre tremila lavoratori stranieri del settore ortofrutticolo di Cerignola trovano alloggio nelle borgate in disuso, nelle tendopoli e, solo i più fortunati, pagando l’affitto nei bassi cittadini. Con i braccianti italiani -a Cerignola se ne contano tuttora 6600, anche giovani- s’incontrano nei campi. E si guardano in cagnesco. Può sembrare assurdo, ma è come se il vento leghista a Cerignola scoperchiasse la realtà binaria di due Cgil sovrapposte: la Cgil della Camera del Lavoro che predica l’unità fra italiani e immigrati; e la Cgil della piazza di reclutamento a giornata dei braccianti, in cui prevale la divisione. Regge sempre meno l’equilibrio fondato sulla specializzazione dei mestieri: da una parte gli esperti nella potatura degli ulivi e negli innesti; dall’altra quelli che si spezzano la schiena nella zappatura e nella raccolta. Gli italiani, con le buste paga intermittenti ma più o meno regolari, sempre attenti a limitare il numero ufficiale delle giornate lavorative per non perdere l’indennità di disoccupazione, borbottano che gli stranieri saranno pure sfruttati ma poi non hanno alcuna spesa ulteriore da detrarre dalla loro misera paga in nero. Quando va bene prendono 30 euro a giornata, ma più spesso si sottomettono al meccanismo infernale del cottimo: per esempio un euro ogni cassone di angurie, e stiamo parlando di un quintale e mezzo a cassone, pesando di media le angurie quindici chili. Cercherò di spiegare perché esistono sul serio due Cgil, la Cgil degli ideali e la Cgil della realtà, peraltro riunite in un profondo legame osmotico. Incontro la prima Cgil alla Camera del Lavoro, che qui si chiama Casa del Popolo “Giuseppe Di Vittorio”. A guidarla è il segretario Giovanni Marinaro, un compagno che conosce bene e, di più, esprime un legame affettivo con la Cgil della piazza del reclutamento a giornata: «Cerignola è afflitta da una criminalità organizzata fra le più agguerrite d’Italia, traffico d’armi, rapine e furti d’auto. Anche fra queste mura, dove arrivano a portarmi i loro problemi di lavoro, avverto che la loro preoccupazione maggiore è la mancanza di sicurezza. E allora li affascina Salvini che fa il duro». Non è una novità assoluta. Da quando, il 5 dicembre 1993, per la prima volta nel dopoguerra il missino Salvatore Tatarella espugnò il comune rosso di Cerignola, alla Casa del Popolo hanno assistito a un passaggio diretto di militanti dal Pci al Msi, sempre però restando iscritti alla Cgil. E certo non li mandano via. Giovanni Marinaro mi fa incontrare nel suo ufficio con i tre giovani dirigenti foggiani della Flai, il sindacato dei lavoratori agricoli impegnato nella lotta contro i caporali del lavoro nero: Daniele Iacovielli, Raffaele Falcone e Magda Jarczak. Quest’ultima è un’immigrata polacca che si ritrovò sequestrata insieme a tante altre in una masseria, durante la raccolta del pomodoro. Dopo che ha trovato il coraggio di fuggire e di denunciare il trafficante, da sindacalista oggi non ha certo paura di sfidare anche i “capi neri”, a loro volta immigrati che gestiscono il racket delle tendopoli e dei furgoni per il trasporto dei braccianti. Un impegno civile che non sembra però riscuotere molti consensi fra gli italiani. Racconta Iacovielli: «Martedì scorso abbiamo organizzato una biciclettata di protesta contro le ripetute aggressioni di cui sono vittime gli africani quando vanno a cercarsi il lavoro da soli, senza passare dai boss. Ma ci sono arrivati dei messaggi di protesta: “Perché difendete i neri e non fate nulla per il carabiniere accoltellato a Roma?”». Così la prima Cgil si trova messa costantemente sotto esame dalla seconda Cgil, gelosa delle attenzioni riservate agli stranieri. «Eppure i braccianti italiani di Cerignola sono fra i meglio tutelati del Tavoliere – fa notare Magda Jarczak – hanno ottenuto di fatto la giornata di 6 ore, mezz’ora in meno di quanto prevede il contratto, per una retribuzione che può variare fra i 45 e i 55 euro. Una bella differenza rispetto al salario di piazza dell’africano che di rado sfiora i 5 euro l’ora». «Noi abbiamo 7 mila iscritti – riassume Iacovielli – fra i quali gli stranieri sono ormai poco meno della metà. Stiamo stiamo attenti a respingere le offerte di abitazioni con affitti simbolici riservate agli immigrati, che potrebbero apparire un favoritismo. Vogliamo affermare il principio che devono essere pagati come gli altri e quindi che paghino come gli altri. Ma nonostante ciò, dietro le spalle avvertiamo il malcontento: “Per il sindacato quelli vengono prima di noi…”». Sentirò ripetermelo spesso, l’eufemismo “quelli”. Senza però che si traduca mai in ostilità aperta contro il sindacato. Lo spiega bene Falcone: «Prevale l’idea di una divisione dei compiti: la rappresentanza del lavoro a noi, la sicurezza a Salvini. Ce lo dicono perfino alcuni nostri tesserati africani, da sempre abituati vivere sotto il dittatore: “C’è un capo? Allora bisogna obbedirgli. Ora il capo è Salvini e io gli metto il like”. Nel nostro direttivo provinciale c’è un bracciante marocchino stabilizzato che interviene per lamentare l’abbattimento del costo della manodopera dovuto alla presenza di troppi immigrati. Nella sua mentalità, il salario resta una variabile da trattare individualmente col datore di lavoro». Alle sette di sera, Giovanni Marinaro incarica due vecchi militanti, Matteo Petronelli e Giuseppe Valentino, di accompagnarmi alla piazza del reclutamento, che rimane il luogo di ritrovo dei braccianti ancor oggi che le convocazioni per l’indomani arrivano quasi sempre via WhatsApp. «Preparati a sentire cose sgradevoli», mi avverte. Cammin facendo, Petronelli e Valentino raccontano dei genitori che li portavano da bambini a sentire il
comizio di Peppino Di Vittorio, issato sul rimorchio bardato con un lenzuolo rosso. Di fianco al Teatro Mercadante, dove Pietro Mascagni compose la “Cavalleria rusticana”, sorgeva un edificio chiamato “Cremlino”. Dentro lo stanzone affumicato dal trinciato forte avveniva la trattativa con gli impresari; fra quelle mura prese avvio il movimento di lotta sindacale che ha emancipato dalla miseria il proletariato di Cerignola. Nostalgia canaglia, eppure… Perfino i compagni Petronelli e Valentino sembrano prendere le distanze da “quelli”: «Per ora ai negri è riservata solo la raccolta dei pomodori, della frutta e delle olive. Ma vedrai che tra dieci anni anche nella potatura troveremo un solo cerignolese per dieci di quelli». Presagio di una spaccatura destinata ad acuirsi, tanto più che i figli dei contadini pugliesi preferiscono andarsene dalla loro terra. In piazza incontriamo Giuseppe Catalano, 60 anni. «Il lavoro per ora c’è ancora, ma l’arrivo di quelli ci svuota le tasche. Tutto è cominciato con l’euro. Prendevamo 70 mila lire, prima; adesso i 45 euro non sono nemmeno 50 mila lire di una volta». Ma non è mica colpa degli stranieri… «Una volta per noi erano già stranieri i braccianti che arrivavano da San Ferdinando», replica Catalano. «Ora dobbiamo fare i conti con quelli. Lavorano male, litigano fra di loro, ma se vuoi togliere i succhioni da sotto le piante devi per forza chiamarli. Quanto alla slopatura dei tumori delle cortecce, costa troppo e nessuno la sa più fare. Di questo passo non so che fine farà la nostra celebre “Bella di Cerignola”, l’oliva più grande del mondo». La prospettiva che gli stranieri, a cominciare dai romeni, imparino presto a potare e a innestare, è vissuta come una sciagurata fatalità: «Piano piano ci spingono fuori dalla porta. Prima lavorano loro e dopo noi». L’insieme delle due Cgil, con la loro assidua presenza nei luoghi della contrattazione, riesce a scongiurare una vera e propria guerra fra poveri – al sindacato di Di Vittorio qui in piazza si porta rispetto – ma vista la situazione sarebbe ingenuo pensare che possa scaturirne una fratellanza di classe di stampo internazionalista. Mi colpisce la durezza del settantenne Pasquale Lavacca, che pure rivendica una gioventù da rivoluzionario, quando gli scioperi non occorreva nemmeno convocarli che già tutti salivano sui torpedoni per andare al corteo: «Quelli danno fastidio, spadroneggiano. Si offendono se appena gli dici che hanno fatto uno sbaglio. Alzano la cresta. E il sindacato pensa più a loro che a noi. Ma alla fine ci cascano tutti, quando ti offrono di zappare un ettaro per cento euro». Il nuovo leghismo meridionale si nutre di questi sentimenti oltre che dell’insofferenza delle aziende ortofrutticole che patiscono la legge 199 contro il caporalato, la legge Martina, giudicata inutilmente restrittiva. L’ultimo sindaco Pd di Cerignola, Matteo Valentino, mi fa notare che al boom leghista delle europee (più di quattromila voti, sorpassati i Cinque Stelle e quasi doppiato il Pd) non corrisponde ancora una classe politica alternativa. Del resto, il partito più forte a Cerignola, sessantamila abitanti, resta quello dell’astensione. In effetti i due consiglieri leghisti di fresca iscrizione, gennaio 2019, fuoriusciti dalla lista civica del sindaco Francesco Metta, provengono dal settore commercio e di agricoltura ne masticano poco. Vincenzo Specchio ha un rinomato negozio di abiti per cerimonie, mentre l’ex carabiniere Antonio Bonavita è titolare di un’armeria. Predicano naturalmente lo stop immigrazione, ma soprattutto affilano le armi del tesseramento. Specchio ci scherza su: «A fare da sentinella per noi c’è l’armiere Bonavita che filtra la lunga fila di aspiranti transfughi dal centrodestra». Prima di decidere chi accogliere e chi no, aspettano di sapere dal Viminale se il consiglio comunale verrà sciolto per infiltrazioni mafiose, come ipotizza un rapporto della Prefettura. Ma intanto, nella migliore gelateria di Cerignola, accettano subito la domanda d’iscrizione del titolare Antonio Perrucci e gli rilasciano la tessera sotto i miei occhi. Lui a quanto mi dicono in passato sosteneva il centrosinistra, ma quando provo a chiedere a Perrucci se non lo imbarazzi il ricordo delle sparate di Salvini contro i terroni, ha la risposta pronta: «I leghisti facevano delle gaffes prima di entrare in contatto con noi meridionali, ma ora si sono resi conto che siamo imprenditori di valore». Sono passati settant’anni dacché Giuseppe Di Vittorio, nel 1949, lanciò il Piano del Lavoro della Cgil «per la rinascita dell’economia nazionale». Ispirato al New Deal di Roosvelt, si fondava su tre direttive: agricoltura, edilizia, energia elettrica. Diede un contributo decisivo al miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne, facendo sì che anch’esse beneficiassero del miracolo economico italiano. Condusse il movimento operaio e contadino oltre le scogliere della Guerra Fredda, prefigurando il ritorno dell’unità sindacale. Ma oggi le divisioni appaiono ancora più profonde di quelle dettate dalle ideologie novecentesche. Lacerano un’Italia sempre più spaccata in due e una società che rigetta i nuovi proletari venuti da oltremare. «A Cerignola rischiamo di trasformare Di Vittorio in un santino come Padre Pio», dice lo storico locale Giovanni. Magari affiancandolo a un Mussolini rivisitato in salsa leghista. (2-fine)
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Flop dell’appalto da 150 milioni per il porta a porta negli esercizi commerciali
Repubblica a pagina 15
10 la differenziata a roma
Roma, il bluff della raccolta differenziata Per l’Ama i rifiuti pronti per il riciclo sono arrivati al 46% Siamo andati a vedere se i conti del Comune tornano E abbiamo scoperto che gli scarti sono anche del 60% In più quelli “preziosi” vengono trasferiti a società private
Nella Capitale manca la vigilanza e gli errori sono quasi impuniti
L’Agenzia per il controllo dei servizi: “Più differenziata ma meno accurata?”
di Floriana Bulfon su Repubblica a pagina 24
Roma è avvolta da un grande mistero che odora di marcio. Agosto ha concesso una tregua, ma l’immagine che ha offerto al mondo è fatta di cassonetti e pattumiere stracolmi, cumuli di immondizia rifugio di topi, gabbiani e persino cinghiali. Nonostante questo caos, la città eterna vanta ben il 46 per cento di raccolta differenziata. Sì, stando agli ultimi dati forniti dall’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, metà degli scarti capitolini sono ordinatamente divisi in umido, carta, vetro, plastica, indifferenziata, poi depositati nei relativi cassonetti o raccolti a domicilio ma comunque pronti per essere trattati e riciclati. Eppure lo spettacolo con cui convivono i cittadini è molto diverso e anche i più convinti ecologisti devono lottare per tenere fede all’obbligo della separazione dei sacchetti. E nasce il sospetto sulla fondatezza del dato. Il dubbi sui numeri Gli unici che hanno cercato di decifrare il sistema dell’immondizia romana hanno infatti formulato «dubbi sia sulle quantità di rifiuti raccolti in maniera differenziata che sulla qualità delle frazioni raccolte da avviare al riciclo». A metterlo nero su bianco è la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti già nel dicembre 2017. «Denunciare un valore di 30, 40 o 50% cambia. Se così non fosse, saremmo in presenza di un reato» spiega l’allora presidente della Commissione Alessandro Bratti. I riscontri sulla percentuale raggiunta sono talmente poco chiari che la prima assessora all’ambiente della giunta Raggi, Paola Muraro, considerata un’esperta in materia, intima: «Fate un audit sull’effettiva percentuale di raccolta. Ciò costituisce un problema perché si potrebbe aprire un danno erariale». La verità sulla differenziata Perché Roma riscuote dai residenti la tariffa più alta per curarsi dei rifiuti, oltre 700 milioni all’anno, a cui vanno aggiunti centinaia di migliaia di euro dalla Regione e dallo Stato. Sono passati tre anni e di quell’inchiesta interna per scoprire la verità sulla differenziata non c’è traccia, come conferma l’Ama. Un mistero eterno su cui però l’Agenzia per il controllo dei servizi pubblici, che dipende sempre dal Campidoglio, individua una traccia inquietante: negli impianti romani dove viene trattato il multimateriale, ossia plastica e metalli, gli scarti hanno avuto un aumento pauroso. Nel sito di via Laurentina improvvisamente crescono così tanto quasi da raddoppiare arrivando al 42 per cento nel 2015. Cosa significa? Lo scrive la stessa agenzia: «Scarti in aumento, aumenta la raccolta differenziata ma meno accurata?». Insomma quello che arriva dovrebbe essere praticamente pronto per il riciclaggio, invece quasi la metà non è utilizzabile perché non differenziata correttamente. Non va meglio nell’impianto di compostaggio di Maccarese, nel vicino comune di Fiumicino, dove finisce l’umido. Tra il 2010 e il 2012 i rifiuti classificati come differenziati ma in realtà “sporchi” passano dal 38,8 al 60,2 per cento, tanto che nonostante le quantità trattate aumentino, crolla la produzione di compost. È il segno che la raccolta è differenziata solo in apparenza. L’autostrada della “munnezza” A un certo punto però gli scarti scompaiono. O meglio prendono altre strade, assieme a tutto il resto. Quello che se raccolto bene è un tesoro, pronto a fruttare profitti con la vendita di carta, plastica, vetro, a Roma lo mandano via. Decine e decine di tir che dalla Capitale corrono lungo l’Autostrada del Sole, trasformata nella superstrada della “munnezza”. Ben 163 mila tonnellate di frazione organica (il 95 per cento) finiscono in impianti privati del Nord-Est. Così come il 91 per cento delle 74mila tonnellate di multimateriale, trasferito per lo più in provincia di Latina. L’autocertificazione dei rifiuti A certificare i dati è Ispra, l’Istituto superiore per la protezione ambientale. Nel suo ultimo report sostiene che Roma ha una media pro-capite di 587, 2 chili di rifiuti per abitante; Milano 494,7. La Capitale nel 2016 aveva il 42 per cento di differenziata e l’anno successivo il 45,4. Milano il 64,9. Spiegano però che non svolgono alcun campionamento: «Si tratta di un’elaborazione in base al modello unico di dichiarazione ambientale compilato dal comune di Roma». Ci si attiene insomma ad una sorta autocertificazione dei redditi da rifiuti. Ed è solo quando calcolano lo scarto che le cose cambiano. L’unico rapporto disponibile è a livello nazionale, mescola le città virtuose e quelle sporcaccione. Il risultato è che «nel 2017 avevamo una media del 55 di raccolta differenziata, il riciclato effettivo però è di dieci punti in meno». Le mancate multe Insomma, quei sospetti della Commissione parlamentare paiono riemergere dietro i diagrammi delle statistiche. Nella Capitale d’altronde gli errori nella differenziata, puniti altrove con multe salate, sono quasi impuniti. Se è vero che nel 2018 sono state staccate quasi 20mila contravvenzioni, tremila in meno rispetto all’anno precedente, quasi la metà riguardano auto in sosta davanti ai contenitori. A dire che manca una vigilanza è persino un gruppo di lavoratori dell’Ama riuniti in un Laboratorio idee che attraverso un blog informa i cittadini: «Ci sono solo 38 agenti accertatori distribuiti su 3 turni di lavoro. In passato era stata tolta la facoltà di multare a 250 capi squadra per motivi contrattuali, ma ad aprile, anche grazie a un nostro intervento, possono accertare e sanzionare. In pochi però hanno ritirato la modulistica. Nessuno sta facendo nulla sui conferimenti e sulla regolarità delle aziende private che operano per conto Ama». L’appalto e il caos Le aziende private sono quelle che lo scorso ottobre hanno vinto l’appalto da oltre 150 milioni per raccogliere l’immondizia porta a porta negli esercizi commerciali. Il risultato è stato un proliferare di bidon
cini, spesso piazzati a ridosso dei cassonetti per i cittadini, che si è trasformato in caos. Cartoni e umido ritirati in ritardo, clienti costretti a fare lo slalom per entrare nel negozio e alla fine si butta tutto nel secchione lungo la via che in poche ore straborda. Un contagio che si propaga dal centro storico alla periferia. «Ho fatto molti reclami. Paghiamo per un servizio che non abbiamo» spiega la tabaccaia Katia esasperata. È un coro: il macellaio, Sandro che ha una tavola calda, il venditore di frutta pakistano tutti muniti di calendario della raccolta con su scritto “Roma ci piace un sacco” e tutti abbandonati con i loro rifiuti. «La situazione è drammatica» denuncia Maura Alabiso, consigliera 5Stelle del VII municipio. Ogni settimana documenta il disastro di un appalto che prometteva di migliorare la differenziata e di fatto invece ha aumentato l’indifferenziata: «Hanno solo portato i secchioni, attaccato il tag, la targhetta su cui passare il lettore per dimostrare di aver ritirato l’immondizia, e poi o non rispettano il programma di ritiro o proprio non si vedono». Nonostante gli annunci e le percentuali i risultati sembrano lontani. «Il fatto è che quando tu metti in campo teorie non suffragate da servizi accurati è chiaro che fallisci» rileva Laura Puppato. Già sindaco Pd di Montebelluna, uno delle città con la raccolta differenziata più alta d’Italia, insieme a Paola Nugnes del M5S ha scritto la relazione presentata alla Commissione d’inchiesta nel 2017: «Rispetto al dato teorico che avevamo registrato a Roma, una quota del 30-40% di materiale andava a finire nell’indifferenziato. Quello che vedo oggi è l’esito di quanto atteso». Una Capitale trasformata in discarica e un mistero che sa di fallimento.
ESTERI
1 Putin
Pene più aspre e carcere preventivo per i capi dell’opposizione Arresti e denunce Così Putin cerca di fermare la rivolta. Oltre 800 i fermati, tra loro anche Olga Misik, la studentessa simbolo della piazza
Stampa p.11
Mosca, il pugno duro contro la protesta tra gli 800 arrestati la leader del corteo
FERMATA SOBOL, LA VICE DELL’ANTI-PUTIN NAVALNY LA GENTE IN PIAZZA CONTRO L’ESCLUSIONE DELLE OPPOSIZIONI DAL VOTO PER LE COMUNALI
Messaggero p.9
Arrestata anche Lyubov l’avvocatessa anti-Putin La 31enne, leader delle proteste di piazza e vicina a Navalny, digiuna da 21 giorni
Giprnale p.10
Moscainpiazza,pugnodurodiPutin La protesta contro il presidente non si ferma:settecento arresti. Fermata anche la leader Lyubov Sobol
Corriere a pagina 12
Fermata anche Sobol, la Giovanna d’Arco anti Putin
Era l’ultima leader in libertà perché madre di una bimba piccola Ieri oltre 800 arresti
“Avete paura di una ragazza che fa lo sciopero della fame?” Ljubov Sobol, 31 anni, ha detto così agli agenti che l’hanno bloccata mentre saliva sul taxi che l’avrebbe dovuta portare al corteo
Repubblica pagina 17
Pezzo della stampa
L’opposizione russa è scesa di nuovo in piazza e ancora una volta il Cremlino ha reagito strozzando la protesta con un’ondata di arresti. Sono almeno 828 i dimostranti trascinati con la forza nelle camionette della polizia in un centro di Mosca blindato da centinaia di agenti in assetto antisommossa e bagnato da una pioggia che a tratti si trasformava in acquazzone. Tra i fermati c’è anche Liubòv Sòbol, la giovane dissidente alleata di Navalny divenuta ormai la «madrina» delle manifestazioni. Arresti e manganellate fanno purtroppo parte di un copione già visto, ma Putin sta affilando la mannaia della repressione e potrebbe presto assestare agli oppositori colpi di una gravità inaudita. Pene molto più pesanti dei 30 giorni di carcere che rischia chi partecipa a una «manifestazione non autorizzata«. Gli investigatori hanno infatti lanciato una serie di inchieste penali dal chiaro sapore politico. La più inquietante riguarda le proteste del 27 luglio, soffocate con 1.400 fermi e bollate come «disordini di massa»: un reato per il quale si rischiano 15 anni di reclusione e che potrebbe facilmente essere esteso ai cortei di ieri. Per ora 11 persone sono state fermate con questa imputazione e per sei è già scattata la custodia in carcere. Chi protesta chiede di lasciar candidare gli oppositori alle elezioni comunali di settembre. Tanto è bastato alle autorità per aprire un’inchiesta per «ostruzione al lavoro delle commissioni elettorali», punibile con cinque anni dietro le sbarre. L’ultima batosta riguarda il Fondo Anticorruzione di Aleksey Navalny, il trascinatore dell’opposizione ora in cella proprio per le proteste: alcuni dipendenti dell’ente sono stati accusati di riciclaggio di denaro per circa 14 milioni di euro. «Sono soldi acquisiti illegalmente», sostengono gli inquirenti senza fare i nomi degli indagati. Il Fondo Anticorruzione da anni punta il dito contro alcuni potenti personaggi del cerchio magico di Putin. Liubov Sobol è la consulente legale di questa organizzazione e una dei tanti a cui è stata negata la candidatura alle elezioni del Consiglio Comunale di Mosca. È stata lei, in sciopero della fame da 21 giorni, a invitare i moscoviti a protestare ieri andando «in un punto qualsiasi dell’Anello dei Boulevard» che circonda il centro della capitale russa. La 31enne però non ha potuto manifestare: la polizia l’ha fermata prima, trascinandola fuori dal taxi in cui si era appena seduta. Gli altoparlanti delle forze dell’ordine invitavano i dimostranti ad andare via e «non ostacolare il riposo dei moscoviti». Ma migliaia di persone hanno comunque manifestato pacificamente sfidando al grido di «Putin ladro!» le forze speciali equipaggiate con caschi, manganelli e giubbotti antiproiettile. Non le ha fermate neanche lo «Shashlik Live», una via di mezzo tra una sagra dello spiedino e un mega concerto rock messa su in fretta e furia dal Comune per distogliere i giovani dalle proteste. Così tanto in fretta che alcune band hanno denunciato di essere state messe in cartellone a loro insaputa e si sono rifiutate di esibirsi. La gente si è raccolta soprattutto su Tsvetnoy Boulevard e in Piazza Pushkin, ed è qui che gli agenti si sono scagliati sui dimostranti. A volte prendendo a manganellate ragazzi inermi. Tra gli arrestati c’è anche Olga Misik, l’adolescente che la settimana scorsa ha letto ai poliziotti la Costituzione ed è ormai un’icona delle proteste anti-Putin.
2 Hong Kong
I ragazzi usano i laser per abbagliare la polizia e non farsi identificare Elmetti e maschere A Hong Kong sfila la lotta senza volto
N on c’è un personaggio carismatico o un volto-simbolo a capo delle manifestazioni che da due mesi sfilano per le strade di Hong Kong contro l’emendamento alla legge sull’estradizione verso la Cina, che si sono poi trasformate nella denuncia dell’erosione dell’autonomia dell’ex-colonia britannica e delle «brutalità della polizia». È troppo forte il timore di andare di nuovo incontro a arresti e ripercussioni legali visto che molti tra i leader del Movimento degli Ombrelli del 2014 sono finiti dietro le sbarre: Joshua Wong è uscito dal carcere solo una manciata di settimane fa, mentre la scorsa primavera c’è stata la condanna di diversi leader di Occupy Central. L’uso delle tecnologie Così che tra chi oggi manifesta per le strade di Hong Kong molti non vogliono essere riconosciuti: coprono il volto con una mascherina chirurgica, calzano elmetti, proteggono gli occhi dai gas lacrimogeni con occhiali di plastica. Praticamente nessuno rivela il suo vero nome. In città cresce anche la preoccupazione che la tecnologia del riconoscimento facciale possa essere usata per identificare chi protesta. I giovani vestiti di nero spruzzano vernice sulle telecamere di sorveglianza, mentre indirizzano puntatori laser e fasci di luce verde contro la polizia: una strategia per confondere gli agenti ed evitare di essere identificati. In metro con i contanti Al termine dei cortei, lunghe file si formano davanti alle macchine dei biglietti nelle stazioni della metro. Nessuno vuole tirar fuori l’onnipresente carta ricaricabile che a Hong Kong viene usata per l’ingresso sui mezzi di trasporto e per piccoli acquisti: il timore è che la polizia possa tracciare i dati della Octopus Card e arrestare chi ha partecipato alle proteste. Anche senza un leader, le proteste di Hong Kong stanno però dimostrando di essere ben coordinate attraverso forum on-line e gruppi sul sistema di messaggistica criptato Telegram, mentre quando la connessione Internet rallenta ci si scambia immagini grazie al peer-to-peer e AirDrop. Spesso si parla di manifestanti giovanissimi, ma è difficile tracciare un profilo preciso di chi è in piazza. Delle 44 persone arrestate all’inizio della settimana e accusate di «rivolta» – un reato per cui a Hong Kong si rischiano fino a 10 anni di carcere – c’erano molti studenti, ma anche un pilota della Cathay Pacific, un insegnante, una donna di 41 anni e una ragazza di 16. Lo scorso week-end alcuni hanno manifestato con la bandiera degli Stati Uniti, ma in piazza c’erano anche associazioni localiste, anarchici e collettivi di sinistra. Tra le molte anime del movimento di Hong Kong forte è la presenza di gruppi cristiani, si tratta di una beffa per la polizia visto che nell’ex-colonia britannica un raduno religioso non può essere dichiarato illegale. Le contromisure Se nelle ultime settimane l’uso di gas lacrimogeni è diventata la nuova normalità di Hong Kong, i manifestanti hanno imparato a neutralizzarli: vengono coperti con i coni stradali arancioni e sui candelotti viene versata dell’acqua. Nuovi incidenti sono scoppiati nella serata di ieri, con i manifestanti che hanno occupato e alzata barricate in diverse strade della penisola di Kowloon, mentre gli agenti hanno risposto con lacrimogeni e spray urticanti. Nel quartiere dello shopping di Tsim Sha Tsui un gruppo ha strappato una bandiera cinese e l’ha lanciata in mare mentre dall’altro lato della baia manifestavano alcune migliaia di sostenitori del governo.— c
3 xi
Trump sfida Xi Nuovi missili balistici schierati in Asia
Stampa p.17
W ashington è pronta a schierare nuovi missili a raggio intermedio in Asia per contrastare l’allargamento della sfera di influenza di Pechino. L’annuncio arriva dal segretario alla Difesa Mark Esper all’indomani dell’uscita formale degli Stati Uniti dal Trattato Intermediate-Range Nuclear Forces (Inf) con la Russia. Il nuovo capo del Pentagono spiega che gli Usa possono schierare liberamente i loro armamenti balistici a seconda delle necessità strategiche che l’evoluzione geopolitica globale impone. «Vorremmo raggiungere una certa capacità il prima possibile», ha dichiarato Esper a bordo dell’aereo per Sydney, prima tappa della missione nella regione Asia-Pacifico.«Preferirei mesi – prosegue – ma queste cose tendono a richiedere più tempo del previsto». Il piano è destinato a scatenare una levata di scudi da parte della Cina con cui gli Stati Uniti sono in competizione politica, militare e commerciale di influenza della regione. Esper, tuttavia, afferma che Pechino non dovrebbe essere sorpresa «perché ne parliamo da tempo» di questa opzione. «L’80% del loro arsenale è costituito da sistemi Inf, vorremmo avere una capacità simile». I dazi Il segretario alla Difesa precisa tuttavia che gli Usa non si stanno imbarcando in una nuova corsa agli armamenti. L’annuncio del capo del Pentagono giunge in coincidenza del rifiuto di Pechino di un coinvolgimento in nuovi negoziati per il controllo delle armi strategiche, chiesto da Trump. Il rappresentante permanente presso l’Onu, Zhang Jun, ha espresso il rincrescimento del suo Paese per il ritiro degli Usa dall’Inf e ha espresso scetticismo sulla possibilità di una partecipazione del suo Paese. «Gli Usa dicono che la Cina dovrebbe prendere parte a un nuovo accordo sul disarmo, ma tutti sanno che la Cina non è agli stessi livelli di Usa e Russia», spiega l’ambasciatore. Sul fronte commerciale, dopo l’annuncio di nuovi dazi del 10%, da aumentare sino al 25%, su altri 300 miliardi di merci del Dragone da parte degli Usa, e quello di immediate contromisure da parte di Pechino, Trump rivendica il successo delle linea dura. «Vari Paesi stanno venendo da noi per rinegoziare veri accordi commerciali, non quegli spettacoli horror unilaterali fatti dalle passate amministrazioni». E sulla Cina afferma: «Le cose stanno andando bene. Ci stanno pagando decine di miliardi di dollari, cosa resa possibile dalle loro svalutazioni monetarie e pompando contanti in grandi quantità per mantenere in vita il loro sistema. Per ora i nostri consumatori non stanno pagando nulla, e nessuna inflazione». — cBY NC
4 estremismi
LA TRAPPOLA DEGLI ESTREMISMI
La stampa in prima
Di maurizio molinari
A d oltre tre anni dal referendum su Brexit che ha inaugurato la stagione del populismo in Occidente è possibile affermare che nelle democrazie parlamentari lo Stato di Diritto è sotto attacco. Per Stato di Diritto si intendono le regole fondamentali che hanno distinto le democrazie dalle dittature durante le due grandi sfide del Novecento – contro il nazifascismo ed il comunismo sovietico – ovvero la divisione fra i poteri, il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini, le garanzie del welfare per i più deboli. Ad attaccare lo Stato di Diritto sono gli opposti estremismi che nascono da ciò che resta delle severe sconfitte subite dalle ideologie di destra e sinistra nel secolo scorso. L’estremismo di destra si nutre di una riscoperta delle radici etnico-nazionali che fa leva sull’identità tribale di singole comunità per indicare come nemici gli estranei: i migranti, i Rom e più in generale gli stranieri. È un’area ideologica assai vasta che va dai gruppi neonazisti tedeschi e slovacchi ai suprematisti bianchi anglosassoni fino agli ultranazionalisti fiamminghi, ai lepenisti francesi ed ai sovranisti polacchi, italiani, austriaci e ungheresi. È una galassia di estremismo assai eterogeneo nel cui seno si annidano anche gruppi che promuovono l’odio contro gli ebrei, i musulmani, i gay, le donne, i disabili e chiunque sia un “diverso”. Al momento partiti e movimenti di estrema destra godono di un consenso in crescita in più Paesi – dalla Francia all’Italia, dalla Polonia all’Ungheria – e producono un effetto uguale e contrario ovvero un estremismo di sinistra altrettanto pericoloso.
I n Gran Bretagna trova ospitalità nel Labour Party di Jeremy Corbin, incarnando la simbiosi fra antisionismo ed antisemitismo, mentre negli Stati Uniti trova espressione in candidati democratici alla presidenza come la californiana Kamala Harris che non esita a giocare in tv la carta della propria identità afroamericana per accusare Joe Biden – per otto anni vicepresidente di Barack Obama – di aver tollerato in passato esponenti segregazionisti. Sul continente europeo tale estremismo di sinistra ha più volti: dai silenzi svedesi sulle violenze commesse dagli estremisti islamici a Malmoe al sostegno aprioristico, dalla Germania all’Italia, per quelle ong che fiancheggiano di fatto i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo. Per non parlare del fanatismo del “politically correct”: bagni per bambini “transgender” nelle scuole pubbliche hanno spinto un numero significativo di americani a votare per Trump nel 2016 e di brasiliani a scegliere Bolsonaro nel 2018. È tale contrapposizione crescente fra estremismo di destra e di sinistra a contenere la minaccia più seria per lo Stato di Diritto. Per quattro motivi. Primo: in comune hanno il disprezzo per l’avversario che puntano a delegittimare in ogni modo – a cominciare dall’uso del social network – generando narrative basate sul conflitto anziché sulle proposte. Secondo: si tratta di forme di intolleranza verso il prossimo che si alimentano l’un l’altra, spingendo un crescente numero di elettori moderati a schierarsi su uno dei due fronti. Terzo: pongono le basi per una sfida frontale fra estrema destra anti-migranti e estrema sinistra sostenuta da gruppi islamici che può generare il più pericoloso dei conflitti. Quarto: distraggono risorse, umane ed economiche, dalle sfide strategiche che incombono sugli Stati nazionali – dalla lotta alle diseguaglianze allo sviluppo delle nuove tecnologie – ponendo le basi per un impoverimento collettivo destinato a generare niente altro che ulteriore intolleranza. Da qui l’interrogativo su come le democrazie possano riuscire a liberarsi dalla trappola degli opposti estremismi. La risposta non può che partire dalla responsabilità dei cittadini: la risorsa più importante di una democrazia sono i valori dei propri abitanti. Voltare la testa dall’altra parte quando un leader politico – di qualsiasi grado e colore – insulta un qualsiasi individuo per la sua diversità – di fede, pensiero, origine o genere – significa diventare ingranaggio della macchina dell’intolleranza che costituisce la più grave minaccia alla libertà personale. E poi ci sono le responsabilità di Stati, governi e partiti: in Europa come in Nordamerica sono chiamati a dare risposte urgenti ed efficaci su diseguaglianze economiche e integrazione dei migranti. Più tarderanno, più la protesta del ceto medio continuerà ad espandersi alimentando il vortice degli estremisti. —
10 Onu la fine dell’isis
Nell’Isis 30mila foreign fighters In Europa «alto rischio» attentati
IL RAPPORTO DELL’ONU
2mila «COMBATTENTI IN EUROPA» Tanti sono secondo l’Onu i foreign fighters di rientro dalla Siria e dall’Iraq
Sul Sole a pagona 3
Entro la fine dell’anno potrebbero verificarsi nuovi attacchi terroristici, anche in Europa, da parte dell’Isis. È questa l’analisi degli esperti dell’Onu che hanno realizzato un rapporto sul terrorismo islamico basandosi sulle informazioni raccolte dalle agenzie di intelligence nazionali. Sarebbero in tutto 30mila i foreign fighters pronti all’azione dopo essersi rintanati nei territori rimasti sotto il controllo dello Stato Islamico. «I leader estremisti dell’Isis – spiegano all’Onu – stanno cercando di riorganizzarsi e di creare le condizioni per una rinascita a partire da alcune aree della Siria e dell’Iraq» dove, dopo la caduta del cosiddetto Califfato, «si è rifugiato il capo dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi». L’Isisi avrebbe «ancora accesso a fondi tra i 50 e i 300 milioni di dollari». Nella relazione consegnata al Consiglio di Sicurezza nei giorni scorsi si descrive l’evoluzione dei gruppi legati all’Isis e ad al-Qaeda e si sottolinea che «lo sviluppo più sorprendente nei primi sei mesi del 2019 riguarda il terrorismo islamico nel Sahel e nell’Africa occidentale dove Isis e al-Qaeda stanno collaborando per mettere in difficoltà i Paesi meno stabili». La preoccupazione per l’Europa deriva dal rientro nei Paesi occidentali di «almeno 2mila combattenti dell’Isis». Gli esperti dell’Onu affermano che «continua la propaganda dell’Isis che sostiene attacchi anche poco elaborati» e che «il rischio di attentati resta alto». © RIPRODUZIONE RISERVATA
L’Onu mette paura all’Europa «Entro l’anno l’Isis vi colpirà» Dossier rivela: il Califfato è finito ma 30mila foreign fighters sono liberi. E un centinaio nascosto in Italia
Fausto Biloslavo sul Giornale a pagina 9
Lo Stato islamico potrebbe tornare a colpire, in Europa, entro la fine dell’anno. L’allarme arriva dal rapporto dell’Onu sul terrorismo jihadista per il Consiglio di sicurezza. Forse non è un caso che nelle stesse ore i tagliagole delle bandiere nere hanno reso pubblico il video dell’ultima decapitazione di un prigioniero in Afghanistan. La vittima si chiamava Fadi Ahmad ed era inginocchiata con la classica tuta arancione stile Guantanamo davanti ad una fila di terroristi armati e in mimetica con il volto coperto. La decapitazione è stata fatta girare via Telegram dimostrando l’importanza del «Califfato virtuale» legato alla propaganda e proselitismo citato nel rapporto dell’Onu. «L’attuale diminuzione – degli attacchi terroristici nel mondo – potrebbe non durare a lungo, forse neanche fino alla fine dell’anno» si legge nella relazione del 15 luglio pubblicata ieri dal quotidiano inglese The Guardian. Gli esperti dell’Onu spiegano che nonostante la sconfitta e perdita del territorio in Siria e Iraq, si temono nuovi attacchi «ispirati dall’Is (Stato islamico, nda), possibilmente in luoghi inattesi». E la minaccia in Europa «resta alta». Almeno 30mila combattenti che si erano uniti al Califfato sono ancora vivi. Dall’Europa sono partiti fra i 6mila e 8mila volontari della guerra santa. Si calcola che il 30-40% sia stato ucciso e il 10-15% è stato catturato. Secondo il rapporto Onu «fra il 30 e 40% è tornato in Europa». L’ultima relazione semestrale dei servizi segreti al Parlamento ribadisce che la minaccia jihadista «non ha in realtà mai conosciuto flessioni». I combattenti tornati nel Vecchio continente, che sono stati monitorati, risultano 1700 compresi 400 nei Balcani. La pericolosità, secondo la nostra intelligence, «risiede nel profilo stesso dei reduci, potenziali veicoli di propaganda e proselitismo, nonchè portatori di esperienza bellica e di know-how nell’uso di armi ed esplosivi». I volontari della guerra santa legati al nostro Paese non arrivano a 150. Una cinquantina è morta sul campo, ma di recente è stato prelevato dal nord est della Siria e portato a Brescia, Samir Bougana, il primo terrorista italiano dell’Isis fatto prigioniero dai curdi, che sarebbe pronto a collaborare. I servizi segreti hanno confermato le «numerose allerte su pianificazioni terroristiche da realizzare in Occidente o contro obiettivi occidentali ad opera di singoli, micro-nuclei o cellule strutturate, delle quali è stato più volte segnalato l’approntamento in modalità “dormiente” anche in ambito europeo». L’Onu sottolinea che i resti dello Stato islamico hanno ancora a disposizione un tesoretto che va da 50 a 300 milioni di dollari. «Quando avrà il tempo e lo spazio per reinvestire in capacità operative esterne – evidenzia il rapporto – l’Is ordinerà e faciliterà attacchi internazionali». Un altro campanello di allarme è la radicalizzazione nelle carceri europee dei terroristi catturati. «I programmi di deradicalizzazione non si sono dimostrati pienamente efficaci – si legge nel rapporto Onu – I combattenti più duri condannati a pene più lunghe restano ancora pericolosi e continuano a porre una minaccia sia all’interno che all’esterno del sistema penale». Però il vero allarme è che si sta avvicinando il rilascio della prima ondata di jihadisti arrestati dopo il rientro in Europa dal Califfato. E sul terreno si teme che i seguaci delle bandiere nere ancora in circolazione «potrebbero unirsi ad al Qaeda o potrebbero emergere altri brand internazionali» del terrore. L’uccisione di Hamza, il figlio di Osama bin Laden, erede designato è un duro colpo. Anche il successore ufficiale, Ayman al Zawahiri, sarebbe troppo anziano ed in cattive condizioni di salute per gestire la rete del terrore. In un recente studio dell’Icsa, fondazione che in Italia si occupa di intelligence, difesa e sicurezza viene prefigurata una «nuova alleanza fra le metastasi jihadiste» di Al Qaida e Stato islamico. Il collante è ideologico e punta ad un solo obiettivo: «La ricostituzione del Califfato».
5 nantes
La rivolta di Nantes contro la polizia “La verità su Steve” La festa techno, il raid, i misteri: scontri e arresti dopo il ritrovamento nella Loira del corpo del ragazzo. E ora il ministro finisce sotto accusa
In migliaia sono scesi in piazza nel centro di Nantes per ricordare Steve. In sua memoria è stato dipinto un murale.
Repubblica pagina 17
6 cinese
Torna la superstar cinese “Mai più senza il partito”
Fan Bingbing è la più celebre attrice del Paese Travolta da scandali fiscali, fa mea culpa per riprendersi la gloria
Vivo un momento buio della mia vita e della mia carriera, ma ho potuto riflettere sui miei desideri futuri
Non sarei diventata nessuno senza il partito comunista e senza le valide scelte dello Stato cinese Non si può avere sempre il meglio: sono a un bivio e nonostante il dolore sento che devo andare avanti
di Steven Lee Myers su Repubblica a pagina 21
— Per più della metà della sua vita l’attrice Fan Bingbing è stata un’icona della fiorente industria cinematografica e televisiva cinese, trasformandosi da ragazza della porta accanto, come appariva nei primi ruoli, a star internazionale e celebrità della moda. Poi, lo scorso anno, la sua carriera è stata turbata da uno scandalo fiscale che l’ha fatta cadere in disgrazia agli occhi del pubblico e ha infangato tutto il settore. «Non è mai tutto rose e fiori», racconta Fan con calma rassegnazione – forse studiata – nel corso della rara intervista che ci concede, la prima da quando è scoppiato lo scandalo. Lo scorso anno Fan è sparita per quattro mesi e la sua misteriosa assenza ha impensierito milioni di fan e i colleghi del cinema. All’insaputa di tutti, l’attrice è stata costretta a una sorta di arresti domiciliari mentre le autorità indagavano sulla sua lunga e redditizia carriera di attrice, astro del red carpet, volto di marchi del lusso e imprenditrice di successo. Oggi Fan, 38 anni il mese prossimo, rientra in punta di piedi in una società che un tempo la riveriva. «Forse sto vivendo un momento buio della mia vita e della mia carriera, ma in realtà è positivo», dice. «Mi ha fatto riflettere con più calma su quelli che sono i miei desideri per il futuro». Recentemente l’attrice è ricomparsa su Weibo, la versione cinese di Twitter, pubblicando a beneficio dei suoi 62 milioni di follower una serie di post che la mostrano a eventi di beneficenza e annunciando la rottura con il fidanzato, Li Chen, attore e regista. Il mese scorso è anche apparsa su Instagram nell’anteprima di “355”, un film prodotto dalla regista americana Jessica Chastain. La sua partecipazione alla pellicola — un thriller d’azione – era stata in forse da dopo lo scandalo. Molti altri suoi progetti lo sono tutt’ora. Uno dei suoi ultimi film, “Air Strike,” è stato bandito dai cinema. E c’è voluto tempo perché i marchi del lusso che si erano allontanati da lei la richiamassero. La reazione online alla sua partecipazione a un reading di poesia a Pechino il mese scorso è stata durissima. «Il nostro Paese non dovrebbe permettere a questo genere di persone di influenzare la nuova generazione» è stato scritto. Ora che sta tentando di tornare alla ribalta si può trarre un primo bilancio dei danni subiti dalla sua reputazione e da un’industria che la Cina intende utilizzare come vettore di soft power in tutto il mondo. In ottobre è stato rivelato da fonti cinesi che a Fan era stata imposta una multa da 70 milioni di dollari tra tasse evase e sanzioni, mentre alla sua casa di produzione è stata notificata una cartella di pagamento di più di 60 milioni di dollari. Quello stesso mese, nella sua prima dichiarazione pubblica dal giugno, Fan ha espresso il suo pentimento. All’attrice è stata risparmiata l’incriminazione per reati penali, ma il suo manager è stato arrestato: nonostante la sua fama, o forse proprio a motivo di essa, le autorità hanno voluto darle una punizione esemplare in un periodo in cui scelgono la linea dura nei confronti internet, dei giornalisti investigativi e persino di orecchini e tatuaggi, reputati in contrasto con «i fondamentali valori socialisti». Con la vicenda di Fan l’avvertimento ora è arrivato anche all’industria cinematografica. Il fatto che Fan abbia avuto tanti problemi con la giustizia crea sorpresa perché non si tratta di un’artista dissidente, bensì della rampolla di una famiglia di attori iscritti al partito comunista. L’ultimo grande film che ha interpretato è Sky Hunter, un omaggio a Top Gun, realizzato col la collaborazione dell’Esercito di liberazione del popolo. E non a caso tornata in libertà, Fan ha dichiarato che non sarebbe mai stata nessuno «senza il partito e le valide politiche dello stato». Nata nel 1981, Fan è cresciuta a Yantai, città portuale sul Fiume Giallo. Dopo aver studiato recitazione a 16 anni ha interpretato una fiction tv ambientata nel diciottesimo secolo, “La mia bella principessa”, che l’ha fatta conoscere. È stato il suo ruolo di debutto sul grande schermo a porre le basi di quella che, 15 anni dopo, sarebbe stata la sua rovina. Nel 2003 Fan interpretò l’amante di un conduttore tv in un film dal titolo “Cellulare”. Un vero conduttore televisivo, Cui Yongyuan, accusò il regista di diffamazione perché la pellicola conteneva riferimenti alla sua carriera. Quando Fan nel 2018 ha annunciato il sequel del film, Cui, furioso, ha postato online le foto dei contratti dell’attrice. Il primo riportava un compenso fittizio di 1,6 milioni di dollari, il secondo il compenso effettivo pari a 7, 8 milioni. Le autorità hanno accusato Fan di aver falsificato i contratti quattro volte. A giudizio di Fan l’industria cinematografica dovrebbe «calmarsi e riflettere» sui propri errori – come lei sostiene di aver fatto. Nel corso dell’intervista, svoltasi in uno studio di Pechino dove l’attrice posava per l’edizione vietnamita di Harper’s Bazaar, Fan è apparsa rilassata e fiduciosa. Avvolta in una vestaglia rossa, ancora truccata e acconciata per il servizio di moda, si è mostrata pentita, senza però entrare nel dettaglio della sua vicenda. «È impossibile avere sempre il meglio» – ha detto, definendosi «a un bivio». Resta da vedere quanto i fan e il governo si mostreranno aperti al suo ritorno. Fan si dice pronta alla prossima scena, qualunque cosa comporti. «Nonostante il rammarico, il dolore e la fragilità sento che devo andare avanti». — Copyright New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi
7 scrocconi
Dalla Thailandia alla Cambogia aumentano le espulsioni: “Se lo facessimo noi nei vostri Paesi saremmo subito deportati come clandestini” L’Asia in rivolta contro i turisti occidentali “Chiedono l’elemosina per viaggiare gratis”
I cosiddetti “begpackers” sono visti come un insulto ai veri poveri
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I l cartello scritto con pennarello su un cartone ammicca: «Ciao, sono Sergey, sto viaggiando in Asia da 5 mesi. Hong Kong è stupenda ma così costosa. Purtroppo, ho finito i soldi. Ti prego, aiutami». Lo vedi lì, il russo, con quel sorrisetto furbo e simpatico, capello corto, barbetta lanuginosa sotto al mento, un po’ hipster, guance e naso lucidati dal sole. Magari ci pensi anche. Ad aiutarlo. Poi lo trovi due mesi dopo in short, canottiera e sandali. Cartello identico, ora anche in cinese. Dice che sta viaggiando nel continente, ma per 10 mesi. Si vede che il business del mendicante funziona. E va di moda. In Asia, l’epidemia di falsi turisti nei guai sta diventando un affare serio. Li hanno definiti «begpackers», unendo «begging» (chiedere l’elemosina) e «backpacking» (fare i saccopelisti). Saccopelisti-mendicanti. Le strade di molte capitali asiatiche, da Bangkok a Seoul, sono sempre più ingombre di ragazzotti biondi, castani, rossicci, dagli occhi azzurri o verdi, a volte un po’ straccioni, ma spesso con vestiti freschi d’acquisto. Chiedono aiuto. E che c’è di male? In realtà molto, perché in Paesi come Cambogia, Laos, Vietnam, Malesia, India, Indonesia e Tailandia il livello di fastidio per questi finti mendicanti è un problema a volte sanzionabile, se recidivo, con un mese di prigione. Bambini sfruttati Una coppia di giovani mendicanti russi è stata arrestata in Malesia perché, elemosinando, tirava in aria un bebè col pannolino, stringendolo per i piedi. Il video fa rizzare i capelli. E ha fatto scattare la polizia. Poi c’è Party Big Ben, il tedesco Benjamin Holst che per impietosire mostrava una gamba gonfiata dalla macro-distrofia lipomatosa. Racimolava così 1500 euro, che spendeva in prostitute e alcol. La stampa tailandese l’ha soprannominato «il tedesco più odiato in Tailandia». Deportato. Un’altra tedesca è stata espulsa perché mendicava con una bimba nel passeggino, giurando: «Mi hanno rubato la carta del bancomat». Per due anni di fila. Questi sono i casi più noti, ma, in media, si tratta di un esercito di turisti della finta povertà vissuta come status symbol, come esperienza cool, scelta ideologica, sfida al sistema. Frotte di ragazzi bianchi che riempiono le strade di implorazioni: «Aiutaci a viaggiare attorno al mondo», «Giro del mondo senza soldi! Aiutateci». «Sostieni il nostro viaggio attorno al mondo». Come se il giro del mondo fosse un diritto inalienabile. C’è la coppietta carina che vende abbracci, chi le foto delle vacanze. Alcuni chiedono spicci, ma hanno smartphone e macchine fotografiche da centinaia di euro. Vengono da Paesi occidentali ricchi, chiedono l’elemosina nei Paesi poveri. Esternano quell’entusiastica, positiva e simpatica complicità globalista da millennial della società liquida e precaria. Allegramente liberi di vivere la loro fantasia da orientalisti, approfittando di un retaggio del colonialismo: il complesso d’inferiorità, inconscio, verso i bianchi. I nuovi figli dei fiori La moda persiste da anni, ma ha raggiunto lo zenith, irritando sempre più asiatici. E ha responsabili specifici. Primi fra tutti, i begpackers che nei blog insegnano le loro tecniche e invitano ad imitarli. C’è chi ci prova con le collette su GoFund o Kickstarter. Chi la butta sulla beneficenza, come l’osannata Laura Bingham, che nel 2016 ha girato in bicicletta tra i poveri per 7000 km, senza mai pagare un euro. Il «Guardian» l’ha intervistata acriticamente come pioniera di tendenza. Rob Greenfield ne ha tirato fuori un reality per «Discovery Channel» che si chiama «Free Ride» (La scroccata): un avventuriero di professione per 72 giorni twitta i suoi viaggi gratis rubando lavoretti a poveri che ne hanno realmente bisogno. Il tutto sulla scia di un moderno Grand Tour, di una Wanderung sentimentale, di quei percorsi, dal romanticismo al decadentismo, che portano all’evasione e alla fuga. «On The Road» per ipocriti mendicanti: ribellione al comfort borghese, ma sulla pelle dei Paesi ancora in via di sviluppo. La rabbia dei residenti Se ancora non afferrate il problema, è per una questione di prospettiva culturale. Chi vive in Asia, e vede quotidianamente esempi di vero bisogno, non riesce a capacitarsi del livello di cattivo gusto e scarsa etica di questo glamour del viaggio a scrocco. Chi vive in questo modo, nella maggior parte dei casi, non è un vero turista in difficoltà. Per questi ci sono i consolati. Sono giovani che «fanno i poveri» su Instagram per rendersi interessanti, provenienti spesso da contesti familiari abbienti o benestanti. Vengono spesso da Paesi nordeuropei o dalla Germania, dove la disoccupazione giovanile è al 7,7%, la più bassa in Europa. Insomma, è una posa. Sui social tailandesi li odiano: «Pigri», «disgustosi», «imbarazzanti», «patetici». Un commentatore riassume il tema: «Ci sono così tanti poveri in Tailandia che hanno davvero bisogno di elemosina. E non per farsi un viaggetto. Odio questo genere di turisti». Un australiano si vergogna: «Se puoi permetterti un volo, puoi permetterti di stare a casa e risparmiare finché puoi pagarti andata e ritorno e albergo». Il problema scatena le ire di Raphael Rashid, bengalese trapiantato da anni in Corea del Sud. Professione: «begpacker buster», acchiappa saccopelisti-mendicanti. Rashid perlustra Seoul postando video di begpackers, che denuncia alla polizia. «È un imbroglio, è illegale, è un insulto ai poveri e ai turisti veri. Il viaggio è un lusso, non una necessità. La povertà non è un’esperienza cool. Fanno leva sul complesso d’inferiorità che alcuni asiatici hanno verso i bianchi, trovando incomprensibile che il “potente occidentale” sia in una posizione inferiore di povertà o disperazione. Appare come una situazione sbagliata cui rimediare aiutandolo. Ma è tutta una recita». Pure Nandini Balakrishnan, commentatrice indiana, sul gruppo Facebook di denuncia «Begpackers in Asia», in un video, grida: «Se vengo a fare la begpacker nel vostro Paese, mi deportate subito come clandestina! È disgustoso. Smettetela di approfittare della nostra gentilezza fingendo d’essere poveri qui da noi dove la povertà c’è davvero. Tornatevene a lavorare!». O, come dice l’opinionista Majda Saidi: «Il dibattito esiste perché si tratta di bianchi. Un mendicante occidentale, ma dalla pelle scura, in Asia non verrebbe proprio considerato, mentre i begpeckers di pelle scura in Europa si chiamano profughi». — cBY NC N
8 viva litaliano
Elogio dell’italiano. La struttura della nostra lingua induce ad argomentare secondo principi oggettivi: per questo dovrebbe avere un ruolo rilevante nel mondo contemporaneo L’idioma della chiarezza
Daniela Marcheschi sul Domenicale del Sole a pagina 21
«La parola sovrintende nel laboratorio dell’universo»: in una scrittura ricca di immagini per colmare il discorso di aperture e dati conoscitivi, Campa offre la chiave dell’avventura concettuale del suo recente volume. Studio ponderoso insolito, perché la riflessione vi si snoda in serrata concatenazione dei ragionamenti da meditare; in ampiezza di orizzonti culturali e molteplicità di riferimenti. Fra storia e filosofia, letteratura e linguistica, antropologia e scienze esatte, musica e psicanalisi, arte e politica, Campa – professore emerito di Storia delle Dottrine politiche a Siena – tratta le vaste implicazioni epistemologiche, nella società contemporanea, della lingua: risorsa che consente alle «diverse postulazioni concettuali» d’interagire fra loro, nel compendio di giudizi e argomentazioni «con i quali si esplica la temperie sociale». Il concetto stesso di frontiera linguistica si fa pluridimensionale nella realtà socialmente, economicamente composita dell’Europa odierna. Malgrado contrasti e strappi, s’impone una visione della nostra identità quale immedesimazione culturale multietnica e plurilinguistica, entro un’attitudine di dialogo e interrelazioni da costruire con una coscienza democratica nuova. Nella Babele attuale per intendersi le comunità internazionali devono disporsi a una concessione appunto linguistica, per delineare un’area di comprensione e scambio informativo/comunicativo adeguati. L’adozione della lingua inglese a passe-partout dello scambio verbale ne è effetto. Con il suo patrimonio di tradizioni ogni lingua esprime però un mondo di contenuti, caratteristiche conoscitive ed epistemologiche peculiari, e irrinunciabili: così concorre al pluralismo, a una complementarità conoscitiva che, solo nella complessità, può essere utile a ulteriori conquiste intellettuali e civili. L’italiano ha una stratificazione sontuosa di lasciti storici: latino in primis, poi greco, longobardo, arabo, normanno, spagnolo, albanese, eccetara; il rumeno, parlato dall’intera popolazione senza significative varianti, si tiene stretto a quello della latinità. Né va scordato che la giobertiana «repubblica delle lettere», all’insegna della geografia e della storia d’una Italia molteplice e così naturalmente europea, fa riscontro alla società delle corti, dei salotti e dei teatri dell’epoca moderna in «una dimensione culturale sovranazionale e transconfessionale», che Francia, Spagna e Italia stessa hanno saputo serbare in «una propensione unitaria verso la conoscenza e la rappresentazione della stessa nelle sue estrinsecazioni umanistiche, scientifiche, artistiche, religiose». E nel XIX-XX sec. il portoghese giunge a saldare due universi espressivi, iberico e brasiliano, modulati dalla nostalgia: alla riflessione esistenziale di Machado de Assis fa pendant la scrittura degli eteronimi di Pessoa. I molteplici orizzonti linguistici, ragionativi, possono trarre dal paradosso di un monolinguismo aggressivo. Nel trionfo dell’economia, della propaganda pubblicitaria e della società neotecnologica, l’inglese è assunto a lingua di una presunta esattezza scientifica a priori e più usato come veicolo di omologazione: che manipola e realizza imprecisioni, ambiguità, deformazioni concettuali, e gioca al ribasso in molti ambiti. Le culture scientifica e umanistica sono spesso contrapposte, mentre la loro complementarità consiste nell’interazione che animano da sempre. Non per nulla, la «letteratura più accreditata a livello mondiale è rappresentata da cultori di discipline scientifiche e tecnologiche»: gli ingegneri Dostoevskij, Musil o Gadda; l’assistente farmacista e studente di medicina Ibsen; i medici Céline e Bulgakov; il chimico Primo Levi. Il minimalismo conoscitivo dell’inglese dovrebbe servire solo «per intendersi in linea di principio», chiuso com’è ora in una emissione standardizzata da «schematismo congressuale» e «per gli affari, i viaggi e il turismo». Del resto è scritto in italiano il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (Per Giovanni Battista Landini, 1632) di Galileo: la moderna cosmologia. Dunque la nostra lingua può fornire alla conoscenza convenzioni universali, come già il latino con la consecutio temporum. Se lo stesso relativismo e la crisi del linguaggio poggiano nell’idea errata che la verità oggettiva sia sinonimo di verità assoluta, fra scetticismo e dubbio sistematici vince una neosofistica fautrice della convenienza pratica; mentre grazie a Socrate il concetto è l’acquisizione oggettiva delle esperienze individuali. L’opinione corrente «non ha senso se non è suffragata da un’intesa concettualmente vincolante. I sofisti contemporanei evocano l’orda vandalica che precede la riflessione socratica». Nel teatro dell’assurdo, la parola di Beckett «vagola vagabonda senza essere intristita della sua versatilità»; e per Sartre il linguaggio è inadeguato «a declinare le performances della materia nel suo stadio primigenio». La frattura fra il linguaggio e la realtà, fra attendibilità e precisione è però solo apparente: il primo può trovare una energia esplicativa in una misura capace di «conferire alla realtà un grado di rilevazione oggettiva». Per Cervantes, Shakespeare, Goethe, Balzac, c’era una relazione organica fra la realtà oggettiva e l’immaginazione; e per Pound è ancora la letteratura «l’unico strumento in grado di animare e vivacizzare la locuzione e la descrizione». In Estetica e romanzo Bachtin scrive non a caso che la lingua «per la coscienza che vi vive, non è un astratto sistema di forme normative, ma una concreta opinione pluridiscorsiva sul mondo». Per questo – come compresero Leopardi e anche l’austriaco Kraus con la rivista satirica «Die Fackel» (1899-1936) –, il compito preminente degli intellettuali è combattere contro ogni forma di abbandono della cultura, di approssimazione e contro gli stereotipi, evidenziando «la traiettoria cognitiva compiuta dalle comunità» anche quelle in apparenza meno concludenti. Confidando nelle proprie tradizioni, la lingua italiana può perciò ritagliarsi un ruolo nel mondo contemporaneo, ruolo di cui i nostri intellettuali devono assumere la responsabilità storica. Per Campa il declino della lingua latina nel curriculum studiorum delle ultime generazioni degli Italiani «ha inferto una lesione storica alla lingua italiana», che per declinazione è «destinata a perpetuare, per committenza intellettuale, la consecutio temporum e i periodi ipotetici: il corrispettivo in chiave narrativa e dichiarativa della segnica universale delle scienze matematiche, fisiche, biologiche, speculative.[…] La coerenza nei tempi verbali induce l’espressione ad argomentare secondo principi intellettualmente ineludibili e consentirebbe alla dialogazione di investigare nel verso della cognizione oggettiva. La salvaguardia della disquisizione democratica è correlata alla verbalizzazione dei pensieri che ambiscono ad accrescere il senso della condizione umana». Nel convivio greco, dove si univano alto e basso, festa e pensiero, c’erano valori che rendevano l’uomo tale. Uno è proprio la conversazione, lo scambio del Simposio platonico nella e per la lingua, capace di suscitare dialogo e confronto: il chiarimento delle varie teorie conoscitive. Il convivio linguistico di Campa, fra concretezza dei dati e slancio dell’utopia, è una proficua immersione nella cultura europea e un antidoto concettuale salutare contro le ontologie linguistiche e metafisiche disseminate ancora in tanta nostra letteratura contemporanea. © RIPRODUZIONE RISERVATA
9 cita cita…
Stefano Lorenzetto Tutte le più belle citazioni sbagliate
Gino Ruozzi sul Sole a pagina 22
«Elementare, Watson!»; «Madame Bovary sono io»; «Il fine giustifica i mezzi»: chi l’ha detto? Certamente lo sappiamo (o crediamo di saperlo): Sherlock Holmes, Gustave Flaubert, Niccolò Machiavelli. Sembra tutto evidente e invece non è così. Nel Dizionario delle citazioni sbagliate Stefano Lorenzetto in modo affabile e minuzioso ci mostra che le cose sono più complesse, che spesso si attribuisce a Caio quello che ha detto Sempronio e che per lo più, quando citiamo, ricordiamo in modo sbagliato. Niente di particolarmente grave, la storia della conversazione e quella della letteratura sono strapiene di citazioni sbagliate e di erronee attribuzioni. Sovente per farci belli e interessanti e rafforzare la credibilità di quello che affermiamo noi azzardiamo citazioni che sono luoghi comuni e che come tali si riproducono in maniera meccanica, giusti o sbagliati che siano. La citazione è un fortunatissimo genere letterario che affonda le radici nell’antichità e sale con crescente moltiplicazione mondana e mediatica fino a noi. Si pensi alle raccolte di detti memorabili di Valerio Massimo, di Plutarco, dei padri del deserto, ai fiori medievali e agli adagi di Erasmo da Rotterdam, ai numerosi dizionari anglosassoni di quotations e al magistrale Viking Book of Aphorisms di Auden, allo storico Chi l’ha detto? di Giuseppe Fumagalli, al Dizionario antiballistico di Pitigrilli e a Cardarelliana di Leone Piccioni, al Dizionario delle sentenze latine e greche di Renzo Tosi. La citazione costituisce inoltre una struttura retorica fondamentale in una quantità di opere, nei Saggi di Montaigne come nella Storia della mia vita di Casanova. Come controllare l’esattezza delle citazioni? Senza dubbio col ricorso puntuale ai testi. Va però anche detto che spesso la citazione sbagliata è la prova migliore del suo successo. Lorenzetto fa illustri esempi, dal «Non ti curar di lor, ma guarda e passa» di Dante (il cui testo preciso è «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa», Inferno, III, 51) alla scivolosa e altrettanto celebre esortazione «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani», attribuita per lo più a Massimo d’Azeglio e probabilmente frutto di una sintesi concettuale di Ferdinando Martini. Come spesso capita, più si approfondiscono le cose più sorgono dubbi e domande, ma questa fertile incertezza è nella natura stessa della ricerca. Pure Machiavelli non ha scritto «Il fine giustifica i mezzi» (ma l’avrà forse detto? Questo, naturalmente, non lo possiamo accertare). È tuttavia vero che si tratta una ricapitolazione incisiva e memorabile (anche se riduttiva e fuorviante) del suo pensiero. Così come Conan Doyle non ha fatto pronunciare a Sherlock Holmes il notissimo «Elementare, Watson!», che è però diventato l’emblema della sua genialità investigativa. E neppure Flaubert ha mai scritto «Madame Bovary c’est moi», l’illuminante e ambigua frase che ricorre innumerevoli volte quando si parla di lui (e di lei). Insomma un libro utile e divertente, «il che», direbbe Giovannino Guareschi, «è bello e istruttivo».
10 Farmaci
Invecchiamento della popolazione Troppi farmaci non allungano la vita
Silvio Garattini sul Sole a pagina 26
L’invecchiamento della popolazione dipende certamente dal miglioramento dell’igiene e delle cure mediche, ma anche dalla ridotta natalità. Ogni anno a fronte di oltre 600mila morti si hanno solo 400mila nascite e perciò la classica piramide che descriveva la popolazione con una larga base di giovani e pochi vecchi sta divenendo sempre di più una piramide rovesciata. Anche a causa della resistenza degli italiani ad adottare buoni stili di vita, l’invecchiamento determina maggiori malattie. Mentre in passato la popolazione vivente aveva una malattia, oggi ne ha due, tre e anche quattro, siamo cioè di fronte a una polimorbidità. Molte ricerche, incluso lo studio Reposi frutto della collaborazione fra Istituto Mario Negri e Policlinico di Milano, hanno documentato come la polimorbidità si accompagni a un alto utilizzo di farmaci. Basti ricordare che circa il 70 % dei farmaci si impiega nei soggetti con più di 65 anni. Di fatto ciò che succede è che ogni specialista somministra i suoi farmaci, aggiungendoli agli altri, per cui è abbastanza comune trovare persone anziane che devono assumere 12-15 farmaci al giorno, mettendo a dura prova l’anziano e i suoi familiari nel seguire la sequenza di prodotti da somministrare. Normalmente non si nega a nessuno una statina per diminuire il colesterolo, un poco di farmaci antidiabetici, un’aspirina a scopi preventivi, un paio di farmaci antipertensivi, un «omeprazolo» per evitare danni gastrici, un sedativo, la vitamina D con un po’ di calcio e un integratore alimentare. La medicina difensiva accentua queste prescrizioni, perché i medici temono di essere portati in tribunale; d’altro canto anche i familiari si allarmano, se qualcuno pensa di diminuire i farmaci prescritti. Tutto ciò genera poi molti effetti collaterali, che bisogna contrastare con altri farmaci. Dati recenti ci ricordano infatti che i pazienti sottoposti a politerapie hanno nel 43% dei casi dolore, prurito nel 14%, disturbi intestinali nel 37%, senso di fatica nel 68 % dei casi e così via. Disturbi che in molti casi spariscono togliendo i farmaci. Naturalmente qualcuno può pensare che purtroppo, se si vuol star bene, questi farmaci bisogna assumerli, tanti o pochi che siano. Invece non è così perché si cercherebbe invano nella letteratura scientifica uno studio clinico controllato che permetta di stabilire se sia meglio assumere 15 farmaci anziché 10 o 5. Sono ricerche che è difficile possano essere svolte dall’industria farmaceutica, mentre dovrebbero essere il compito della ricerca indipendente, se fossero disponibili adeguate risorse. Occorre infatti stabilire l’appropriatezza dell’impiego di tanti farmaci. La decisione di effettuare una prescrizione deve essere presa collettivamente dal gruppo degli specialisti, guidato dal medico di medicina generale, che conosce il paziente meglio degli altri. Si dovrebbero stabilire delle priorità sulla base della gravità delle malattie o dei sintomi, ma anche tenendo conto dell’efficacia e degli effetti collaterali dei singoli farmaci. Molto spesso accade che la rimozione di un grave sintomo automaticamente allevia anche la severità di altri sintomi. È necessario che la discussione di questi problemi inizi dall’Università, dove ancora oggi manca un insegnamento orientato alle polipatologie, e prosegua attraverso l’educazione continua che, come spesso capita nel nostro Paese, è obbligatoria, ma senza sanzioni! Presidente dell’Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri © RIPRODUZIONE RISERVATA
10 Immobiliaristi
Approvato il piano per i centri storici. A Roma ci penseranno gli immobiliaristi
La regione Lazio ha approvato il piano per la tutela del patrimonio dei centri storici; così per i piccoli comuni ma non per la capitale, dove resta il rischio della speculazione
Le associazioni avevano presentato al Pd un emendamento per evitare lo scempio dei Villini storici e quello del drive-in di Mc Donald’s alle Terme di Caracalla
Enzo Scandurpa sul Manifesto a pagina 6
Siamo stati facili profeti (con il Pd alla Regione Lazio, prove di autonomia differenziata, il manifesto dell’1 agosto) ad affermare che la Regione si preparava a fare le prove di autonomia differenziata approvando un Piano senza aver consultato il Mibac riguardo ai vincoli sul paesaggio. All’alba del 2 agosto è infatti stato approvato il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale che, dopo vent’anni, rappresenta uno strumento efficace per la gestione e il territorio della regione Lazio e i suoi centri, ma non per il centro storico di Roma e i quartieri ad esso adiacenti.
Così ha esultato Zingaretti dopo l’approvazione da parte del Consiglio regionale: «Regole chiare su paesaggio e patrimonio». Me se questo è vero per i comuni del Lazio e il territorio regionale, per Roma la musica è diversa e carica di inquietanti premesse. ATTIVISTI E ASSOCIAZIONI (tra le quali molto agguerrita la presenza di «Carte in Regola») hanno passato la notte davanti la sede della Regione nella speranza che il Pd introducesse quell’emendamento presentato perché lo scempio dei Villini storici e quello (non ancora scongiurato) del Drive-in di Mc Donald’s alle Terme di Caracalla fosse solo un triste ricordo. Ma così non è stato. Il comma introdotto è invece un altro, ovvero che per il centro storico di Roma le valutazioni degli interventi saranno esercitate dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma. DUNQUE, IN BREVE, per gli interventi nel centro storico della Capitale resta solo il vincolo Unesco, rimandando al parere non vincolante della Soprintendenza ogni valutazione. Il che significa che d’ora in avanti potranno proliferare interventi, nel centro storico e nei quartieri novecenteschi limitrofi senza essere sottoposti a nessuna autorizzazione vincolante ma solo a «pareri». Tradotto in un linguaggio non specialistico, significa via libera a interventi speculativi: già L’Eurogarden, alle Terme di Caracalla, ha presentato ricorso contro lo stop ai lavori deciso dal Direttore delle Belle Arti, Archeologia e Paesaggio, Gino Famiglietti (purtroppo in via di pensionamento). Ora il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, si prepara a impugnare il provvedimento perché non concordato con il Mibac. In sostanza la Regione Lazio ha fatto tutta da sola ignorando anche le 445 situazioni critiche segnalate. Stefano Fassina ha commentato la notizia affermando che: «il centro storico della Capitale, sito Unesco, viene escluso dal Ptpr e rimane preda di ulteriore scempio edilizi». Ha vinto dunque a Roma il Partito degli immobiliaristi, come sempre, che a Roma è quello più forte, quale che sia il colore della giunta regionale (che attualmente nella Regione è rosso… sbiadito). È COSA DA LASCIARE interdetti: una delle città (ancora per quanto?) più belle del mondo abbandonata agli appetiti immobiliari. Quello del «parere» e non del vincolo, viene di fatto presentato come un compromesso onorevole; ma compromesso con chi e su cosa? La risposta è semplice: con il partito degli immobiliaristi, partito invisibile ma sempre pronto a far valere i propri interessi quando la posta in gioco si chiama speculazione immobiliare e rendita fondiaria. È stato così per il nuovo Stadio della Roma, per il «capannone» del divo Nerone posto sull’Aventino, per tributare un falso modernismo, e ora per l’intero centro storico e quartieri adiacenti. LA PAROLA «compromesso» quando si tratta di una città dovrebbe essere eliminata: la città non è pubblica, ovvero dei suoi abitanti? E perché e con chi essi dovrebbero fare un compromesso e, soprattutto compromesso per cosa? Dovrebbero forse cedere la sua bellezza e la sua vita pubblica a interessi privatistici e per quale vantaggio collettivo? La mancanza di una normativa di salvaguardia per il centro storico più importante del mondo e dei quartieri pregiati ad esso adiacenti, apre un interrogativo inquietante: a quando il prossimo scempio nella Capitale?
10 Giorgio Armani
«Ilmiovinoeiricordi: coraggiosofindabimbo locapiscosoloadesso» Giorgio Armani: «Da piccolo venni ferito da una bomba Il primo amore a 12 anni: lei morì travolta da un camion Ho rifatto l’Emporio Caffè di Milano, è un luogo speciale»
Luciano Ferraro sul Corriere a pagina 23
U n calice di vino dorato apre la porta dei ricordi di Giorgio Armani. È il suo vino. Si chiama Oasi, viene da Pantelleria, dove re Giorgio è in vacanza, nella villa con7dammusi e 180 palme. Armani ricordaescrive, e il bicchiere resta pieno. A 85 anni appena compiuti, non beve più. Ogni giorno si esercita in palestra e lavora molto. Mangia poco, ma controlla ogni dettaglio del suo impero del cibo: 20 tra caffèeristoranti. Compresi i milanesi Nobu (dove resta sempre libero per lui il tavolo 99), l’Armani all’ultimo piano dell’hotel, e l’Emporio da poco rivoluzionato. Il piatto del cuore, i tortelli della mamma, lo trasporta nel suo mondo da bambino. Quando a Piacenza venne colpito da una bomba della Grande guerra, trovata in un campo. Quando morì il suo primo amore, una ragazzina «dagli occhi esotici», travolta da un camion. Ora ha capito: «Ero un combattente, ho avuto coraggio, me ne accorgo soltanto adesso». Quando ha deciso di produrre vino a Pantelleria? «È stata un’idea inaspettata, cresciuta senza quasi me ne accorgessi, come una radice che affonda nelterreno e un giorno fiorisce. Una ventina d’anni fa, ho comprato dei terreni da aggiungere alla casa. E mi sono detto: voglio provare a coltivare delle viti. Le ho fatte arrivare, piantareeoggi vedo i risultati». Perché un passito? «Perché le viti producono uva di Zibibbo. E poi perché è un prodotto tipico di Pantelleria, che racchiude tutto il suo sole ed è conosciuto nel mondo». Cosa vuole evocare con il nomeOasi? «La suggestione del riposo, della solitudine, dell’incontro con gli amici. Oasi si chiama uno spazio dove amo cenare nella mia casa. È uno spiazzo che ho ricreato ombreggiandolo con le palme più alte dell’isola, che provengono da Villa Tasca, Palermo, e che si affaccia sulla vista aperta del mare». A casa, quando viveva con i genitori, si beveva vino?Quale? «Si beveva pochissimo, soprattutto vini piacentini. A mia madre ne piaceva uno che gode oggi di buona fama, il Gutturnio». Cosa ricorda dei pranzi di famiglia? «I primi ricordi sono legati alla figura di mia madre, che cucinava pertutti noi. Erano i suoi cibi del cuore, pietanze semplici, con qualche concessione appetitosa nei giorni di festa. Mi viene ancora in mente il profumo della frittata che aveva preparato per noi ragazzi una volta che andammo in gita al lago. È stata questa sua capacità di rendere tutto naturale e allo stesso tempo speciale a guidarmi sempre, anche quando le scelte di lavoro sono diventate più difficili. Come aprireimiei locali e ristoranti, e dare un’impronta di gusto italiano anche alla cucina». Quali sono i piatti del cuore? «C’è un piatto che riunisce la mia preferenza assoluta, il ricordo della mia infanzia e le mie radici: i tortelli alla piacentina, che qualcuno impropriamente confonde coniravioli di magro. Sono delicatissimi, da condire solo con burro appena fuso e parmigiano. I migliori in assoluto erano quelli che preparava mia madre: ho ancora davanti agli occhi la sua espressione soddisfatta mentre li portava in tavola. I pranzi domenicali preludevano al tanto desiderato momento in cui mio padre si lasciava convincere da meeda mio fratello e ci annunciava: andiamo al cinema». Chi era l’Armani ragazzo? «Un combattente, che non sapeva di esserlo ma ha sempre lottato in un periodo dove ogni giorno era un rischio. Un’esplosione improvvisa mi spedì all’ospedale per 40 giorni, dove mi fecero una terapia mostruosa immergendomi nell’alcol per togliermi la pelle bruciata. Investita da un rimorchio di un camion durante un sorpassomal calcolato,morì il mio primo amore. Aveva9anni e io 12, ricordo ancora la sua carnagione ambrata eigrandi occhi esotici. Quasi tutti i ricordi di quegli anni sono permeati da un senso di emergenza, difuga e di lotta per la sopravvivenza. Qualche volta ho ancora in mente il disagio e l’imbarazzo, la grande tristezza di quelle ultime giornateaPiacenza, con lampi improvvisi di felicità per le mille scoperte che un bambino può fare anche tra le rovine della guerra. Poi ci siamo trasferiti tutti a Milano dove mio padre ci aveva preceduti. E la vita è cambiata. Ho avuto coraggio,mamene accorgo soltanto adesso». Cosa non rifarebbe? «Inutile provare rimpianti. Piuttosto, riflettere sui comportamenti passati aiuta a cambiare il presente, amigliorarlo. Comunque, posso dire che rifarei tutto ciò che ho fatto». Qual è stato il suo giorno più felice? «Vivo nel presenteeil momento presenteèsempre il più felice». Il momento più duro? «Qualche anno fa ho affrontato uno dei momenti più duri e complicati della mia vita. L’ho superato anche peril desiderio fortissimo diritornare ad Antigua, alla piccola spiaggia bianca che mi aveva incantatoeche ero sicuro mi stesse aspettando. Tanto che lì poi ho acquistato una casa». Con cosa brinda? «Se bevessi ancora, con un rosso». Come sceglie i suoi chef? «Premetto che incarnano tutti il mio stile. Ognuno in modo diverso. Scelgo professionisti che dimostrino di avere una grande passione per il loro lavoro: senza protagonismi eccessivi, ma accomunati dal desiderio di raggiungere l’eccellenza». Con quante persone trascorrerà le vacanze? «Con gli amici di sempre, i familiari, qualche collaboratore. Arriviamo fino a 20 persone, ma i gruppi si alternano e c’è sempre una nuova energia». Qual è la giornata tipo? «Posso sembrare molto metodico, ma è un comportamento che mi permette di vivereafondo le mie giornateeimiei impegni. In genere non vado a letto tardi e mi alzo presto perfare un po’ di attività fisica, che mi dà la carica. Con il cibo ho un rapporto equilibrato. Seguo una dieta bilanciata, e sento che il mio fisico trae beneficio da un’alimentazione leggera e sana. Non salto mai un pastoemi ritaglio sempre almeno mezz’ora per sedermi e mangiare correttamente». È vero che non parla mai di lavoro quando èaPantelleria? «Mi piacerebbe, non è possibile. Perché l’azienda non si ferma mai. Ma la mia piccola, meravigliosa Pantelleria è sicuramente il luogo dove riescoastaccare di più». I piatti eivini a casa? «Piatti locali come la pasta al pesto pantesco, o insalate concapperi.O piatti piacentini come i tortelli, o il risotto alla milanese. Anche la pizza, visto che c’è un forno dedicato che amiamo usare la sera… I vini: Donnafugata, ilNozze d’oro di Tasca d’Almerita, il Primitivo… Champagne ogni tanto per l’aperitivo. Oppure Franciacorta». Cos’è il lusso? E l’eleganza? «L’eleganza è un pensieroeun atteggiamento, che mettono in scena la vita, senza strappi né esaltazioni, dove ogni dettaglio suggerisce padronanza e sicurezza. Il lusso può esprimere al massimo livello questa tensione emotiva, ma può anche trasformarsi nel suo contrario». Perché ha scelto di cambiare l’Emporio Armani Caffè di Milano? «Sentivo il bisogno di ripensare l’ambienteela varietà delle offerte, di riprogettare completamente non soltanto lo spazio con giochi di prospettiveedi volumi, ma anche l’atmosfera. Così oggi è diventato Emporio Armani CaffèeRistorante, un luogo speciale, apertoeaccogliente, che per design e cura delfood è lo spirito stesso della contemporaneità». Qual è il suo bagaglio in viaggio? «Amo viaggiare conunbagaglio leggero ma ben organizzato, dove non mancano mai il mio profumo preferito, le magliette blu in cotone d’estate, in cashmere d’inverno, le sneakers bianche». Quali sono i politici di oggi e diieri più o meno eleganti? «Se le premetto che non c’è eleganza nell’abbigliamento senza eleganza di pensiero, mi salva dal rispondere? Per il passato, non ho dubbi: Churchill, Pertini, Mitterrand. E il presidente Napolitano. Per il presente, trovo che il sindaco di Milano, Beppe Sala, abbia un’immagine molto discreta ed elegante. Ho poco da suggerirgli, il suo stile è quello che si addiceaun personaggio politico del suo calibro». Come vede l’impero Armani nel futuro? «Forteeal passo conitempi, sostenuto da un obiettivo sempre chiaro: accompagnare donne e uomini in una quotidianità nella quale etica ed estetica migliorano la vita».
10 Crisi dei campioni
Sei fuori! Accolti da eroi, accantonati come fardelli I super campionisenza più posto in squadra diventati un pessimo affare economico (saranno loro a far esplodere ilsistema?)
Tommaso Pellizzari sul Corriere a pagina 26
F inora carente sotto il profilo canoro, l’estate 2019 ha scovato il suo tormentone da tutt’altra parte, nello spietato mondo del calcio: «Sei fuori dal progetto». Quattro parole, senzamusica,ripetute (più o meno esplicitamente) da dirigenti o allenatori ad alcuni loro calciatori e che riassumono il gigantesco pasticcio in cui alcuni club sembrano essersiinfilati. E raccontato sul «Guardian»dal giornalista e storico del calcio JonathanWilson in forma difavola triste: «Un eroe viene attirato in un regno lontano grazie a promesse di inimmaginabile ricchezza e alla presenza di altri eroi con cui andarein giroafare l’eroe. L’eroe fa l’eroe, ma non così eroicamente come si era immaginato. Allora il re decide che vuole un altro eroe, il che significa che questo se ne deve andare. Ma all’eroe piace la sua rutilante vita e non vuole andare in un altro posto, dove ci potrebbero esseremeno eroi con cui andarein giro a fare l’eroe». Ecco, se l’apologo diventasse mai un film, il casting potrebbe rivelarsi complicato per eccesso di aspiranti protagonisti. Avanti il primo candidato: Mauro Icardi. Presto la sua vicenda all’Inter verrà studiata nelle facoltà di Economia e commercio, in quanto caso esemplare di come si (auto)distrugge il patrimonio di un’azienda. Un giocatore di grandissime qualità (e limiti evidenti) sceglie come procuratrice la moglie: la quale però non ha la minima esperienza in materia e anzi di professione fa altro, il personaggio in tv e sui social. Dove rende insopportabile alla società, ai compagni e ai tifosi il marito-assistito. Fino a quando (febbraio 2019) la società stessa non decide ditogliergli la fascia di capitano. Per poi dichiararlo 5mesi dopo personanongrata, anzi: «Fuori dal progetto». Tanto, pensa la società, lo venderemo facilmenteegrazie a quei soldi lo sostituiremo con Dzeko e Lukaku. E tanto, pensa lui, io me ne vado alla Juve. Che però ingarbuglia tutto virando proprio sul belga dello United, da scambiare colrenitente PauloDybala, candidato n.2al casting in quanto ex «nuovo Messi» di cui la Juve non sa più che farsi. E sì che il neo-allenatore Sarri aveva detto di vedere bene Dybala come «falso nueve». Per due ragioni. La prima è che di «veri nueve» al momento ne ha almeno due: Mario Mandzukic e il terzo candidato del casting,Gonzalo Higuain, ovvero colui che con Sarri alNapoliha realizzato il record di gol in Serie A (36). In più, non è chiaro cosa se ne faccia Sarri di uno come Lukaku, ma sempre meglio che lasciarlo all’Inter, no? A oggi (è bene ripeterlo: a oggi) non sarà lui a rappresentare il Belgio in nerazzurro al posto di Radja Nainggolan. Anche il Ninja, quarto candidato del casting, è «fuori dal progetto» Inter, che l’ha pagato 38 milioni un anno fa, rifiutandone alcuni in più offerti da chi voleva Perisic (ne vogliamo parlare?), altro «fdp» ma solo perragioni tattiche. E poiché nessun club di Champions si è fatto avanti per avere il Ninja (ma dai), lui va in prestito al Cagliari. Tanto, se l’Inter è nell’Europa che conta lo deve proprio a Radja, autore del gol con l’Empoli che ha qualificatoinerazzurri e con cui ha ripagatoisoldi per acquistarlo. Che è un po’ quello che tutto il mondo ha pensato quandoGareth Bale, quinto candidato del casting, segnò lo strepitoso gol contro il Barcellona nella finale di Coppa delRe 2014 (50 metri di scatto palla al piede) o quello del 2-1 nella finale di Champions contro l’Atletico: il Real era rientrato dai 100 milioni spesi per il gallese dal Tottenham. Ma dopo (e nonostante)5anni, 231 partite, 14 trofei, 65 assist e 102 gol (di cui 3 in finali di Champions), l’allenatore del Real Zidane ha fatto sapere che al gallese vuole bene come a Materazzi: «Prima se ne va e meglio è per tutti». Ma Gareth è ancora lì, con lo stipendio di 17 milioni l’anno, a giocare a golf mentreicompagni si allenano. Solo uno è più favorito di lui, nel casting:Neymar. Anche perché lì si tratta di capire chi tra il Psg (che lo ha pagato 222 milioni due estati fa) e il Barcellona — doveONey vorrebbe tornare — lo considera più «fuori dal progetto».Intanto, lo si potrebbe ingaggiare per un altro film. Genere: catastrofico. Trama: un gruppo di club con troppi soldi copre di denaro unmucchiodi giocatori, blindandoli con contratti lunghissimi per alleggerireibilanci e per poterci guadagnare rivendendoli. Una strategia che, però, rende invendibili i giocatori stessi, i quali finiscono per diventare dei macigni, tecnici ed economici. Spoiler (ma neanche tanto): alla fine il sistema esplode. © RIPRODUZIONE
10 Farmaci
GIUSTIZIA
Prostata
L’avete vista tutti. È quella pubblicità televisiva nella quale un uomo di circa 60 anni ha necessità di alzarsi più volte la notte per urinare, e quando rientra in camera la moglie si sveglia, e lui inventa una scusa, (…)
(…) pur di non confessarle il suo intimo problema. Un tipico atteggiamento maschile dettato dal pudore, ed un errore grave, perché i disturbi urinari non dovrebbero essere banalizzati o declassati a semplici fastidi legati all’età, in quanto, se venissero curati già al loro esordio, si otterrebbe un ritardo di almeno un decennio degli importanti ed invalidanti effetti collaterali. Oggi oltre 6 milioni di italiani over 50 sono colpiti da ipertrofia prostatica benigna, un ingrossamento della prostata che affligge il 50% degli uomini di età compresa tra i 51 e 60 anni, il 70% dei 61-70enni, per arrivare al picco del 90% negli ottantenni. In condizioni normali nell’uomo adulto la ghiandola prostatica ha la forma ed il volume di una castagna, è attraversata dal condotto urinario, è posizionata sotto la vescica, ed ha la funzione di produrre liquido prostatico, importante componente del liquido seminale che contribuisce a garantire vitalità e mobilità agli spermatozoi. Quando inizia ad ingrossarsi (può superare anche di due o tre volte le dimensioni normali fino ad arrivare al volume di un mandarino) essa comprime il canale uretrale che la attraversa, ovvero il condotto dove scorre l’urina, riducendone il lume e causandone di fatto una parziale ostruzione, uno strozzamento che interferisce con la capacità di urinare, per cui il sintomo principe, ed il primo a comparire, è l’indebolimento del getto di deflusso, in particolare all’inizio della minzione, che diventa intermittente, a scatti, e che inizia lentamente a non essere più decisa ed impetuosa, perde la forza della sua gittata anche a vescica piena, diventando sempre più debole, e spesso è accompagnata da una fastidiosa sensazione di incompleto svuotamento vescicale, per la permanenza in vescica di un residuo urinario che facilita l’insorgenza di infezioni, nonché la formazione di calcoli. Presto però scompare anche la capacità di dormire in modo continuativo tutta la notte, di fare tutta una tirata dalla sera fino all’alba, perché il sonno viene interrotto dallo stimolo urinario con conseguente necessità di alzarsi una o più volte per andare in bagno (nicturia), e successivamente insorge l’urgenza di svuotare la vescica in modo frequente anche durante il giorno (pollachiuria), con sgocciolamento terminale dopo aver finito di urinare, e le gocce che continuano ad uscire dal prepuzio sono quelle che ristagnavano sul fondo vescicale, quindi sempre acide e di tipo irritativo. LA VITTIMA Purtroppo nella prima fase infiammatoria di questa malattia più del 75% degli uomini non si cura affatto, o peggio ricorre al “fai da te”, soprattutto assumendo vari integratori vegetali, un errore grave, perché questi preparati, non essendo farmaci, non sono curativi, e perché solo il medico può trattare l’ipertrofia prostatica benigna, la quale, se trascurata, può progredire fino a causare ritenzione urinaria con impossibilità a svuotare anche parzialmente la vescica. La vera vittima di una prostata che cresce infatti, è proprio la vescica, la quale, essendo costituita da tessuto muscolare, può aumentare il suo volume ed ispessirsi, per vincere la resistenza ostruttiva della prostata ingrossata che si oppone allo svuotamento, con il rischio di sfiancamento delle pareti vescicali e di sofferenza riflessa degli ureteri e dell’intero albero urinario fino a livello dei reni, gli organi emuntori per eccellenza. È necessario sottolineare che i sintomi dell’ipertrofia prostatica benigna spesso sono comuni e simili a quelli causati del tumore maligno della ghiandola, per cui è sempre necessaria una diagnosi differenziale, tramite esami clinici, ematologici, istologici, ecografici e radiologici, per escludere che si tratti di carcinoma. La visita urologica con esplorazione rettale, seguita da una ecografia endocavitaria, rappresenta ancora un tabù nell’universo maschile, e la maggior parte dei pazienti arriva all’osservazione clinica a malattia già conclamata ed avanzata, quando c’è poco da recuperare, per cui è importante dopo i 50 anni sottoporsi in via preventiva ad una visita specialistica. Ma perché la prostata si ingrossa? Le cause principali di questa patologia benigna sono l’invecchiamento e i cambiamenti ormonali (andropausa) che si verificano nell’età matura, per cui è importante aggredire l’aumento di volume prostatico al suo esordio, quando compaiono i primi sintomi, per ritardare la cronicizzazione della malattia e delle sue complicanze, che possono arrivare all’uso perpetuo del catetere vescicale fino alla rimozione chirurgica dell’intera ghiandola, con effetti permanenti sulla salute sessuale e psicologica dei soggetti che vengono privati di un organo così identitario della mascolinità. I farmaci oggi disponibili comprendono gli inibitori delle 5-alfa reduttasi, ovvero la dudasteride e finasteride, che agiscono sul testosterone responsabile dell’ingrossamento ghiandolare, e gli alfa-bloccanti, che rilassano i muscoli del collo vescicale e dell’uretra prostatica, facilitando il passaggio dell’urina. Come tutti i farmaci, anche questi presentano effetti indesiderati (eiaculazione retrograda, ipotensione ortostatica, vertigini ed astenia), e la finasteride, in una bassa percentuale tra l’1 e il 2% può causare diminuzione della libido e impotenza. LA CHIRURGIA Il trattamento chirurgico non è più invasivo come una volta, si effettua senza aprire l’addome, è lo stesso che viene effettuato per i tumori maligni diagnosticati in tempo, quando sono ancora contenuti nella ghiandola, si chiama T.U.R.P., e si effettua in anestesia spinale con uno strumento detto Resettore, introdotto in vescica dal pene attraverso l’uretra, e dotato di un sistema a fibre ottiche e di un’ansa, tramite la quale si procede a resezione solo della porzione centrale ed interna della prostata, lasciando intatto il resto dell’organo, ripristinando in tal modo il canale urinario ad un calibro congruo a consentire una minzione regolare. La mini-invasività della Turp e la sua rapidità di esecuzione (inferiore ai 60minuti), e la breve degenza (due al massimo tre giorni),lo hanno reso senza dubbio il procedimento chirurgico di prima scelta nel trattamento della ipertrofia prostatica e di alcuni tipi di carcinomi, ma, nel caso della tumefazione benigna, esso viene eseguito solo dopo aver tentato la riduzione ghiandolare con la terapia farmacologica, oppure quando le dimensioni molto aumentate della prostata non lasciano altra scelta. È importante sfatare una leggenda popolare, ovvero sottolineare che questo tipo di operazione, lasciando intoccati i nervi erigendi, responsabili dell’erezione peniena, che hanno un decorso esterno alla prostata, non compromette affatto la potenza sessuale ed il raggiungimento dell’orgasmo, che vengono interamente conservati, ma ha come effetto collaterale l’eiaculazione retrograda nel 70% dei casi, ovvero lo sperma viene eiaculato non più all’esterno ma in vescica, e tale fenomeno è correlato all’abbassamento della pressione a livello del collo vescicale, e quindi a monte dei dotti eiaculatori, cosa che determina una risalita del liquido seminale in vescica, con conseguente impossibilità futura del soggetto operato alla procreazione. L’ipertrofia prostatica benigna è la patologia cronica più frequente negli over 50 dopo l’ipertensione arteriosa, e per evitarla o ritardarla è quindi importante la prevenzione, controllarsi per tempo ai primi sintomi e seguire le indicazioni mediche e farmacologiche, perché, e questo gli uomini lo sanno bene, la prostata può tornare utile anche in età avanzata, invece di diventare sterili o con il catetere fisso da gestire dentro i pantaloni.
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