Buonguorno a tutti. Apertura obbligata per tutti i quotidiani: la crisi e il governo che traballa. Si va dal C’era una volta il governo di Repubblica, al Governo nel caos del Corriere alla Spallata di Salvini al governo della Stampa fino al Salvini sevizia Di Maio del Giornale al “fotografico” Di Maio sotto il treno di Libero. Passando per Salvini tradisce Di Maio e chiede poltrone al Carrozzone del Manifesto. Altri temi del giorno gli ottanta euro di Renzi al centro della manovra della Lega, Trump che rimette nel mirino la Fed, i venti di crisi in Germania (se la Germania ha la febbre, l’Italia rischia una polmonite dice Deaglio sulla Stampa), per finire con l’omicidio di Diabolik e una australiana licenziata per un twet contro il governo. Buona lettura.
Aria di crisi. Salvini rompe gli indugi e dà una spallata al governo. Dopo il voto che dà il via libera alla Tav, un vertice con il premier scongiura la crisi. La Lega chiede la testa di Toninelli, Costa e Trenta. Si affaccia l’ipotesi di un Conte-bis. More
Tav, maggioranza finita. Salvini: qualcosa si è rotto. Respinta la mozione anti-cantieri M5S la Lega vota con Pd, FI e FdI. È scontro. Il Carroccio: non resterà senza conseguenze. E il leader: o si fanno le cose o si va a votare (Messaggero p.2). Bufera dopo il voto sulla Tav Salvini: qualcosa si è rotto (Corriere p.2). Voci di cambi al vertici di Trasporti, Ambiente e Difesa. Rimpasto più vicino. Salvini stoppa la crisi e tratta con gli alleati (Stampa p.3). «Rimpasto e nuovo Contratto». Diktat Lega, dubbi del Colle. Il timore di non ottenere il voto. Sintonia Conte-Mattarella sui passaggi parlamentari se la crisi dovesse evolvere (Messaggero p.3). In aula due governi. Per i gialloverdi l’ora del big bang. Tifo da stadio per lo scontro tra alleati e i leghisti sfottono: “Avete tutti paura del voto”. Salvini e Di Maio nemmeno si guardano (Repubblica p.4).
Disfatte e giochetti. Antonio Polito sul Corriere. More
Se tutto avrà il suo sbocco naturale, la crisi, o se si chiamerà verifica o rimpasto, e quando questo accadrà, dipende dalle manovre dei partiti e dalle convenienze dei leader. Anzi, dalle convenienze di un solo leader, l’uomo che in poco più di un anno ha prima distrutto e poi umiliato la forza di maggioranza relativa uscita vincitrice dalle elezioni, e ormai gioca con lei come il gatto con il topo. Ma la crisi è già virtuale, nel senso inglese del termine: è cioè praticamente in corso.
Una coalizione mai nata. Stefano Folli su Repubblica. More
Ci si domanda quale uso vorrà fare Salvini della sua vittoria. La risposta è già arrivata da Sabaudia: farà quello che sta già facendo da mesi. Una campagna elettorale incessante, a prescindere da quando verranno chiamate le elezioni; una tensione alimentata giorno dopo giorno come se fossimo a un centimetro dall’apocalisse. Nel frattempo il ministro dell’Interno non fa mistero ormai di considerare le istituzioni, e forse anche il rapporto con il presidente della Repubblica, come un mero strumento di manovra. Oppure al contrario, in qualche caso, come un ostacolo sulla via del contatto diretto con il popolo elettore.
Corto circuito fra i gialloverdi sull’orlo della crisi balneare. Marcello Sorgi sulla Stampa. More
Di tutte le possibili evoluzioni dell’alleanza giallo-verde, giunta con ogni evidenza al suo ultimo giro, questa della “crisi balneare” è purtroppo la più rischiosa. La misura del rischio da oggi ce la daranno, come al solito, i mercati finanziari e l’andamento dello spread.
Perché scommetto che non andremo a votare. Alessandro Sallusti sul Giornale. More
Perché Di Maio si fa seviziare da Salvini, mantenendo il sorriso sulla bocca, e non si torna invece a votare al più presto? La risposta è semplice: nessuno è interessato alle elezioni, chi per paura di perdere (Cinque Stelle, Forza Italia e la componente renziana del Pd), chi per paura di vincere (Lega) o di contarsi (Zingaretti).
Salvini punta alle elezioni in primavera. Augusto Minzolini sul Giornale. More
Per lui sarebbe difficile mettere in piedi un Conte bis ora e, poi, togliergli la fiducia tra qualche mese. Il nervosismo del vicepremier leghista nasce proprio dalla consapevolezza che si sta complicando la strada per le urne nel 2020. I segnali subliminali che giungono dal Colle lo hanno messo in tensione: prima l’avviso che non può essere l’attuale esecutivo a gestire le elezioni, per cui ci sarebbe bisogno di un governo elettorale; più di recente, l’avvertimento che con l’approvazione il 9 settembre del provvedimento di rango costituzionale che taglia il numero dei parlamentari, il Quirinale dovrà garantire che l’iter arrivi a compimento prima del voto. La Lega, con gli attuali sondaggi, potrebbe davvero correre da sola e assicurarsi la maggioranza in Parlamento. Così, in teoria, Salvini avrebbe la forza di nominare successore di Mattarella chiunque voglia. «Non penso – commenta Renzi, vittima del famoso referendum – che siano disposti a dare a Salvini il Potere che non hanno dato a me».
Morituri te salutant. Marco Travaglio sul Fatto. More
L’Italietta arrapata dall’afrore del ducetto di turno sta per compiere cent’anni. E non ha mai imparato la lezione. Salvini non è il nuovo Mussolini, semmai il nuovo Ridolini; il 1922 fu una tragedia e il 2019 è una farsa. Ma lo spettacolo delle opposizioni in Parlamento ricorda quello di liberali, socialisti e popolari all’avvento del fascismo. A cui spianarono la strada fingendo o credendo di combatterlo.
Per ora vince Conte. Paolo Mieli intervistato dal Fatto. More
Se chiede il rimpasto, Salvini si indebolisce. Il premier ha reso istituzionali i 5 Stelle e può contare sul sostegno di Pd e FI. Se chi ha ottenuto il 34 per cento alle Europee ora si accontenta di chiedere la testa di un ministro delude gli elettori. Lo scandalo Rubligate potrebbe spaventare il vicepremier non tanto in termini di consenso, quanto per l’isolamento internazionale.
Sorpresa: il partito della nazione alla fine lo ha fatto il Truce. Giuliano Ferrara sul Foglio. More
Le opposizioni si sono lasciate sfuggire l’esperimento macroniano ma basta fare il proprio e l’occasione si ripresenterà.
Il bacio ad alta velocità Zingaretti-Zingaraccia travolge il governo. Claudio Cerasa sul Foglio in prima. More
Il voto sulla Tav certifica che la decrescita grillina è incompatibile con la realtà. Maggioranza saltata, dateci le elezioni.
Abbiamo già visto tutte le illusioni della manovra propagandata da mago Salvini. Veronica De Romanis sul Foglio. More
Seguendo la ricetta del “più deficit”, il rischio è che arrivi il momento in cui Salvini chiederà loro di usare questi risparmi anche per finanziare la sua legge di Bilancio: del resto, non a caso gli economisti della Lega continuano a ripetere che dato l’elevato risparmio privato, il debito pubblico non è un problema. Questa stessa domanda la fece la cicala alla formica nella favola di Jean de La Fontaine. La risposta potrebbe essere la stessa: “Finora hai cantato. Bene, adesso balla”. Purtroppo, a ballare non sarebbe solo Salvini, ma tutti gli italiani, inclusi ovviamente i vacanzieri del Papeete Beach.
Ultimatum Salvini: si cambia o si vota. Maurizio Belpietro sulla Verità. More
Il Capitano leghista pretende un cambio di passo, figure nuove nell`esecutivo e un nuovo cronoprogramma. Il tutto proiettato verso la manovra e tenendo ben presente che, cosi come il cappone non salta in pentola a Natale. I grillini non hanno alcuna voglia di concludere anticipatamente la loro carriera politica. Perché è ovvio che in caso di crisi e di fine della legislatura, almeno la metà degli onorevoli pentastellati non tornerebbe in Parlamento.
Antonio Polito More
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti della storia parlamentare italiana risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza. Se poi la valle in questione è la Val di Susa, si può apprezzare fino in fondo la portata della disfatta subita ieri sulla Tav dai Cinquestelle in Senato, che ne suggella l’anno orribile, delegittima il governo Conte rivelandolo un esecutivo senza maggioranza sulle cose che contano (infrastrutture, autonomie, giustizia e tasse), e mette definitivamente fine alla bizzarra illusione che in politica si possano unire gli opposti in nome del «cambiamento», e governare con un «contratto» l’ottava potenza industriale del mondo. Se tutto questo avrà il suo sbocco naturale, la crisi, oppure se si chiamerà verifica o rimpasto, e quando questo accadrà, dipende dalle manovre dei partiti e dalle convenienze dei leader. Anzi, dalle convenienze di un solo leader, l’uomo che in poco più di un anno ha prima distrutto e poi umiliato la forza di maggioranza relativa uscita vincitrice dalle elezioni, e ormai gioca con lei come il gatto con il topo. Ma la crisi è già virtuale, nel senso inglese del termine: è cioè praticamente in corso. Si vedono infatti c o s e che noi umani abituati alla democrazia parlamentare non avevam o mai visto. Ieri al Senato il governo ha espresso due pareri diversi sulle mozioni in votazione, uno per bocca di un sottosegretario leghista e l’altro di un sottosegretariato pentastellato. Ieri al Senato uno dei due partiti di governo, la Lega, ha votato tutte le mozioni dei partiti di opposizione, ma ha votato contro quella del suo «alleato». Ieri al Senato ministri leghisti e ministri grillini sedevano asserragliati ai due lati opposti del banco del governo, dandosi quasi le spalle, come in una parodia di West Side Story, come i Capuleti e i Montecchi. Perfino le buone maniere sono saltate. Soprattutto, ieri al Senato il maggior gruppo che sostiene il governo ha votato contro una decisione del presidente del Consiglio, che aveva già annunciato il sì alla Tav. E quando un primo ministro, per averla vinta in Parlamento, deve ricorrere ai voti della opposizione, è a un passo dalle dimissioni, perché vuol dire che non dispone più di una maggioranza, e neanche una conferenza stampa può fare finché non ne ritrova una.Tanto più se lamateria del contendereèdefinita in un trattato internazionale, come era nel caso della Tav. D’altra parte questo tema della affidabilità internazionale sta per riproporsi a parti rovesciate e in maniera di certo più esplosiva sulla manovra finanziaria, perché Salvini annuncia alle parti sociali misure che non sono possibili se non rinnegando gli impegni che Conte e Tria hanno preso con Bruxelles sul contenimento del nostro deficit. Bisogna anzi dire, a dispetto di tante chiacchiere sulla sovranità, che viene da ringraziare la provvidenza se i vincoli delle alleanze internazionali e del rispetto dei trattati funzionano ogni tanto da «pilota automatico» ed evitano al Paese di danneggiare se stesso, come sarebbe stato rinunziando alla ferrovia Torino-Lione e come sarebbe se, con il debito che abbiamo, ci mettessimo a sfondare il deficit e a sfidare i mercati. Oggi solo il Generale Agosto e il Capitano Salvini possono decidere di rinviare l’apertura formale di una crisi. Il primo perché è ormai troppo tardi per sciogliere il Parlamento e votare in tempo perle scadenze della legge di Bilancio; il secondo perché sembra aver scelto da tempo la strategia del carciofo, preferisce mangiarsi i Cinquestelle foglia a foglia, e in queste ore sta forzando la mano con Conte, mobilitando le sue truppe, convocando le spiagge (hanno preso il posto delle piazze), per alzare la posta. È probabile che il suo obiettivo sia quello di un rimpasto, per certificare un altro passo avanti nel suo dominio politico, magari prendendo perla Lega il posto di Toninelli, oltreaquello di commissario europeo a Bruxelles, e facendo cadere qualche altra testa a lui invisa. E se il rimpasto si rivelasse impossibile per la resistenza dei ministri o per la loro intoccabilità (Tria), ci dovrebbe allora essere un Conte bis. Qualcosa insomma che metta fine anche formalmente alla stagione della parità formale tra i due alleati e sancisca ciò che i sondaggi già dicono, che cioè Salvini oggi vale il doppio di Di Maio. Se di questo si trattasse, non saremmo però molto lontani dai giochetti della tanto esecrata prima Repubblica. Per ora la maggioranza degli italiani osserva indifferente, talvolta divertita, questa riedizione di Ercole contro tutti che è diventata la lotta politica. Ma che così non si possa andare avanti a lungo lo dicono gli stessi protagonisti, e lo ha sancito senza più ombra di dubbio il voto di ieri al Senato.
Stefano Folli More
Il teatro politico di Ferragosto ha chiuso i battenti a Palazzo Madama con un finale dall’esito fin troppo esplicito e si è trasferito nelle località balneari. Ieri sera il ministro dell’Interno Salvini ha fatto quello che aveva promesso: ha dato il via da Sabaudia a un giro nel centro-sud che coincide con il rilancio di quella campagna elettorale permanente che oggi è il marchio italiano. Nessun annuncio clamoroso, ma la conferma che il padrone del governo tiene sotto tiro Conte e Di Maio e si aspetta che essi ballino al ritmo della musica leghista. Niente di sorprendente, sebbene la crisi del governo Conte sia ormai nei fatti, pur senza essere dichiarata ufficialmente domani o nel prossimo futuro.
Del resto, perché dovrebbe far cadere il governo in piena estate colui che ne sta ricavando il maggior vantaggio, come si è visto giusto ieri con la Tav? Quel che è appena accaduto nel Senato è emblematico: la maggioranza giallo-verde si è dissolta e lo stesso presidente del Consiglio – apparso un po’ in balìa degli eventi – non ha preso finora un’iniziativa per fare chiarezza, come sarebbe doveroso. Nonostante questo, il chiarimento s’impone comunque. E a suonare la campana è il mondo leghista, più intransigente di quanto non sia il suo astuto padre-padrone, Salvini. Peraltro non si era mai vista una contrapposizione così netta fra due ex soci interpreti di istanze sull’Alta Velocità opposte una all’altra. Sorprendente anche l’immagine dei banchi del governo con i due vicepremier e qualche ministro di Lega e Cinque Stelle seduti lì a rappresentare non la collegialità dell’esecutivo, ma le rispettive parti politiche. In mezzo a loro, a dividerli, una poltrona vuota: era quella di Conte e mai come in questa occasione l’assenza del premier si è caricata di simbolismo, metafora di una coalizione forse mai nata, di sicuro morta oggi. I perdenti della giornata sono, manco a dirlo, i Cinque Stelle. Volevano salvarsi l’anima con una mozione no-Tav utile più che altro come messaggio al loro elettorato, ma l’operazione ha avuto scarso successo, almeno a sentire cosa pensa dei “grillini” uno dei leader della Val di Susa, Perino. E l’argomento di Beppe Grillo («Non siamo traditori, non abbiamo abbastanza voti») suona grottesco, considerando che nella primavera del 2018, poco più di un anno fa, il M5S terremotò il sistema raccogliendo il 33 per cento. Oggi appare un partito pressoché privo di iniziativa nonché di classe dirigente, umiliato da un partner onnivoro, sconfitto in una battaglia parlamentare il cui risultato era scritto prima di cominciare. Ci si domanda quale uso vorrà fare Salvini della sua vittoria. La risposta è già arrivata da Sabaudia: farà quello che sta già facendo da mesi. Una campagna elettorale incessante, a prescindere da quando verranno chiamate le elezioni; una tensione alimentata giorno dopo giorno come se fossimo a un centimetro dall’apocalisse («Non andate lontano in vacanza» ha scritto ai suoi, fidando che l’sms sarebbe subito finito sui giornali); un disprezzo ostentato verso i compagni di strada pentastellati: sotto questo aspetto gli attacchi a Toninelli sono altrettante coltellate inferte al povero Di Maio, davanti al quale si apre un bivio insidioso: se difende il debole responsabile delle infrastrutture, offre al leghista il pretesto definitivo per aprire la crisi; se non lo difende e accetta il rimpasto, certifica la propria insignificanza. Nel frattempo il ministro dell’Interno non fa mistero ormai di considerare le istituzioni, e forse anche il rapporto con il presidente della Repubblica, come un mero strumento di manovra. Oppure al contrario, in qualche caso, come un ostacolo sulla via del contatto diretto con il popolo elettore. Perciò non ha esitato in aula a votare le mozioni dei vari gruppi d’opposizione in funzione anti-5S. Per la buona ragione che il problema non era suo ma degli altri. Del Pd in primo luogo; e se vogliamo persino di quel che resta di Forza Italia. Di certo il tema della giornata andava oltre la Tav, che ormai si farà – ne sono consapevoli anche quelli che si oppongono. Il tema era soprattutto politico, ossia riuscire a mettere un bastone fra le ruote della macchina salviniana e farla deragliare insieme al governo Conte. Su questo punto si è avvitato il Pd, e certo non è una novità. Avrebbe potuto scegliere di abbandonare l’aula, magari convincendo gli altri dell’opposizione a fare lo stesso? Calenda e altri lo suggerivano, ma è dubbio che sarebbe stata una tattica migliore. Il Pd negli ultimi anni si è descritto come favorevole alla Tav, basta ricordare l’impegno di Chiamparino. Lo stesso Zingaretti cominciò il suo mandato andando a visitare i cantieri piemontesi. E quando le “madamine” hanno organizzato la grande manifestazione di piazza Castello il Pd era dalla loro parte. Mettersi con i no-Tav a Cinque Stelle per mera tattica parlamentare rischiava di essere un atto di autolesionismo. Oltretutto, con ogni probabilità, non avrebbe modificato il quadro generale: avrebbe solo aiutato i Cinque Stelle a mitigare l’insuccesso mescolando le carte a sinistra. Né si può dire che il Pd abbia puntellato Salvini perché quest’ultimo non ha granché bisogno di sostegni. Diciamo che il centrosinistra ha fatto una scommessa con se stesso e con la sua prospettiva di partito riformista.
Marcello Sorgi More
Di tutte le possibili evoluzioni dell’alleanza giallo-verde, giunta con ogni evidenza al suo ultimo giro, questa della “crisi balneare” – minacciata ma non formalmente aperta, appesa a un rimpasto che vedrebbe cadere la testa del ministro delle Infrastrutture Toninelli, bocciato dal voto del Senato che ha chiesto al governo di accelerare sulla Tav, ma forse non solo la sua, e destinata a diventare l’ennesimo tormentone d’agosto – è purtroppo la più rischiosa. La misura del rischio da oggi ce la daranno, come al solito, i mercati finanziari e l’andamento dello spread. Ma un Paese come l’Italia, ridotto com’è ridotto, difficilmente potrà sopportare a lungo le conseguenze di un azzardo così forte, senza pagarne presto le conseguenze a caro prezzo. La crisi è stata servita su un piatto d’argento a Salvini dai Cinque Stelle, aiutati in parte dal Partito democratico che ha presentato in Senato, nel dibattito chiesto dal Movimento dopo l’annuncio di Conte favorevole alla ferrovia veloce, una mozione concordata fin nelle virgole con la Lega e approvata da una maggioranza trasversale (tutti tranne M5s e Leu). Altre votazioni analoghe e successive, su documenti presentati dai partiti pro-Tav, hanno reso la sconfitta dei grillini più sanguinosa e indifendibile la posizione di Toninelli, contrario alla Torino-Lione e battuto nel voto parlamentare. Di qui la prima richiesta della Lega: fuori Toninelli.
Alla quale, nel drammatico colloquio serale a Palazzo Chigi di Salvini con Conte, se ne sarebbero aggiunte due più pesanti: fuori anche la ministra della Difesa Trenta, che figura ai primi posti nella lista salviniana di “quelli che dicono sempre no”, e quello dell’Ambiente Costa, fresco reduce da una polemica sul giro in moto d’acqua della polizia del figlio del Capitano. Nel mirino del quale resterebbe anche Tria, ministro dell’Economia contrario a un’altra legge di stabilità in deficit per realizzare la flat tax voluta dalla Lega. Ora, quel che i protagonisti di questa vicenda fingono di ignorare, ma non possono non sapere, è che in settant’anni di vita politica repubblicana non s’è mai visto un rimpasto senza crisi. Lo dimostra tutta la storia della Prima Repubblica, nella quale appunto i governi cadevano mediamente ogni otto mesi (tranne rarissime eccezioni) proprio per favorire una rotazione di incarichi, peraltro non nella prima fila di poltrone, che serviva ad accontentare i mutevoli equilibri delle correnti democristiane. Insomma è del tutto fuori della realtà la sola idea che Conte chieda e ottenga le dimissioni di tre ministri, trasformandoli in capri espiatori del malfunzionamento di un’alleanza manifestamente finita per altre ragioni e per incompatibilità dei programmi dei due partiti che la formavano. Ammesso che il premier possa presentarsi al Quirinale con in mano le dimissioni dei membri del suo governo – il che è tutto da vedere – ne riceverebbe la richiesta di dimettersi egli stesso, per verificare con un giro di consultazioni e un passaggio parlamentare, se esistono le condizioni per varare un Conte-bis (se cioè il Movimento Cinque Stelle è disposto ad accettare la pesante umiliazione del licenziamento dei suoi ministri), o più probabilmente avviare lo scioglimento delle Camere, non prima di aver insediato un governo incaricato soltanto di portare gli elettori alle urne. Le cose stanno a questo punto. Salvini e Di Maio sono i primi ad averlo capito e la sensazione, ancora una volta, è che non siano pronti ad andare fino in fondo. Resta il fatto che il fragile equilibrio su cui si reggeva la loro alleanza è saltato e la maggioranza giallo-verde s’è spaccata al Senato sulla Tav. Per rimetterla insieme, occorre che i due alleati-avversari riannodino il filo, scegliendo magari come minimo comune denominatore la caduta della sola testa di Toninelli, che il Movimento consegnerebbe, facendone una sorta di martire della Tav, e circoscrivendo il territorio della rottura alla bocciatura parlamentare del ministro. Un ennesimo rinvio, per paura del peggio, in attesa della nomina del commissario europeo prevista per il 26 agosto, e della resa dei conti finale sulla manovra d’autunno. Al tavolo di un poker in cui i soldi non corrono mai per davvero.
Alessandro Sallusti More
Il governo deraglia, l’opposizione non forza la mano e così il treno della maggioranza, almeno per ora, continua la sua corsa sbilenca, tra scintille e rumori sinistri che non lasciano presagire nulla di buono. In altri tempi, non necessariamente peggiori, ieri si sarebbe aperta formalmente la crisi di governo, perché non è possibile che su un tema sensibile come il via libera alla Tav (coinvolge strategie economiche e di politica internazionale rilevanti) i due partiti che formano la maggioranza votino in maniera diversa (sì la Lega, no i Cinque Stelle). Così come è illogico che il ministro competente, il grillino Danilo Toninelli, non si dimetta all’istante e pensi di potere gestire una pratica, la Tav, su cui si è dichiarato fortemente e assolutamente contrario. Ma questi non sono tempi normali né logici, per cui neppure avendo la sfera di cristallo si potrebbe predire il futuro, se non vedere con chiarezza che la recessione sta per colpire duro in tutta Europa e noi, con questi chiari di luna, siamo assolutamente impreparati a pararla o almeno a mitigarne gli effetti. La domanda più frequente in queste ore è: ma perché Di Maio si fa seviziare da Salvini, mantenendo il sorriso sulla bocca, e non si torna invece a votare al più presto? La risposta è semplice: nessuno è interessato alle elezioni, chi per paura di perdere (Cinque Stelle, Forza Italia e la componente renziana del Pd), chi per paura di vincere (Lega) o di contarsi (Zingaretti). Mi spiego. Se il risultato elettorale fosse simile a ciò che rilevano oggi i sondaggi, Salvini si troverebbe a guidare da solo (o quasi) il Paese e dovrebbe traslocare dal ridente Papeete di Milano Marittima al sobrio Palazzo Chigi di Roma. Dove troverebbe la cassa vuota e fuori dalla porta non cubiste e fan in cerca di un selfie ,ma una fila di creditori imbufaliti (in primis l’Europa) che non si accontenterebbero certo di un tweet e neppure di una battuta o di una pacca sulle spalle. Perché, dunque, infilarsi in un simile vicolo cieco? Perché diventare il leader della bancarotta quando ci sono due volontari, Conte e Di Maio, disposti a farlo al suo posto? L’interesse di Salvini – che non coincide con il nostro bene – è andare avanti così il più a lungo possibile. I fessi, a questo punto, sono i Cinque Stelle che lo lasciano fare. Più che una crisi di governo questa sembra la crisi finale e mortale dei Cinque Stelle.
Augusto Minzolini More
I rituali della crisi sono tutti rispettati. Ci sono gli annunci riservati. Ieri mattina Francesco Zicchieri, coordinatore leghista del Lazio, ha inviato sms ai parlamentari del Carroccio della regione: «Oggi Salvini apre la crisi a Sabaudia». Non quella del Comune, ma quella di governo. Il riferimento a Sabaudia riguardava solo il comizio programmato lì da tempo: la cosa fa un po’ ridere, ma il richiamo alla località balneare ci sta, visto che il vicepremier leghista ha eletto a quarta Camera (dopo Senato, Camera e Porta a Porta) il Papeete di Milano Marittima. Ci sono le provocazioni. La sera (…)
(…) prima Salvini ha confidato agli intimi: «Se fossi Di Maio offrirei la testa di Toninelli». Ci sono le anticipazioni. Ieri Berlusconi ha spedito al Senato Giorgio Mulè nei panni di osservatore: i leghisti avevano fatto sapere che il capogruppo Romeo avrebbe messo all’angolo i grillini e poi Salvini avrebbe dato la botta aprendo la crisi. E c’è, infine, la tradizionale riffa sulle date elettorali. Al sottosegretario all’Interno leghista, Stefano Candiani, un parlamentare ha chiesto ieri mattina: «Si possono fare le politiche insieme alle regionali dell’Umbria il 20 ottobre?». La risposta è stata: «Si può, si può!». Solo che dopo mesi di tira e molla sulla crisi che non arriva mai, gli «al lupo al lupo» della favola di Esopo pervadono l’intero Parlamento. Anche perché i «gialli» e i «verdi» ormai hanno dimostrato al mondo che non c’è più un confine tra realtà e finzione, tra commedia e tragedia. Ieri, ad esempio, i due rappresentanti del governo nell’aula del Senato hanno detto cose opposte sulla Tav: il leghista Garavaglia ha annunciato che l’esecutivo era a favore; il grillino Santangelo che si rimetteva all’aula. Una contraddizione, com’è una contraddizione il rischio di una crisi quando appena due giorni fa Salvini ha ricevuto una fiducia personale sul decreto sicurezza bis e ieri a Palazzo Madama è passata la linea della Lega sulla Tav. Logica vorrebbe che siano i grillini a minacciare la crisi. Invece no. Appunto, il tragico diventa comico. Per cui non deve meravigliare se Matteo Renzi osserva sicuro: «Crisi? Elezioni? No, perché Salvini non ha le palle! Eppoi Mattarella non gli darebbe le elezioni in autunno, non ci sono i tempi. Io ci sono passato: se Mattarella mi avesse dato le urne nel giugno del 2017, la storia del Paese sarebbe cambiata». Traduzione: se si andasse a votare il 20 ottobre, servirebbe poi il tempo per formare un governo (l’ultima volta ci hanno impiegato tre mesi) e il Paese rischierebbe l’esercizio provvisorio che aprirebbe la strada all’aumento dell’Iva previsto dalle clausole di salvaguardia. E il pericolo non è certo il mestiere di Mattarella. Già, in tanta confusione c’è bisogno di un Virgilio per essere accompagnati in quell’inferno che è diventato il Parlamento dopo un anno di governo del cambiamento. Dove, appunto, i dannati, cioè senatori e deputati, non vogliono essere spediti al girone infernale che prevede come pena nuove elezioni. E l’altro Matteo, Renzi, che si propone come politologo, fa all’uopo. Diciamo subito che se Salvini aprisse la crisi, la prima opzione sarebbe un «rimpastino» per riportare la pace: cioè, la testa di Toninelli. Buona parte del vertice grillino ci starebbe. «Io – racconta il sottosegretario Buffagni – avevo convinto tutta la prima fila a fare fuori Toninelli a marzo. Ma poi Conte ha avuto paura. Diceva: “Se cominci a ballare la rumba non sai poi come finisce”». Ora il rimpastino è più difficile: Di Maio, fosse solo per salvaguardarsi l’immagine, non vuole cedere al diktat salviniano. «Semmai – ha spiegato ai suoi – Salvini proponga un “rimpastone”, un Conte bis». Il vicepremier leghista, a quel punto, nell’incontro a tre (Conte, Salvini, Di Maio) di ieri pomeriggio a Palazzo Chigi, lo ha preso in parola, solo che ha esagerato, dato che ha chiesto la testa non solo di Toninelli, ma anche
quelle della Trenta, di Costa e Bonafede: magari la tecnica dell’esasperazione per farsi rispondere «no». «Eppure sarebbe facile – ironizza Renzi-Virgilio –, tra i grillini molti vorrebbero prendere il posto di chi è al governo solo per andare in Tv e trombare di più». Solo che la questione è più complicata: la realtà è che Salvini punta alle elezioni in primavera e per lui sarebbe difficile mettere in piedi un Conte bis ora e, poi, togliergli la fiducia tra qualche mese. Il nervosismo del vicepremier leghista nasce proprio dalla consapevolezza che si sta complicando la strada per le urne nel 2020. I segnali subliminali che giungono dal Colle lo hanno messo in tensione: prima l’avviso che non può essere l’attuale esecutivo a gestire le elezioni, per cui ci sarebbe bisogno di un governo elettorale; più di recente, l’avvertimento che con l’approvazione il 9 settembre del provvedimento di rango costituzionale che taglia il numero dei parlamentari, il Quirinale dovrà garantire che l’iter arrivi a compimento prima del voto. «Una folla di peones è pronta a promuovere un referendum – osserva “Matteo Virgilio” –, Mattarella non potrebbe sciogliere prima che si svolga. Si arriverebbe di sicuro al 15 maggio». Certo ci sarebbero i tempi per votare a giugno. Ma il vicepremier leghista potrebbe essere il bersaglio di una manovra ancora più complessa: la diminuzione del numero dei parlamentari, infatti, renderebbe l’attuale legge elettorale estremamente maggioritaria. La Lega, con gli attuali sondaggi, potrebbe davvero correre da sola e assicurarsi la maggioranza in Parlamento. Così, in teoria, Salvini avrebbe la forza di nominare successore di Mattarella chiunque voglia. «Non penso – commenta Renzi-Virgilio, vittima del famoso referendum – che siano disposti a dare a Salvini il Potere che non hanno dato a me». E, infatti, nei gironi infernali qualcosa, sotto la cresta, si muove. «Cambiamo la legge elettorale – confida Walter Verini, piddino di credo zingarettiano –: via la parte maggioritaria e lasciamo solo il proporzionale. Sarebbe un modo per salvaguardare gli equilibri istituzionali. Altrimenti c’è il rischio autoritario: Salvini potrebbe mandare sul Colle anche il suo segretario. Un obiettivo del genere vale un governo di scopo». Gli fa eco il sottosegretario grillino Crimi: «Ci sono governi che nascono solo per fare leggi elettorali. Quello di Gentiloni nacque con quello scopo. Poi fece pure la legge di bilancio e durò più di un anno». Congettura che basta e avanza per irritare Salvini. «Abbiamo il fondato sospetto – ammette il capogruppo 5stelle Patuanelli – che dietro l’accelerazione di Salvini ci sia questo timore». Ecco perché il vicepremier leghista è tentato dalla crisi, ma sa di correre il rischio di non avere poi le urne. Motivo per cui è diviso. «Da una parte Salvini – è l’analisi di Matteo-Virgilio – può restare al riparo del Viminale e farla da padrone a primavera nella più grande mietitura di nomine pubbliche degli ultimi anni. Dall’altra fa la crisi con il rischio di non andare al voto. A quel punto passi dalla gloria alla polvere in un minuto. Lo so per esperienza personale. Ti arrestano pure la mamma. E non so se lui, malgrado la faccia tosta, possa dirsi tranquillo. Così ti ritrovi come me, con uno Zanda qualunque che ti chiede di lasciare la politica. Un tipo che – fonte Gentiloni – ordina nelle trattorie romane champagne Dom Perignon ma se lo fa versare in una brocca, per far pensare al popolino che beve vino dei Castelli. Figurati un po’!».
Alessandro Campi More
Ieri è successo di tutto, ma comunque nulla di irreparabile, se lo leggiamo con occhi ormai avvezzi da oltre un anno a questa parte a uno scenario in cui sono saltate tutte le vecchie (e sagge) regole della politica. Magari solo un rimpasto vecchia maniera con sostituzione di tre ministri Cinquestelle. Poco, direte voi, non sarebbe. Ma la politica pazza nell’epoca del post tutto (post-democrazia, post-ideologia, post-parlamento, post-verità, post-serietà, post-decenza…) funziona così, senza rispettare più alcuna regola scritta o consuetudine informale. Il momento prima sta per cadere il governo, quello dopo il governo continua imperterrito per la sua strada. Mentre tutti dicono di volere le elezioni, scopri che in realtà nessuno le vuole. Tra alleati ci si insulta a sangue ma al dunque è solo un gioco delle parti a beneficio delle proprie tifoserie. L’opposizione vota insieme ad un pezzo della maggioranza come se niente fosse. E per il resto solo voci di corridoio, insinuazioni, chiacchiere che durano il tempo necessario a smentirle. L’unica certezza è presto detta: se i grillini accetteranno il necessario sacrificio, pur di sopravvivere al governo, la maggioranza non sarà più giallo-verde ma verde-gialla.
Con rapporti di forza ribaltati a favore di Salvini che può imporre il suo diktat: o vi adeguate o si vota… Le scorse ventiquattro sono state un esempio da manuale di questa anomala condizione, che in Italia è invece divenuta normale. In Parlamento si è materializzata per ben quattro volte una maggioranza diversa da quella giallo-verde che sostiene il governo. Lega e Partito democratico, insieme a Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno votato a favore delle diverse mozioni a sostegno della Tav. Il M5S, che aveva voluto il pronunciamento e che ha subito gridato all’inciucio parlamentare, è stato dunque battuto e isolato su una questione che ha sempre considerato dirimente: per la sua propaganda ma anche per la sua azione di governo. Sarebbe stato, in altri tempi, il capolinea dell’esecutivo, ma al netto delle tensioni che hanno accompagnato il voto in aula lo spettro della crisi – con Conte già pronto a recarsi al Colle, come molti immaginavano e come qualcuno ha chiesto ma giusto per dovere – non si è materializzato. È prevalso un ragionamento meno drammatizzante: da un lato non si può far cadere un governo che, avendo appena incassato la fiducia sul provvedimento in materia di sicurezza, ha dimostrato di avere ancora una tenuta parlamentare; dall’altro si sapeva che questa prova di forza è stata voluta dai grillini solo per ragioni interne e di propaganda, per mandare ai propri simpatizzanti e militanti un messaggio del tipo «governiamo e ci sporchiamo le mani, ma sui temi che contano siamo ancora duri e puri come una volta». D’altro canto quale crisi può esserci se l’unico partito che, sondaggi alla mano, avrebbe interesse a votare – vale a dire la Lega – ha un leader che ritiene non ancora giunto il momento per andare al voto anticipato? Le ragioni dell’attendismo di Salvini, dopo che i commentatori si sono sbizzarriti in spiegazioni d’ogni tipo e dopo che i suoi uomini lo hanno pressato in tutti i modi affinché stacchi la spina a questo governo, a questo punto le conosce solo lui. Forse è uno stratega tanto abile quanto imprevedibile. Forse ritiene di avere ancora da guadagnare da questa situazione di litigioso impasse. Forse ha paura di vincere e di dover governare da solo. Forse nemmeno lui sa che pesci prendere essendo abituato a vivere alla giornata, tra un tweet, un selfie e un comizio. Più prosaicamente, come qualcuno sostiene, ciò che veramente lo impensierisce è la linea Maginot del Quirinale, che ha fatto opportunamente sapere come in caso di scioglimento anticipato non sarebbe il governo Conte a portare al voto ma un esecutivo terzo. A questo a aggiunto che duecose di cui l’Italia in effetti abbonda sono la fantasia istituzionale e i parlamentari pronti a cambiare casacca per difendere la poltrona nel nome della responsabilità. Quanto alle opposizioni, basta guardare a come sono messi al loro interno Pd e Forza Italia – tra litigi, dissidenze, minacce di scissione, personalismi e mancanza di una chiara offerta politica – per capire che a tutto pensano in questo momento meno che ad una battaglia elettorale che per la sinistra potrebbe risolversi nell’ennesima delusione, mentre per il mondo berlusconiano potrebbe risultare addirittura esiziale. Ma sdrammatizzare pur di evitare il punto di rottura è un conto, tutt’altro è banalizzare. La stessa Lega, al momento di annunciare ieri il proprio voto a sostegno della mozione presentata dal Pd (edulcorata da quest’ultimo dei passaggi critici verso il governo proprio per ottenere il sostegno del partito di Salvini, lo stesso contro il quale il Pd aveva presentato una mozione di sfiducia il giorno prima: che straordinaria coerenza!), ha sostenuto che l’atteggiamento negativo e intransigente del M5S sulla Tav produrrà delle conseguenze. Ma se il governo non cade e il voto anticipato nessuno lo vuole quali possono essere le conseguenze minacciate come inevitabili? E qui si scopre quanto la politica della post-modernità è sì pazza, ma non stupida: imprevedibile nelle forme, ma prevedibilissima nei comportamenti (e negli appetiti). Vogliamo chiamarlo, senza che nessuno si offenda, rimpasto di governo o, per darsi un tono, riequilibrio delle forze? Se davvero l’esecutivo giallo-verde intende andare avanti, diciamo almeno sino alla prossima manovra di bilancio e nella speranza che si ricrei un minimo di equilibrio o armonia tra i due alleati dopo le botte da orbi degli ultimi mesi, un qualche prezzo a quel che è successo ieri bisognerà pur pagarlo. E quel prezzo, se la politica ha ancora un senso e si vuole evitare di buttarla in farsa, si traduce nel sacrificio a questo punto inevitabile del ministro Toninelli. È da sempre l’uomo del No alla Tav per conto del M5S. Ieri un voto parlamentare voluto dal suo stesso partito lo ha messo ampiamente in minoranza. Come non trarne le doverose conseguenze? L’unica cosa chiara e indiscutibile accaduta ieri è, detto con brutalità, che la Lega ha (ri)vinto e il M5S ha (ri)perso. E chi vince, in politica come nella vita, detta sempre le condizioni a chi perde.
Marco Travaglio More
Rileggere Montanelli è sempre un ottimo esercizio, perché è morto 18 anni fa, ma è più vivo e attuale che mai. Il 28 agosto 1994, cioè 25 anni fa, scriveva questo sul primo governo B.: “Nelle ultime due settimane i consensi al governo e al suo capo sono passati dal 48 a quasi il 54%… È stata proprio questa politica balneare con le sue scene da telenovela minuziosamente descritte in tutti i loro particolari e diffuse in tutta Italia (e speriamo solo in Italia) da televisioni pubbliche e private in gara di zelo, a provocare questa impennata di popolarità. Se le cose stanno così… dobbiamo cospargerci il capo di cenere e chiedergli scusa. I problemi non li ha ancora affrontati né risolti. Ma è chiaro che gl’italiani sono sempre più convinti che lui è il solo uomo capace di farlo, e comunque quello in cui più e meglio si riconoscono”. Perché non amano i “personaggi color fumodilondra”, tipo De Gasperi o Einaudi: “Vorreste mettere il gioioso e giocoso Cavaliere, con le sue risate, le sue barzellette, il suo ottimismo, la sua cordialità, le sue barche, le sue ville. Vorreste mettere. Forse l’I t alia non è lui. Ma certamente lui è l’Italia come gl’italiani vorrebbero che fosse. Il sondaggio non può avere altro significato”. Conclusione beffarda e paradossale: non resta che adeguarsi, arrendersi, mettersi a vento. “Senza bisogno di sopprimerci come minacciano di fare certi suoi alleati e ministri, finiremo automaticamente confinati in una specie di Arcadia del buoncostume politico, quello che usava quando Berta filava (ora va alla Standa di Berlusconi e compra il pret-à-porter). Non siamo pericolosi. La nostra audience si assottiglia di giorno in giorno nella stessa misura in cui s’infoltisce quella del Cavaliere. Ave, Silvio, morituri te salutant”. Ditemi voi se non è la fotografia dell’Italia di oggi: basta sostituire B. con quell’altro cazzaro. Maestro d’ironia e paradosso, Montanelli provocava: infatti continuò a combattere il Caimano per altri sette anni, fino alla morte. E lo fece, conoscendolo nel profondo, con le uniche armi in grado di fargli davvero male: lo sberleffo, il sarcasmo e il disprezzo. Lo prendeva sul serio solo quando scherzava e lo trattava da pagliaccio quando faceva sul serio. Evitando la demonizzazione ossessiva e parolaia “h 24” che per vent’anni dannò la sinistra, peraltro beccata mille volte a inciuciare col presunto nemico. La stessa ossessione che riciccia oggi per Salvini, combattuto con gli stessi toni sdegnati, gli stessi autogol (il tifo per la Ue, le Ong, Macron, lo spread, le procedure d’infrazione) e gli stessi snobismi col ditino alzato. Sia che faccia scemenze innocue (sui social o al Papeete Beach).
Sia che si macchi di condotte gravi (lo scandalo Arata-Siri, il caso Rubli, le bugie per nasconderli, il rifiuto di riferire in Parlamento e in Antimafia, le sparate razziste, le intimidazioni a giornalisti e contestatori, le leggi vergogna riuscite e tentate). In questa penuria di teste pensanti, Montanelli resta la bussola migliore per orientarsi nella jungla della politica e della società. Che paiono tutte nuove, e invece sono vecchie come il cucco. L’Italietta arrapata dall’afrore del ducetto di turno sta per compiere cent’anni. E non ha mai imparato la lezione. Salvini non è il nuovo Mussolini, semmai il nuovo Ridolini; il 1922 fu una tragedia e il 2019 è una farsa. Ma lo spettacolo delle opposizioni in Parlamento ricorda quello di liberali, socialisti e popolari all’avvento del fascismo. A cui spianarono la strada fingendo o credendo di combatterlo. Ieri Pd e FI potevano rifilare il primo vero smacco a Salvini, mandando in frantumi la coalizione giallo-verde con una semplice uscita dall’aula, che avrebbe fatto passare le mozioni M5S-LeU. Invece si sono coalizzati con lui. Poi, ridicoli, han ricominciato a invocare le elezioni: quando era assodato che, anziché la crisi, sarebbero scattate le ferie. Con “nemici” come questi, il Cazzaro può campare di rendita chissà quanto. La cosiddetta informazione dovrebbe smetterla di definire Pd&FI “opposizioni” e di stalkerare i 5Stelle perché facciano ciò che conviene a loro, ma non a noi: aprire una crisi che consentirebbe a Salvini di attuare il suo piano senza pagare pegno. Cioè farsi la campagna elettorale contro i grillini traditori (ieri è lui che ha tradito, votando col Pd), votare a ottobre e occupare Palazzo Chigi. Gli unici ostacoli alla sua presa del potere non stanno all’opposizione o nei giornaloni. Ma a Palazzo Chigi (Conte, che anche oggi gli darà qualche cazzotto con mano guantata), al Quirinale (Mattarella, che fa l’arbitro imparziale e tanto basta a indispettirlo), in Vaticano (il Papa che non riceve il catto-pagano e che denuncia l’uso politico della religione ridotta a superstizione) e qua e là per l’Italia (i No Tav e gli altri movimenti ambientalisti, il popolo degli striscioni, la Raggi che difende la Capitale dalla protervia fascio-salvinista ecc.). Potrebbero esserlo anche i 5Stelle, se capissero che Salvini evoca continuamente la crisi (per qualche poltrona in più col rimpasto? O per votare davvero? E quando?), ma non vuol essere lui ad aprirla: teme nuovi sviluppi degli scandali leghisti e non sa quanto perderebbe rovesciando il premier e il governo più popolari degli ultimi 10 anni. Paure che un M5S ai minimi storici, con ben poco da perdere, dovrebbe usare per passare da ricattato a ricattatore. Mettendo sul tavolo cinque leggi-bandiera previste dal Contratto, sfidando Salvini a proporne altrettante (con le coperture finanziarie) e poi votandole a coppie: una del M5S e una della Lega insieme, onde evitare che quello incassi i voti degli alleati e poi neghi loro i propri. Così, se il Cazzaro vuole comandare da solo, sarà lui a rompere. L’alternativa è la beffa montanelliana: “Ave Matteo, morituri te salutant”.
Paolo Mieli More
Paolo Mieli ha scritto sul Corriere un bilancio della fase politica successiva alle europee: “C’è un vincitore, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e uno sconfitto, il suo vice Matteo Salvini”. Direttore, è ancora vero dopo il voto sul Tav? Sì, perché il premier può contare su una “maggioranza ombra” in cui è sostenuto, pur non formalmente, anche da Pd e Forza Italia. Il Pd poteva, pur contraddicendo la attuale posizione sul Tav, uscire dall’Aula mettendo davvero in crisi la tenuta della maggioranza. Una cosa che avrebbe contribuito ad abbattere un governo “razzista”, “autoritario” e “pericoloso”: se uno grida al fascismo un giorno sì e l’altro pure come fa il Pd, dovrebbe trarne le conseguenze e provare a far cadere in tutti i modi il governo. Conte ne esce rafforzato. Pare che il ministro Salvini abbia chiesto ai suoi parlamentari di non allontanarsi per le ferie. Non sarebbe strano se fosse lui ad aprire la crisi, visto che il voto sul Tav è andato come la Lega vo l eva? La domanda vera è se il ministro dell’Interno vuole o no andare a elezioni anticipate. Ma attenzione: ai primi di settembre ci sarà il voto sulla legge costituzionale di riduzione del numero di parlamentari: dopo sarà complicatissimo andare alle elezioni. Il segretario dem Zingaretti chiede che Conte salga al Quirinale per una verifica sulla maggioranza. Il presidente della Repubblica assumerà qualche iniziativ a? Non credo, se la prendesse sarebbe un omaggio formale alle opposizioni. Ribadisco: il punto è cosa vuol fare il leader della Lega. Se vuole aprire una crisi, la verifica della maggioranza è inutile. Viceversa si continuerà a dire, come fanno i 5 Stelle, che il voto sul Tav impegna il Parlamento e non il governo: dunque, nulla quaestio. Altro possibile scenario è quello di un rimpasto o di un “r i m p a st i n o” con il sacrificio di Toninelli: servirebb e? Indebolirebbe Salvini. Ricapitoliamo: uno che ha ottenuto il 34 per cento alle Europee, che ha avuto l’oc casione di andare alle urne e non lo ha fatto e si accontenta di chiedere la testa di un ministro, dà una prova deludente al suo elettorato. In autunno il governo dovrà affrontare sfide durissime, non credo gli gioverà mettere sul tavolo lo scalpo di Toninelli. E anche avesse ottenuto la testa della ministra Trenta… L’unico risultato importante per Salvini sarebbe un cambio alla guida di Palazzo Chigi. Non lui stesso, un altro. Ma è difficile che lo ottenga. Ai 5 Stelle converrebbe acconsentire a un rimpasto, anche mini? Nel 1983 Ciriaco De Mita, che da poco era arrivato al vertice della Democrazia cristiana, subì una durissima sconfitta alle Politiche. E concesse la presidenza del Consiglio a Bettino Craxi, rivale che non aveva riportato uno straordinario successo alle urne. Per rimettersi in carreggiata dopo una débâcle elettorale, si può anche fare qualche concessione. Insomma, cosa trattiene Salvini dall’andare a elezioni? Ci vuole coraggio a rinunciare a quello che si ha per aprire una fase che è comunque avventurosa. I suoi consiglieri più moderati certamente lo spingono a non precipitare la situazione. Tutti gli rimprovereranno, dopo, di non averlo fatto: capitò a Renzi nel 2016 e ancora prima a Craxi nel 1991. Questo ardimento gli uomini politici italiani raramente lo hanno: accade più spesso, anche se con fortune diverse, altrove. C’è poi l’incognita giudiziaria. Molti commentatori e addetti ai lavori parlano del “Russiagate”come se ci fosse una carta coperta. Qualcosa che potrebbe mettere in guai seri Salvini. Lei che ne pensa? Credo che questa eventuale carta coperta nella vicenda giudiziaria faccia più paura a Salvini per le conseguenze di isolamento politico, anche a livello internazionale, che per quelle sull’elettorato. Tutte le notizie che sono emerse, a due riprese da febbraio a oggi, hanno avuto un impatto nullo sia sui sondaggi che sulle elezioni europee. Il vero timore di Salvini è che un eventuale, più grave, scandalo giudiziario possa fornire l’alibi per un esecutivo di unità nazionale con la Lega all’opposizione. Magari presieduto dallo stesso Conte. I cittadini lo capirebbero? Non credo, personalmente sono sempre scettico su operazioni di questo tipo. Per Salvini stare all’opposizione sarebbe più un’opportunità che un danno. Mentre metterebbe in grande crisi i 5 Stelle, che si troverebbero alleati di Pd e Forza Italia, davanti ai loro elettori. Anche se, tornando all’inizio di questa conversazione, il vincitore sarebbe di nuovo il premier Conte. Che durante questo difficile anno, è riuscito a orientare i 5 stelle verso una direzione istituzionale: tanto è vero che sembrano, agli occhi del Capo dello Stato, un partito più affidabile della Lega.
Giuliano Ferrara More
Con il Truce non si può e non si deve, ovvio, nemmeno se funzionasse il jukebox nella moraviana Sabaudia. Con Giggino si farebbe ridere dietro, e purtroppo senza di lui pure. Ma il partito della nazione è una realtà difficile da negare. Una mozione di tre righe permette a Lega, Forza Italia e Fratellini di votare con il Pd per la Tav, unità appassionata o anche fredda per il buonsenso e il famoso bene del paese: è un fatto politico, mi pare. Renzi ci tiene a non essere confuso ad arte con Berlusconi e con il Truce: comprensibile, impeccabile, nel caso della trucidezza, sebbene alla fine la mozione si sia ridotta a tre righe, et pour cause. Quanto a Berlusconi, è un altro paio di maniche. L’alleanza con lui, allora reietto della penisola, lo portò al governo con un programma di riforme anche istituzionali, gli 80 euro e il Jobs Act furono in continuità con il nuovo alleato, la rottura dell’alleanza su Amato presidente della Repubblica, che guaio, distrusse tutto. Renzi aveva provato a dire alla Aspesi e a Veronesi che era meglio emulare il Cav. e eventualmente farsene affiancare piuttosto che trattarlo da bandito, magari per evitare i successivi bolsonareggiamenti. Fu il Nazareno. Con il 40 per cento e più alle europee il gioco era quasi riuscito, poi l’er – rore che fece il Duca sul Quirinale, e fu cagione dell’ultima ruina sua, e nostra (spero ci sia un capitolo su questo nel Machiavelli di Antonio Funiciello, presto in libreria). Dove c’è il maggioritario, si fa come a Londra e a Parigi, molti problemi molto onore. Dove c’è il sistema spagnolo, si vota ogni sei mesi, e intanto la società se la cava. Dove c’è il proporzionale corretto, come in Germania e in Italia ora, c’è o ci dovrebbe essere, ipotesi ormai tramontata, il partito della nazione, cioè una cosa assai simile a Denis Verdini (non la cara Francesca, Denis, e il Denis di appena ieri). Oggi l’opposi – zione deve ricostruire una società smandrappata e feroce, a forza di criteri di vita e di cultura e di buone maniere, non ha tempo per partiti della nazione, e non ha le forze, per adesso. Il successo della distruzione incrociata dei Giggini implica a specchio 400 deputati leghisti probabili, e guai anche peggiori di quelli attuali, che non mancano. Una destra non truce, alla Cerasa o alla Panebianco, ci salverebbe e riproporrebbe la questione del partito della nazione, nella forma di una alleanza possibile, una Grosse Koalition, ma è all’ordine del giorno un po’ sì e un po’ no. Dunque inutile agitarsi troppo, distinguersi, isolarsi, aventineggiare, ché poi l’Aventino fu la prima vacanza intelligente, e portò molto male alla Patria e all’opposi – zione. Bisogna fare il proprio, anche tirando qualche buon cazzotto. Il proprio dell’umano, del cristiano, del laico sensibile alle forme. Il proprio dei mercati mondiali, benedetti e maledetti, dei sindacati finalmente rinsaviti (almeno Landini), il proprio degli Erasmus, che non stanno tutti a Milano Marittima, il proprio della sovranità europea, bisogna tifare contro Trump, Bolsonaro e Putin, e cercare di vedere se Boris Johnson si rivelerà nuovamente una truffa, stavolta per i suoi accaniti seguaci, affidandosi nel frattempo a Macron e a Brigitte. Il proprio della libertà di stampa non si sa più bene che cosa sia, in un paese di maschere ruffiane, ma anche quel proprio va tentato. Potevamo fare un esperimento come En Marche!, le parti de la Nation, ci siamo lasciati sfuggire l’occasione, che puntualmente si ripresenterà. Basta aspettare e fare il proprio.
Claudio Cerasa More
La diciottesima legislatura si è aperta con l’immagine epocale del bacio passionale tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, magnificamente raffigurato nel marzo del 2018 in un famoso murales comparso nella Capitale, e in un certo senso oggi potremmo dire che la maggioranza di governo che ha finora guidato le danze in questo Parlamento ha finito di esistere in modo plastico nel pomeriggio di ieri, quando le labbra della Lega si sono andate a incrociare occasionalmente ma non fortuitamente con quelle del Pd. L’occasione ha coinciso con un voto politicamente importante, anche se giuridicamente non vincolante, come quello relativo all’approvazione di una delle mozioni presentate ieri in Senato a favore della Tav. Il Movimento 5 stelle, partito di cui incidentalmente è anche espressione il presidente del Consiglio, il cui ultimatum oggi festeggia allegramente sessantasette giorni, ha presentato una mozione contraria all’opera, bocciata con 181 no e 110 sì, mentre il Pd ha presentato una mozione favorevole alla Tav approvata con 180 voti favorevoli, 109 contrari e un astenuto e votata anche dalla Lega. Al contrario di quello che vorrebbero romanticamente far credere i simpatici falsari quotidiani del Movimento 5 stelle, il bacio occasionale andato in scena ieri pomeriggio al Senato tra il Pd e la Lega, tra il partito di Zingaretti e il partito della Zingaraccia, non indica un altro governo possibile, ma indica semplicemente un governo impossibile, che è quello che prevede in una qualsiasi forma la presenza alla guida del paese del partito della decrescita, ovvero del Movimento 5 stelle. In un paese come la Germania – dove attualmente, seppur con mille difficoltà, ma chi non le ha?, governano insieme i partiti cugini di Lega, Forza Italia e Pd (Csu, Cdu, Spd) – un voto come quello di ieri avrebbe segnalato la presenza di una nuova e inevitabile maggioranza di governo. In un paese come l’Italia, in cui anche le situazioni serie in presenza di soggetti politici non seri diventano inevitabilmente surreali, la formazione occasionale di una maggioranza parlamentare composta dall’improbabile coppia Zingaretti-Zingaraccia è lì a dirci quello che persino l’elettorato leghista comincia a considerare una verità difficile da negare: per l’economia italiana un qualsiasi governo che non abbia al suo interno gli ambasciatori della decrescita è preferibile a quello che ha oggi il nostro paese. Vale quando si parla di economia, vale quando si parla di infrastrutture, vale quando si parla di sviluppo, ma vale anche quando si parla di altre questioni non meno importanti rispetto alla Tav. Vale per esempio quando si parla di lavoro e sono ormai mesi che la Lega sa che le modifiche che vorrebbe apportare al “decreto dignità” le potrebbe realizzare con qualsiasi partito presente in Parlamento che non sia quello con cui oggi sta governando. Vale per esempio quando si parla di giustizia e sono ormai settimane che la Lega sa che le modifiche che vorrebbe apportare alla riforma sulla giustizia le potrebbe realizzare con qualsiasi partito presente in Parlamento che non sia quello con cui sta governando. Vale per esempio quando si parla di prescrizione e sono ormai settimane che la Lega sa che l’unico partito con cui potrebbe stoppare l’abolizione della prescrizione in vigore dal primo gennaio del 2020 è un qualsiasi partito diverso da quello con cui si trova oggi al governo. Vale per esempio quando si parla di sostegno alle esportazioni e sono ormai mesi che la Lega ha compreso che per smettere di provocare un paese come l’America in cui l’Italia esporta ogni anno beni pari a 50 miliardi di euro su un totale annuo di 500 miliardi di euro occorre allontanarsi il più possibile dal patto cinese e riavvicinarsi il più possibile al Patto atlantico. Vale ovviamente quando si parla di infrastrutture. E se vogliamo la giornata parlamentare di ieri ha contribuito a ricordare che in Italia esiste una maggioranza trasversale consapevole di alcuni fatti elementari: essere contro le grandi opere significa essere a favore del sottosviluppo, significa essere a favore dell’isolamento e significa molto banalmente non capire che il futuro dell’Italia, la sua crescita, il suo lavoro, la sua industria dipendono anche dall’Alta velocità. Il voto sulla Tav ci ricorda che per ridare dignità all’Italia non basta un rimpasto ma occorre prendere atto che la maggioranza non esiste più, che il presidente del Consiglio è di fatto sfiduciato e che in Italia c’è un governo impossibile, che è quello con i grillini, che merita di essere finalmente spiaggiato. E allora sì, non dateci un Conte Bis, non dateci un pastrocchio, dateci le elezioni!
Veronica De Romanis More
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha delineato in questi giorni la sua proposta di legge di Bilancio. Lo ha fatto in occasione del secondo incontro con le parti sociali avvenuto al Viminale. Lo schema è semplice: fare crescita con il debito. Nulla di nuovo, in realtà. Anche con la scorsa legge di Bilancio il governo aveva sperato di ottenere sviluppo spendendo soldi che non aveva. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il paese è fermo, i giovani vanno all’estero (quelli che restano sono senza lavoro), mentre i sessantenni vanno in pensione. Nonostante questo fallimento, Salvini intende replicare la stessa ricetta. A cominciare dai tre ingredienti che considera indispensabili: più deficit, più condoni e meno tasse a costo zero. Andiamo con ordine. Primo, il deficit. Salvini vuole un deficit ben superiore a quello contenuto nel Documento di Economia e Finanza (Def) approvato dal governo (e, quindi, anche da lui) nel mese di aprile: sotto il “due per cento non si può stare”, ha spiegato. A supporto di questa affermazione, non ha fornito né studi, né analisi. Si è limitato a quantificare il limite inferiore del rapporto deficit/pil e a delineare una dinamica crescente del saldo. Del resto, nel modello economico che ha in mente, l’entità di questo saldo conta poco. Il maggiore deficit serve a creare ricchezza e quindi, a aumentare il denominatore del rapporto debito/pil così da ottenere – nel medio termine – una riduzione (e non un aumento) del rapporto stesso. In altre parole, fare più debito oggi consente di ridurre il debito (in rapporto al pil) domani. Eppure, i dati sull’econo – mia italiana forniti dall’Istat dovrebbero indurre il ministro a rivedere questo modello che non ha mai funzionato altrove ma che, in particolare, non può funzionare nel nostro paese. L’Italia, infatti, è l’unica economia con un costo medio del debito superiore al tasso di crescita nominale. Pertanto, per riportare il debito/pil su una traiettoria decrescente, è necessario avere un avanzo primario (ossia il saldo tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi) superiore al 2 per cento. Nel Def, il governo ha seguito il “mo – dello Salvini”: l’avanzo primario scende (invece di salire) dall’1,6 per cento del 2018 all’1,2 per cento dell’anno in corso. Non deve, quindi, stupire se il rapporto debito/pil è previsto crescere dal 132,2 al 132,6 per cento (percentuale che, peraltro, al netto dei 18 miliardi di euro di privatizzazioni solo annunciati sarebbe ben più elevata). Nonostante l’evidenza, Salvini propone di continuare sulla strada di una riduzione dell’avanzo primario in linea con ciò che aveva suggerito in campagna elettorale. Va, infatti, ricordato che il quadro macroeconomico dalla Lega prevedeva un avanzo primario pressoché nullo. Secondo, i condoni. La Lega non è il primo partito (e non sarà neanche l’ultimo) a ricorrere ai condoni. Lo strumento piace ai politici perché consente di incrementare le entrate e, nel contempo, rafforzare il proprio consenso. Il trucco consiste nel trovare ogni volta un nome nuovo (cosi da confondere i contribuenti) e una storia da raccontare (cosi da introdurre un elemento di giustizia sociale). Il nome “pace fiscale” (davvero eloquente) Salvini lo aveva già pensato prima di andare al governo, la storia l’ha illustrata quando è diventato ministro: l’obiettivo è aiutare i cittadini in difficoltà. Una storia perfetta che mette tutti d’accordo: lo stato che dispone temporaneamente di maggiori risorse, i cittadini che fanno finalmente pace con l’era – rio. Questa storia, però, non considera i cittadini onesti che con il duro lavoro – e nonostante i mille problemi – pagano sistematicamente le tasse. E’ ragionevole pensare che una parte sempre maggiore di loro smetterà di essere in regola visto che il governo offre tutele a chi non è. Aumenteranno, quindi, le persone in “guerra” con il fisco in attesa della prossima “pace”. Il risultato finale sarà quello di un calo dell’entrate per lo stato, l’opposto di quello sperato. Eppure, per la prossima Legge di Bilancio, Salvini propone lo stesso schema, ovviamente con un nome nuovo: pace fiscale 2.0. Terzo, le tasse a costo zero. Salvini lo aveva promesso – e non lo ha fatto – lo scorso anno, lo promette ancora quest’anno: bisogna introdurre la flat tax al 15 per cento per i redditi sotto i 55 mila euro perché in questo modo si “aiutano tutti gli italiani”. Ma è davvero così? I dati rivelano una realtà diversa. Una tassa piatta al 15 per cento avvantaggerebbe solo una piccola parte dei contribuenti visto che una grande parte già paga un’aliquota effettiva inferiore a questa soglia ma, nel contempo, penalizzerebbe (e di molto) le donne. Una flat tax sul reddito familiare – come voluta dalla Lega – scoraggerebbe, infatti, il lavoro del secondo coniuge, presumibilmente quello delle mogli. Eppure, in un paese come il nostro, dove il tasso di occupazione femminile è quattordici punti sotto la media europea, il governo dovrebbe andare in direzione opposta incentivando (e non penalizzando) il lavoro delle donne. L’esperienza delle altre economie dimostra, peraltro, che solo attraverso il rafforzamento dell’occupazione femminile si riesce a cambiare la tendenza del calo demografico, senza dubbio la sfida più urgente che deve affrontare il nostro paese. Sempre in base al “modello Salvini”, la flat tax deve essere finanziata in deficit. Del resto “è impensabile fare una manovra a costo zero”; altrimenti, ha spiegato, “sei mago Merlino”. Secondo Salvini, solo un mago potrebbe trovare le coperture per finanziare le politiche economiche della Lega che includono la tassa piatta ma anche quota 100, che va ricordato, consente alle persone (per la maggior parte dipendenti pubblici) di andare in pensione a 62 anni a spese della collettività. La prossima manovra deve necessariamente passare per la creazione di nuovo debito. Sarà, quindi, necessario aprire un dialogo (leggi scontro) con la nuova Commissione di Ursula von der Leyen. Questo film, però, lo abbiamo già visto quando nella scorsa legge di Bilancio il governo giallo-verde ha provato a violare le regole, annunciando di voler sforare i parametri fiscali. Dopo due mesi di turbolenze sui mercati finanziari – con lo spread salito oltre 300 punti base – il governo ha deciso di scendere a compromessi. Ha, quindi, implementato una manovra correttiva a fine dicembre, intervento replicato anche a luglio scorso per oltre 7 miliardi di euro. Il costo di questa strategia (alzare la voce prima per cercare l’accordo dopo) gli italiani lo stanno ancora pagando sia in termini di stretta creditizia sia in termini di maggiore spesa per interessi. E, allora, perché infliggere loro la replica di un brutto film? Del resto, non è difficile capire che non si possono spendere soldi che non si hanno. Salvini può chiedere conferma di questa regola elementare ai tanti che sono in vacanza con lui al Papeete Beach di Milano Marittima. Probabilmente, nessuno dei presenti può permettersi di finanziare le proprie vacanze a debito: devono usare i risparmi dell’anno. Seguendo la ricetta del “più deficit”, il rischio è che arrivi il momento in cui Salvini chiederà loro di usare questi risparmi anche per finanziare la sua legge di Bilancio: del resto, non a caso gli economisti della Lega continuano a ripetere che dato l’elevato risparmio privato, il debito pubblico non è un problema. Questa stessa domanda la fece la cicala alla formica nella favola di Jean de La Fontaine. La risposta potrebbe essere la stessa: “Finora hai cantato. Bene, adesso balla”. Purtroppo, a ballare non sarebbe solo Salvini, ma tutti gli italiani, inclusi ovviamente i vacanzieri del Papeete Beach.
Maurizio Belpietro More
È finita come c’era da immaginare che finisse. Dal voto di ieri in Senato sull’alta velocità non c’era da aspettarsi alcuna sorpresa nei contenut.i. Nel senso che la mozione presentata dai 5 stelle era fatta per salvarsi l”anima, ovvero per presentarsi al proprio elettorato contrario all`opera dicendo di aver provato a bloccarla, ma tutti quanti, compreso chi l”aveva presentata, sapevano che la mozione non aveva alcuna possibilita di essere approvata. in quanto in Parlamento esiste un fronte maggioritario favorevole alla Tav. un fronte che va dalla Lega a Forza Italia e al Pd. Dunque, mentre sulle prime pagine dei giornali si moltiplicavano le ipotesi, nel retrobottega della politica gia si dava per scontato che i pentastellati avrebbero difeso la bandiera, ma senza in alcun modo vincere la guerra. Del resto, sulla Tav abbiamo assistito (…) nell*ultimo anno, cioe da quando e nato il governo Conte, a una commedia che aveva come solo e unico obiettivo quello di non bloccare l*opera e di conseguenza non far cadere l’esecutivo. Dunque, dopo parole di fuoco control°opera,dopol”analisi costi benefici che sembrava prefigurare uno stop ai lavori, si e scelto di indire i bandidigara,facendocredere all*opinione pubblica che la decisione non rappresentasse un via libera all`alta velocit.à, ma fosse solo un atto senza significato. In pratica. sie spostato via via il problema, spingendolo un po` più in là nel tempo. Ma i protagonisti sapevano che prima o poi sarebbe stato necessario pronunciare il si definitivo e a questo alla fine ha pensato Giuseppe Conte, il quale, pur non avendo truppe e quindi voti, con un’opera di sdoppiamento fra il ruolo di presidente del Consiglio e chi lo ha scelto e lo sostiene, si è attribuitoilpoteredidecidere in contrasto con un pezzo della sua maggioranza. Un gioco delle parti. che ha consentito ai 5 stelle di continuare a dichiararsi contrari e al governo di far partire i lavori. Un doppio gioco che finora ha salvato capra e cavoli, Tav ed esecutivo. evitando una rottura fra alleati. ieri. pero, la frattura e venuta allo scoperto platealment.e in Parlamento e tutto e cambiato. Il capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo, ha dett.o chiaramente che ci sarebbero state conseguenze politiche al fatto che due forze di governo vot.assero in maniera opposta su un argomento cosi sensibile. E Salvini ha dato immediatamente corpo alla crisi, salendo a Palazzo Chigi e ponendo a Conte Tultimatum: cosi non si puo andare avanti. Il Capitano leghista pretende un cambio di passo, figure nuove nell`esecutivo e un nuovo cronoprogramma. Il tutto proiettato verso la manovra e tenendo ben presente che, cosi come il cappone non salta in pentola a Natale. i grillini non hanno alcuna voglia di concludere anticipatamente la loro carriera politica. Perché è ovvio che in caso di crisi e di fine della legislatura, almeno la metà degli onorevoli pentastellati non tornerebbe in Parlamento. I sondaggi danno il Movimento sotto il 1? per cento, ovvero a meno della metà di quanto prese il 4 marzo di un anno fa. Se una percentuale simile valesse in tutta Italia, i5 stelle non espugnerebbero un solo collegio uninominale e dovrebbero misurarsi solo con il proporzionale. insomma, sarebbe una debàcle, perche Luigi Di Maio e compagni si troverebbero una truppa di grillini decimata e ridotta a poco più di un terzo. Senza contare gli effetti che avrebbe sullo stato maggiore pentastellato la regola dei due mandati. Se non ci fosse la caduta verticale dei consensi, a fare piazza pulita ci penserebbe il divieto di ripresentarsi per Camera e Senato. Insomma, i vertici del Movimento, purinanellando una sconfitta dietro l“altra. non hanno voglia di crisi, perche non hanno voglia di andare a casa. Dunque non saranno i 5 stelle a staccare la spina e l”unico a poterlo fare, anzi ad avere convenienza a farlo, e Matteo Salvini, il quale del governo Conte ne ha le tasche piene e guardando i sondaggi vorrebbe poter correre senza avere la palla al piede di una continua mediazione con DiMaioecompagni. Se fosse certo di poter andare a votare, il capitano leghista avrebbe già divorziato dai grillini. Se non lo ha fatto finora e stato perche non aveva la certezza di nuove elezioni e anche perché il tira e molla gli ha giovato. Grazie al quotidiano litigio, Salvini ha logorato i 5 stelle e ha moltiplicato i consensi. Crra va alfincasso. pretendendo il rimpasto. E ponendo l`ipoteca sulle misure economiche per la finanziaria. Il ministro dell’Interno non ha intenzione di continuare a occuparsi solo di migranti, ma, in linea con le aspettative della base leghista, vuole tagliare le tasse e varare provvedimenti che rilancino Teconomia. Ce la farà a costringere i grillini a seguirlo anche su questa strada? Ma. soprattutto, riuscirà a superare la barriera dei conti costruita da un ministero che risponde più al Quirinale e a Bruxelles che alla maggioranza che lo ha espresso? La richiesta di Salvini di cambiare qualche ministro vuole dare una risposta proprio a questa domanda. E. a quanto risulta, non e negoziabile. Fossimo in Tria non dormiremmo sonni tranquilli.
Intervista a Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli». L’ex ministro socialista: «Assistiamo alla decomposizione delle istituzioni, nel decreto sicurezza si accetta la fine del ruolo di Palazzo Chigi. I leader politici sono screditati. Solo un’autorità morale e politica può mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica. Lo strumento c’è, è il messaggio del Colle alle camere». Daniela Preziosi sul Manifesto a pagina 5. More
«Quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica, o decide la forza. Se non ci sono soluzioni democratiche c’è la guerra civile». Con Rino Formica – classe 1927, socialista, più volte ministro, da più di mezzo secolo le sue definizioni della politica e dei politici sono sentenze affilate, arcinote e definitive – il viaggio per approdare all’oggi, un oggi drammatico, inizia da lontano. Con il Pietro Nenni «di quei dieci giorni lunghi quanto un secolo fra il 2 e il 12 giugno del ’46», racconta, «fra il referendum e la proclamazione della Repubblica c’è il tentativo del re di bloccare la proclamazione della Repubblica. Umberto resisteva al Quirinale. I tre grandi protagonisti, De Gasperi Togliatti e Nenni, presero la decisione di convocare il Consiglio dei Ministri e di dare i poteri di capo dello stato a De Gasperi, che era presidente del consiglio. De Gasperi andò al Quirinale sfrattò Umberto. In quei giorni noi, dalle federazioni del partito socialista, chiedemmo che fare. C’era il rischio reale che si bloccasse il processo democratico. Nenni appunto diramò la disposizione: quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica o la parola passa alla forza». Questa è la «questione», sostiene Formica.
Stiamo assistendo a una rottura istituzionale?
Questa rottura è antica, maturava già dagli anni 70, ma il tema viene strozzato. Il contesto internazionale è bloccato, un paese di frontiera come l’Italia deve fronteggiare equilibri interni ed internazionali. Nell’89 questo blocco salta, ma le classi dirigenti non affrontano il tema della desovranizzazione degli stati che diventavano affluenti dell’Europa unitaria. I grandi partiti entrano in crisi. Il Pci è in crisi logistica e di orientamento; il Psi perde la rendita di posizione; la Dc è alla fine della sua funzione storica.
Torniamo alla nostra crisi istituzionale.
Da allora abbiamo due documenti importanti. Il primo è del ’91, il messaggio alle camere di Cossiga che spiega che l’equilibro politico e sociale è superato. Poi, nel 2013, il discorso del secondo mandato di Napolitano. Due uomini diversi, con due approcci diversi, con coraggio pongono al parlamento il tema del perdurare della crisi. E i parlamentari, fino ad oggi, continuano a far finta che tutto va bene, che è solo un temporale, passerà. Oggi siamo alla decomposizione istituzionale del paese.
Quali sono i segnali della «decomposizione»?
Innanzitutto il governo: non c’è. Oggi ci sono tribù che occupano posizioni che una volta erano del governo. Il presidente del consiglio convoca le parti sociali, ma il giorno dopo le convoca il ministro degli interni. E i sindacati vanno. Quando il sindacato non ha un interlocutore istituzionale ma va da chi lo chiama si autodeclassa a corporazione: vado ovunque si discuta dei miei interessi. Allora: non c’è un governo, perché la sua attività è stata espunta; non ci sono i partiti né i sindacati. È la crisi dei corpi dello stato. Si assiste a un deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura.
Sta dicendo che non c’è alternativa alla guerra civile?
C’è. Oggi siamo in condizione di mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica? Chi può animarla? I leader politici sono deboli o screditati. Serve l’autorità morale e politica che può creare un nuovo pathos nel paese. Uno strumento democratico c’è, sta nella Carta. È il messaggio del presidente della Repubblica alle camere. Nell’81 la camera pubblicò un volume sui messaggi dei presidenti. Nella prefazione il costituzionalista Paolo Ungari spiega che il messaggio alle camere ha una grande importanza. Il presidente ha due modi per dialogare con il parlamento. Il primo è quando interviene nel processo legislativo. Quando rinvia alle camere un disegno di legge per incostituzionalità. È vero che non ha il diritto di veto ma – dice Ungari – porta il dissenso dinanzi al parlamento e anche all’opinione pubblica, «un terzo e non silenzioso protagonista».
Dovrebbe succedere con il decreto sicurezza bis?
Leggo che Mattarella ha dubbi. Forse ha dubbi su di sé: le norme incostituzionali stavano già nel testo che ha firmato e inviato alle camere. Lì si accettava il superamento della funzione del presidente del consiglio: non c’è più, viene informato dal ministro degli interni. È la negazione della norma costituzionale. Ma è vero che se oggi lo rimandasse alle camere la maggioranza potrebbe ben dire: abbiamo votato quello che tu hai già firmato.
Allora cosa può fare?
La situazione di oggi è figlia dell’errore del 2018. Il presidente dà l’incarico esplorativo a Cottarelli e questo incarico viene sospeso dall’esterno da due signori che notificano al Quirinale di non procedere perché stanno stilando un «contratto» di cui indicano l’arbitro, il presidente del consiglio. È il declassamento dall’accordo politico a contratto di natura civilistica, uno stravolgimento costituzionale. L’accordo di governo è altra cosa: stabilisce una cornice politica generale. L’errore è dei contraenti, ma chi lo ha avallato poteva fare diversamente? Se il presidente del consiglio è arbitro si accetta il fatto che la crisi istituzionale si supera attraverso una extrademocrazia aperta a tutti i venti.
Un punto di non ritorno?
Il problema ora è mettere uno stop. Il presidente della Repubblica dovrebbe fare un messaggio sullo stato di salute delle istituzioni. Il presidente del consiglio non c’è più, il governo neanche, la funzione della maggioranza è mutata fra decretazione e voto di fiducia. Ormai, di fatto, una camera discute, l’altra solo vota. Si sta consumando un mutamento dell’equilibrio istituzionale. Il presidente ci deve dire se questa Costituzione è diventata impraticabile.
Intanto il Viminale allarga i suoi poteri.
Salvini crea una novità nel nostro tessuto democratico. All’interno di un sistema di sicurezza crea una fazione istituzionale di partito: spezza un corpo dello stato in fazioni politiche. Il rischio è che nasca una polizia salviniana. Che avrebbe come conseguenza la nascita della Rosa bianca, come sotto Hitler. E non solo. Ormai Salvini fa in continuazione dichiarazioni di politica estera che si pongono al di fuori dei trattati a cui aderisce l’Italia.
Mattarella ha gli strumenti per fermarlo?
Mattarella viene da una educazione morotea, quella della inclusione di tutte le forze che emergono, anche le più incompatibili. Ma ne dà un’interpretazione scolastica. Moro spiega la sua visione nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari Dc, prima del sequestro. Convince i suoi all’inclusione del Pci nel governo ma, aggiunge, se dovessimo accorgerci che fra gli inclusi e gli includenti c’è conflitto sul terreno dei valori, noi passeremo all’opposizione. L’inclusione insomma non può prescindere dai valori. Altrimenti porta alla distruzione dei valori anche di quelli che li hanno. Infatti il contratto non è un’intesa fra i valori ma tra gli interessi.
Insomma questo governo è un cavallo di troia nelle istituzioni?
È la mela marcia che infetta il cesto.
Mattarella può ancora intervenire?
Non c’è tempo da perdere, deve rivolgersi al parlamento. L’opinione pubblica deve essere rimotivata, deve sapere che ha una guida morale, politica e istituzionale. Si sta creando il clima degli anni 30 intorno a Mussolini.
I consensi di Salvini crescono, l’opinione pubblica ormai si forma al Papeete beach.
Ma no, Salvini cresce perché non c’è un’alternativa. Un messaggio del presidente darebbe forza a quelle tendenze maggioritarie nell’Ue che hanno bisogno di sapere se in Italia c’è qualcuno che denuncia il deperimento democratico. Anche perché, non dimentichiamolo, l’Unione ha l’arma della procedura di infrazione per deperimento democratico, già usata per la Polonia.
In questo suo ragionamento l’opposizione non ha ruolo?
Il paese è stanco, il Pd non è in condizioni di rimotivarlo. Nessuno ne ha la forza. La stampa è sotto attacco, si difende, ma per quanto ancora? Hanno aggredito Radio radicale, i giornali, dal manifesto all’Avvenire, intimidiscono anche la stampa più robusta. Solo una forte drammatizzazione istituzionale può riuscire. All’incontro con i cronisti parlamentari Mattarella ha fatto un discorso importante. Ecco, tutti insieme dovrebbero chiedergli di ripeterlo ma in forma di messaggio alle camere. Per dare un rilievo ufficiale agli attacchi alla libera stampa. La signora Van der Leyen non potrebbe non intervenire.
Anche perché resta il dubbio che la Lega sia strumento della Russia contro l’Ue.
I rapporti fra Salvini e la Russia di Putin sono servili. La Russia ha un forte interesse a un’Italia destabilizzata per destabilizzare l’Europa. Il disegno non è di Salvini, lui è solo un servo assatanato di potere.
Ministro, con Salvini sono tornate le ballerine, stavolta in spiaggia?
Quando parlai di «nani e ballerine» intendevo che non si allarga alla società civile mettendo in un organo politico i professionisti del balletto. Qui siamo alla versione pezzente del Rubigate. Quello di Berlusconi era un populismo di transizione ma non si può negare che intercettasse sentimenti popolari. Salvini invece eccita i risentimenti plebei.
Chiede al Colle di agire un conflitto inedito nella storia repubblicana?
Ma se questa situazione va avanti, fra due anni Salvini si eleggerà il suo presidente della Repubblica, la sua Consulta, il suo Csm e il suo governo. Siamo al limite. Lo dico con Nenni: siamo all’ultima chiamata prima della guerra civile nazionalsovranista. Daniela Preziosi sul Manifesto a pagina 5.
Conte teme per il futuro del suo governo e cancella la conferenza stampa d’agosto. More
Il premier non commenta l’esito del voto e ostenta sicurezza. E il ministro Toninelli: “Lavoro come sempre” (Stampa p.4). Il giorno che cambia vita al governo. Dilemma Conte: cadere o rimpasto. La svolta nel faccia a faccia con il leader leghista (Corriere p.9). Conte fa il mediatore, ma Di Maio dubita: “Non so se continuare” (Fatto p.2).
Il Quirinale attende “con rispetto” le decisioni delle forze politiche. More
Se Conte si dimette, Mattarella rinvierà la partenza per le ferie. Il Colle pronto alle consultazioni “Mai vista la crisi a Ferragosto” (Stampa p.4). Il Colle pronto a tutti gli scenari.
Le osservazioni sul Sicurezza bis. Mattarella firmerà a ore la legge Sicurezza bis accompagnandola con due osservazioni sul sistema di sanzioni per Ong e ordine pubblico. More
Marzio Breda sul Corriere (p.8). Una giornata ad altissima tensione, con voci di crisi che costringevano un preoccupato Sergio Mattarella a prepararsi al peggio: consultazioni a Ferragostoe—in assenza di maggioranze alternative—voto a fine ottobre. Ecco che cosa ha obbligato il Quirinale a spostare tra oggi e domani la firma del decreto Sicurezza bis. L’analisi alla quale sono come sempre sottoposte le leggi prima della ratifica, non ha visto emergere quei palesi vizi di incostituzionalità che avrebbero reso inevitabile una bocciatura da parte del presidente della Repubblica. Sono stati individuati però un paio di punti critici, dettati probabilmente dalla foga che ha ispirato la stesura del provvedimento, con il risultato di rendere piuttosto approssimativi i testi di alcuni articoli. E su quelli il capo dello Stato esprimerà le sue «osservazioni» con una lettera di accompagnamento come se ne sono viste parecchie negli ultimi anni. Anche nell’ottobre di un anno fa, con il primo decreto Sicurezza. Le perplessità del Colle si sono stavolta concentrate su certi aspetti del sistema di sanzioni, che risulterebbe sproporzionato rispetto ai comportamenti contestati. La missiva di Mattarella dovrebbe, per esempio, sollevare dubbi su alcune nuove norme in materia di ordine pubblico, in cui si introducono circostanze aggravanti e si modificano le pene (trasformando le violazioni amministrative in reati penali) riguardo le manifestazioni nei luoghi pubblici eireati di violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale oaun corpo politico. Analoghi inasprimenti, che sarebbero parsi anch’essi piuttosto squilibrati,riguardano poi l’oltraggio a pubblico ufficiale e chi ne offenda il prestigio. L’altro campo oggetto di riflessione critica del presidenteèquello dei salvataggi in mare, con sanzioni durissime e destinateapesare sull’attività delle Organizzazioni non governative impegnate nel Mediterraneo.
Crisi ad agosto, rischio governo balneare Mattarella potrebbe puntare su un premier neutrale. Voto possibile già il 13 ottobre (Qn p.5). Perché il futuro di Salvini dipende dal patto con Mattarella. Il leader leghista prende atto che il governo non c’è più ma tra lui e le elezioni c’è un problema “tecnico” da risolvere (Foglio in prima). More
Alle undici di mattina, quando ancora non è chiaro che piega prenderà la giornata, William De Vecchis, leghista di Fiumicino, entra nella buvette del Senato esibendo le sue chat. “Guardate”, dice. E mostra il messaggio che, poche ore prima, gli ha inviato Francesco Zicchieri, coordinatore del Carroccio nel Lazio: “Oggi Matteo apre la crisi”. Pochi minuti più tardi, il viceministro all’Economia Massimo Garavaglia – che è appena intervenuto in Aula per esprimere un irrituale parere “a nome della Lega” dai banchi del governo, invitando “a votare a favore della Tav e contro chi blocca il Paese” – davanti a un caffè se la ride, sardonico, quando gli si chiede delle conseguenze di questo scontro: “E’ il governo del cambiamento, qualcosa deve cambiare”. E nel dirlo, però, sembra quasi egli stesso ridimensionare la portata delle minacce, e non a caso dopo di lui nella Sala Garibaldi compare Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, che sibila: “La crisi? Più che come aprirla, badiamo a come la si chiuderà”. Primi segnali di una certa cautela, di una spavalderia più ostentata che reale, di una volontà di andare alla guerra, sì, ma con juicio. E il perché lo si capisce di lì a poco, quando i fumi del dibattito d’Aula vanno diradandosi nei corridoi di Palazzo Madama, e tra i leghisti cominciano a filtrare i dubbi sulle possibili conseguenze di un gesto estremo: e tutte quelle incertezze gravitano intorno al Quirinale. Al punto che perfino esponenti di governo del Carroccio iniziano a domandare ai cronisti: “Al Colle che aria tira?”. Un’aria di strana tranquillità, a dire il vero: quella di chi, nel pieno rispetto della grammatica costituzionale, resta pronto a tutto e per questo tiene l’agenda libera per i prossimi giorni, ma al contempo attende atti formali, prima di agire di conseguenza. Salvini non si fida, di Sergio Mattarella: resta perplesso sulla reale intenzione del presidente della Repubblica di concedere il voto anticipato, senza magari esperire altre strade, come quella di un governo di transizione, che non si sa mai dove potrebbero portare. I suoi, estenuati dalla convivenza coi grillini, lo incalzano: “Matteo, ora o mai più”. Ma lui tentenna, indugia, spera semmai che Di Maio creda al bluff, e offra lui per primo un rimpasto, una revisione del contratto di governo, insomma quella che Pier Ferdinando Casini chiama “l’umiliazio – ne finale” del M5s. Ma i grillini la fiutano, la paura di Salvini sulle possibili contromosse del Quirinale, e a loro volta si accertano che il capo della Lega non salga al Colle nel pomeriggio. A quel punto, sembrano quasi rintanarsi nel loro subbuglio, con due riunioni dei gruppi parlamentari convocate nel pomeriggio. “La cosa più probabile è un rimpasto”, dice Gianluigi Paragone. Ma Di Maio ha la forza per gestirlo? “Per lui è una prova di maturità”. Il tutto, però, continuando a scrutare gli umori del Colle. Da dove, forse, si è innescata la miccia della crisi. Il riferimento è alla convinzione che avrebbe maturato il capo dello stato circa la necessità di portare a pieno compimento la riforma costituzionale sul taglio dei numeri dei parlamentari. Verrà approvata a settembre alla Camera, e potrebbero volerci almeno sei mesi, poi, prima che entri pienamente in vigore. “Quando hanno capito che così si chiudeva la finestra di marzo 2020, i leghisti si sono agitati”, dice uno stranamente serafico Stefano Patuanelli, capogruppo del M5s al Senato. D’altronde, i tempi della crisi sono proprio quelli da cui dipende la scelta di Salvini. Quando era salito al Colle il 18 luglio, Giorgetti aveva tratto la convinzione di aver guadagnato una decina di giorni. “Ma entro fine luglio bisogna rompere”. Per questo martedì, come diffidando della possibilità reale di una crisi, aveva preso l’ae – reo ed era tornato nella sua Cazzago. Perché ogni giorno che passa, la via che porta verso un voto anticipato il 13 di ottobre, si fa più stretta. E potrebbe chiudersi definitivamente se, impaludatosi nei tatticismi, e magari temendo la trappola di un accordo sottobanco, alla fine Salvini si accontentasse di chiedere un rimpasto. Con l’obiettivo non di nuove elezioni, ma di un governo finto nuovo: un Conte bis senza Toninelli e senza Trenta, da mandare alla Camera la prossima settimana per ottenere la fiducia.
L’ultimatum a Conte “Programma e ministri nuovi o si vota a ottobre” (Repubblica p.2). «Cambiare in fretta o meglio le elezioni». [/read] Nel mirino del leader Toninelli, Trenta e Tria. L’ipotesi: vertice con Di Maio e poi lunedì al Colle (Corriere p.3). Beach tour dimezzato, linea dura di Matteo: nulla più come prima. Cancellati i comizi balneari di Sabaudia e Anzio, avverte i suoi: restate nei paraggi. Non si possono garantire reddito di cittadinanza a tutti e salario minimo (Messaggero p.4). Romeo: «Così il governo non è più credibile» (Corriere p.3). «Pronti a fare campagna elettorale se il patto salta ci sono solo le urne» (Messaggero p.4). Esulta il fronte di chi vuole le urne: il Movimento non può più risalire (Corriere p.6). [/read]
Il tormento di Di Maio: “Forse dobbiamo finirla qui”. More
Grillo lo sostiene, colloquio col premier. Morra: votiamo se restare. Corrao: “Ci stanno rubando i consensi” (Repubblica p.3). Il capo pronto a sacrificare pure il Mit. Rinviato il vertice tra parlamentari, Di Maio vuole l’intesa. Ma è rivolta nel M5S: “Dobbiamo rompere” (Stampa p.5). M5S accusa Di Maio: «Così non reggiamo basta cedere su tutto». Allarma il sondaggio che dà i 5Stelle al 14%. Il leader: troppi 3 ministri da cambiare E Costa è un simbolo del Movimento (Messaggero p.6). Di Maio studia una legge elettorale anti-Lega Gigino al bivio: accettare la svolta pro-Carroccio o dire basta. In questo caso potrebbe riscrivere le regole del voto col Pd (Libero p.5).
Così Toninelli fa harakiri. La lista dei cantieri sbloccati. More
Sergio Rizzo su Repubblic a pagina 28. Ma chi gliel’ha fatto fare? Ecco la prima domanda che salta in mente scorrendo la lista di presunte “opere sbloccate” pubblicata sulla pagina Facebook di Danilo Toninelli. Perché se era alla ricerca di un modo per rigettare le accuse, in verità non soltanto salviniane, di essere il ministro dei blocchi anziché degli sblocchi, un simile harakiri poteva risparmiarselo. Esageriamo? Rivendica, il ministro ostile alla Torino Lione e che ha imposto l’analisi costi-benefici a tutti i grandi progetti, dalla Gronda di Genova all’alta velocità nel Nord-Est fino alla bretella Campogalliano-Sassuolo, di aver sbloccato la provinciale 23 di Vibo Valentia fra Joppolo e Coccorino. Quattro chilometri interrotti da una frana nel 2017, riaperti con il taglio del nastro del ministro Toninelli qualche giorno fa. E il ponte di Annone Brianza, crollato il 28 ottobre 2016 uccidendo un automobilista. Anche se i lavori erano iniziati nell’aprile 2018, prima che Toninelli diventasse ministro. E gli aeroporti di Foggia, Crotone e Salerno. Per non dire dell’«avvio della realizzazione delle ciclovie turistiche»: che però, se non ricordiamo male, è progetto del suo predecessore Graziano Delrio. Tuttavia sarebbe ingeneroso non ricordare che nell’elenco Toninelli si intesta con orgoglio anche sblocchi ben più sostanziosi. Per esempio l’alta velocità Napoli-Bari. “Avviato cantiere”, scrive. Ma dimenticando di precisare che è il terzo lotto: i primi due erano già partiti all’epoca di Delrio, e l’Ance denuncia che il quarto è ancora bloccato. Quindi la metro Milano-Monza, con “900 milioni stanziati”. Verissimo, i soldi sono nella finanziaria. Per onestà va però precisato che tutto è partito da un emendamento presentato dal capogruppo leghista Massimiliano Romeo insieme al senatore grillino Gianmarco Corbetta. Quanto al porto di Gioia Tauro “salvato e rilanciato” (testuale) è probabile che Toninelli si riferisca a un accordo fra privati, per cui il controllo della società di gestione dello scalo calabrese è passato al gruppo imprenditoriale di Gianluigi Aponte, che qualche appassionato alle vicende Alitalia non farà fatica a ritrovare fra quei “patrioti” (il Cavaliere dixit) della sgangherata cordata che partecipò all’ancor più sgangherato tentativo di salvataggio berlusconiano della ex compagnia di bandiera. Dopo l’accordo il ministero dovrà sistemare le ferrovie che collegano il porto, tanto malandate e inefficienti da aver finora inibito a Gioia Tauro lo sviluppo che merita. Fino ad allora, però, “salvato e rilanciato” sono paroloni. Poi c’è la questione criminalità, ma qui non c’entra Toninelli. Opera “sbloccata” anche il Quadrilatero Marche Umbria, infrastruttura prevista dalla legge Obiettivo di lunardiana memoria, iniziata addirittura una quindicina d’anni fa. E infine la famosa Asti-Cuneo: il Cipe ha approvato giovedì scorso uno schema finanziario che dovrebbe consentire il completamento di un’autostrada partita nel 1998. Per l’entusiasmo del ministro, prontamente smorzato da Daniele Martini con un articolo sul Fatto quotidiano dal titolo inequivocabile: “L’accordo sulla Asti-Cuneo regala ai Gavio 1,2 miliardi”. Per inciso, “i Gavio” sono i concessionari dell’autostrada. Toninelli ha rispedito le osservazioni al mittente. Non senza aver prima diffuso un video in cui annunciava il grande successo ottenuto grazie alla delibera del Cipe mostrando la foto scandalo dell’autostrada con il viadotto che finisce nel nulla. Purtroppo per lui La Stampa ha ricostruito che ha sbagliato, forse per l’euforia, fotografia e strada. Il quotidiano torinese spiega che il Cipe ha dato il via libera alla ripresa dei lavoro “solo nella parte fra Alba e Verduno”, il tratto con i progetti esecutivi già approvati mentre “al momento non è stato nemmeno ancora individuato il tracciato definitivo” del moncone di strada nella foto mostrata da Toninelli. «Qui serviranno – dice La Stampa – anni per completare la procedura autorizzativa, iniziando dalla valutazione dell’impatto ambientale». Decisamente non gliene va bene una.
L’ex premier Matteo Renzi mette le mani avanti: “Se si vota nasce una forza di centro. More
Magari ne spunterà anche più di una. Non è un annuncio, parlo da osservatore. Se la Lega apre la crisi è perché ha finito i soldi: altrimenti continuerà la sua campagna elettorale. Il problema casomai è se riesce a nascere una forza di centro che sia davvero seria e anche fatta bene” (Stampa p.5). Renzi accelera: “Io fuori dal Pd, forse già a settembre. Stanco degli attacchi”. L’ipotesi di un’uscita solitaria, poi il nuovo partito (Sole p.3).
Quel che Renzi non dice. Il commento di Eugenio Scalfari su Repubblica. Credo che l’ex segretario possa essere ancora utile ai democratici ma in un ruolo non politico.More
Ho letto anch’io la lettera che Matteo Renzi ha inviato al nostro giornale e che, nel rispondere a Piero Ignazi, rivendica un compito definito della massima importanza e utilità collettiva da lui gestito nella fase in cui era al tempo stesso segretario del Pd e capo del governo. Non faceva parte del Parlamento ma questo era a suo avviso un aspetto privo di qualunque importanza. La tesi di Renzi è che non esiste nella recente storia della sinistra italiana alcuna fase più interessante e importante per il Paese del periodo da lui guidato. Segue un lungo elenco dove vengono indicati provvedimenti, risultati, aumento notevole di elettori e del benessere dei cittadini, non solo quelli di sinistra ma i ceti più bisognosi di appoggi che videro migliorare fortemente la loro condizione sociale. In particolare Renzi ricorda il Jobs Act. Nella sua lettera parla molto poco di un suo progetto elettorale, concordato nella sostanza, forse, come emerse da molti retroscena dell’epoca, con Silvio Berlusconi e il suo partito. Quel piano era della massima importanza e i due partiti hanno marciato per un certo tempo assieme sulla strada della riforma istituzionale. Il Senato sarebbe stato abolito o meglio destinato ad occuparsi soprattutto di questioni regionali e locali ma non della politica nazionale. Il Parlamento sarebbe stato ridotto a una sola Camera, come del resto era sempre stata la struttura politica delle nazioni europee della Unione. Fin qui non sarebbe avvenuto nulla di preoccupante per la gestione democratica del Paese ma l’importanza derivava da un altro aspetto della questione: l’abolizione del Senato così come Renzi (e forse Berlusconi d’accordo con lui) aveva disposto avrebbe dato il potere legislativo non già alla Camera dei deputati, bensì al governo. Era il governo, cioè il potere esecutivo, a concentrare in sé anche il potere legislativo. Esecutivo e legislativo: di fatto una sorta di dittatura. Nella sua lettera Renzi non parla di questo, sorvola, eppure proprio questo era l’aspetto pesante della situazione che fu bloccato perché un gruppo di radical-socialisti pose il problema del referendum sulle decisioni che Renzi aveva preso. Renzi cercò di mobilitare al massimo i suffragi che lo sostenevano e nel 2016 arrivò infatti a superare il 40 per cento dei voti referendari, ma l’opposizione di gran parte degli italiani e in particolare di quelli di sinistra sfiorò il 60 per cento. E lì cominciò la caduta di Renzi e insieme quella del partito da lui guidato. Penso che Renzi possa ancora essere di qualche utilità al partito, il quale potrebbe affidargli qualche incarico anche importante ma non politico, bensì un ruolo utile alla ristrutturazione del partito democratico. Se lui accettasse credo sarebbe opportuno, se non accettasse uscirebbe del tutto dagli interessi del partito e degli elettori della nuova sinistra.
E il Pd? Caos Pd, Zingaretti: «Ora Conte lasci» More
Ma la strategia per l’aula spacca i dem (Messaggero p.6). Zingaretti: “Per cambiare i ministri devono venire a votare in aula: li voglio proprio vedere i grillini” (Stampa p.5). Zingaretti: l’esecutivo è finito il premier vada al Quirinale. Lite tra Zanda e Marcucci sulla scelta in Aula sulle mozioni. Il segretario: ora uniti (Corriere p.8). Il Pd compatto in aula si spacca dopo il voto: “Dovevamo andarcene”. I renziani, in maggioranza al Senato, riscrivono la mozione per renderla votabile anche dalla Lega. Zingaretti frena le polemiche: “Abbiamo vinto” (Repubblica p.7). Calenda: “Partito diviso in due. Renzi sta esagerando. Sulla Tav persa un’occasione. I nostri senatori hanno scelto di non far cadere il governo, ma presto si andrà al voto e servirà un fronte democratico più vasto dei dem (Repubblica p.7).
Tav e Valli. Più fondi per la Tav, verso il via libera. Ue: finanziamento al 55%. Il voto in Parlamento era il segnale atteso dalla Commissione. Che si prepara a rivedere i contributi prima della fine dell’estate. More
Bruxelles sembra orientata a chiedere all’Italia ulteriori garanzie sui tempi e sulla realizzazione dell’opera (Messaggero p.8). Alta velocità, nelle valli lo scontro continua. “Adesso la Tav è un’opera irreversibile”. Il governatore Cirio canta vittoria. Esultano anche le madamine del Sì: “Abbiamo dato la spinta decisiva”. Cala definitivamente il sipario su un dibattito di cui avremmo fatto volentieri a meno. “Nessuna paura. Bloccheremo quel cantiere”. Il movimento No Tav non si ferma: “Avanti con la lotta in Val Susa”. Il silenzio dalla sindaca Appendino. Grillo: Non avere i numeri non significa tradire. Perino è un ipocrita, mi ha deluso, l’avevo sopravvalutato (Stampa p.7).
Cio 1. Il Cio propone incontro a Governo e Coni: «Troviamoci per cambiare la legge» More
Sul Corriere a pagina 39. Il Cio rilancia. All’indomani dell’approvazione della legge delega che avvia la riforma dello sport voluta dal governo pentaleghista, il Comitato olimpico internazionale ha scritto di nuovo a Giovanni Malagò, presidente del Coni, ribadendo «la nostra proposta di organizzare una riunione congiunta con il Coni e le autorità governative competenti a settembre a Losanna per riesaminare attentamente la situazione e trovare una soluzione reciprocamente accettabile per garantire che il nuovo quadro legislativo sia pienamente compatibile con i principi e le regole basilari della Carta olimpica». La lettera è firmata da James McLeod, funzionario preposto ai rapporti internazionali e stretto collaboratore del numero uno dello sport mondiale Thomas Bach. Il Cio tenta di percorrere la via del dialogo, la risposta tocca al governo.
Cio 1. Il presidente del basket Gianni Petrucci e lo scontro governo-sport dopo la nuova legge: “Inutile il muro contro muro. Malagò? Guidare il Coni non è una battaglia personale. More
L’Italia fuori dai Giochi 2020? Vedrete, Giorgetti è un uomo che dialoga, modificherà la legge. Il governo ci dà 460 milioni, come si fa a parlare di autonomia? Serve realismo operativo”. Paola Brusorio sulal Stampa a pagina 37. A Verona la nazionale di basket prepara l’imminente mondiale. Da lì il presidente federale Gianni Petrucci ha seguito la querelle Governo-Cio in merito alla neonata legge dello Sport che allo stato dell’arte viola fondamentali punti della carta olimpica. Presidente, teme l’esclusione dell’Italia da Tokyo 2020? «Non sono molto preoccupato». Non la fa un po’ facile? «Primo: quello che ho letto è una lettera non firmata da Bach in risposta alla richiesta del Coni e indirizzata ai membri del Cio. Secondo: i decreti delegati non sono decreti legge e quindosonomodificabili.Evedràcheilsottosegretario Giorgetti con sensibilità e intelligenza interverrà dove serve per chiarire i punti critici. E, per sgombrare il campo dagli equivoci, conoscono le mie ideepolitiche. Il Cio invita il governo italiano a presentarsi a Losanna per trovare una soluzione. Giusto andarci? «ConoscoGiorgetti,è unapersonache dialoga» Più in generale la pax che abbiamo visto a Losanna culminata con l’assegnazione dei Giochi 2026 all’Italia, è svanita. Il governo contro il Coni: non un grande spettacolo. «L’esperienza mi ha insegnato che quando si gestisce un ente importante come il Coni bisogna tenere il volume basso. L’autoreferenzialità non serve, finisce per essere dannosa. In certi casi serve del realismo operativo». Si riferisce al presidente del Coni Malagò? Dove ha sbagliato? «Non entro nel merito. La mia non è una battaglia contro Malagò. Ho diretto il Coni per 14 annie ne vadofiero, i miei inizi conilgovernoTremontinonfurono facili eppure superammo i problemi. Bravura? Fortuna? Nonso. Certo, non ho mai messo l’io davanti prima di confrontarmi con la politica». Sprezzanti del deficit da contenere entro il 3% (solo per fare un esempio), incuranti della carta olimpica: la legge sullo sport verrà anche modificata, ma certo questo governo non ha grande attenzione per le norme. O no? «È vero, potevano pensarci prima. Non l’hanno fatto. Ora è inutile andare al muro contro muro. Se poi ci sono due personedicuifidarsi sonoproprio Giorgetti e Sabelli, l’ad di Sport e Salute. Decisionisti? E che cosa devono fare, stare a guardare?Conilbuonismo,diceva Alberoni, non si risolvonoiproblemi ». Malagò vuole difendere l’autonomia dello sport. Non è d’accordo? «Si fanno le battaglie che si possono vincere. E questa, è chiaro, non si è vinta. Si devono rispettare le scelte anche se noncondivise». Sa di resa incondizionata. «No, di intelligenza politica. Personalizzare le battaglie non è mai stato produttivo. Esiste il noi proprio per questo». Posto che la questione Cio rientri, resta una spaccatura dentro la spaccatura: cinque federazioni – basket, calcio, volley, nuoto e tennis – apertamente in contrasto con la gestione di Malagò. Come se ne esce? «E se fossero gli altri in contrasto con noi? Mi dica come si fa a non tenere conto delle posizioni di cinque federazioni così importanti, come si fa a tirare dritti senza porsi delle domande». Quindi? «Quindi il problema non si pone più. Con la nuova legge il Coni non è più di fatto il ministero dello sport, come lo è stato dai tempi di Onesti, ma solo di quello olimpico. Il resto da oggi verrà gestito diversamente». Con tanti saluti all’autonomia dello sport? «Senta, il governo ci dà 460 milioni, come si fa a parlare di autonomia. Quanto meno è parziale. E sottolineo, quanto meno». Rimarrà il muro contro muro tra voi e il presidente del Coni? «Parlo per la mia federazione e dico che non si è fatto molto per recuperare il rapporto. Ho espresso una posizione e non sono stato preso in considerazione, ma forse non era così sbagliata. Non ho nulla di personale contro Malagò, ma i fatti sono questi». Ottenuti i Giochi 2026, Malagò ha subito annunciato la propria ricandidatura a presidente del Coni. Ha fatto bene? «No comment». Lei però non viene da Marte, quattordici anni da presidente del Coni: possibile che funzioni male solo ora? «Il Coni funziona e ha sempre funzionato. Con me e prima di me. Ora i tempi sono cambiati, è cambiato il mondo e in Italia il vento politico. Questo governo ha un’idea diversa sulla gestione dello sport, meglio sarebbe stato usare i toni bassi. E dialogare. Invece si è scelta una strada diversa, difficile lamentarsene poi». Chiudiamo con il basket: la qualificazione ai Giochi passa anche dai prossimi Mondiali. L’Italia, dice lei, ci sarà: si può dire lo stesso della Nazionale di Sacchetti? «È il mio sogno da quando sono seduto su questa poltrona». Brucia ancora la delusione pre olimpica di Torino ? «La digerirò solo quando sarò inPurgatorio».
La nave spagnola con 121 migranti: “Aspettiamo ma cosa farà l’Italia?” (Stampa p.17).
Cerciello, nuovi video con gli americani prima dell’omicidio. Agli atti immagini inedite dei due indagati dopo l’uscita dall’hotel. More
I frame ricostruiscono parte dei 24 minuti in cui i ragazzi “spariscono” (Messaggero p.10). Il coltello lavato per cancellare le prove e in albergo spunta una seconda lama. Le indagini: si cerca un taxi che avrebbe portato i giovani da piazza Mastai all’hotel in Prati. Decine di militari ascoltati in tutta Italia per stabilire chi abbia diffuso la foto di Natale bendato. Messaggero p.10. Carabiniere ucciso: ecco cosa non torna di Fiorenza Sarzanini. Trovati nuovi fotogrammi nelle indagini sull’omicidio di Cerciello. Gli americani avevano un secondo coltello. Lavata la lama del delitto. Varriale è in borghese. Nella sua nota di servizio, allegata dal gip all’ordinanza, non si fa cenno alla presenza del collega Cerciello
Corriere p.15
Roma, ucciso Diabolik il capo degli Irriducibili. Attirato in trappola, un colpo di pistola alla testa: Fabrizio Piscitelli aveva 53 anni. Era seduto su una panchina, il killer vestito da runner lo ha preso alle spalle. More
(Messaggero p.12). Secondo i testimoni il leader della curva nord non era solo a sparare un uomo con il volto coperto risse e business della droga così l’ultrà amico di carminati tentò la scalata della lazio ai suoi amici diceva: «ho riscattato il tifo biancoceleste». cercò di costringere lotito a vendere le quote della società nelle carte delle inchieste i rapporti con l’estremismo di destra e la “batteria” di ponte milvio che lui comandava
L’appello di Libero. L’ex governatore ai domiciliari non ha mezzi per sopravvivere. C’è una colletta per pagare il cibo a Formigoni. Un amico si attiva per raccogliere fondi. Si può contribuire. Sul lastrico per sentenza (Libero p.9).
Manovra. Bonus 80 euro a rischio per 3 milioni di persone. Con la trasformazione in detrazione chi non versa Irpef perderebbe il beneficio. More
Il centro studi Eutekne: in bilico anche per i redditi oltre 20 mila euro. La Lega ha promesso che nessuno perderà la somma e il beneficio verrà confermato nella riforma fiscale, ma il conto della flat tax per evitare questo effetto sulle buste paga potrebbe salire fino a 15 miliardi di euro (Messaggero p.9). La cancellazione degli 80 euro colpirà i redditi più bassi. Trasformare il bonus Renzi in detrazione può far perdere fino a 250 euro. Introdotto dal governo Renzi nel 2014 e reso strutturale nel 2015 (costo circa 10 miliardi), il bonus da 9.600 euro l’anno va ai redditi tra 8.125 e i 26.600. Dai 24.600 ai 26.600 scende fino a zero. I lavoratori con un reddito lordo poco sopra la no tax area (8.125) potrebbero non godere di tutto lo sgravio contributivo e perdere fino a 250 euro l’anno (Repubblica p.22). «Riforma giusta, ma servono 2 miliardi per correggerla». L’ex vice ministro dell’economia Zanetti avverte: il tema va maneggiato con cura, oppure diventa un pasticcio (Messaggero p.9). Da bonus a decontribuzione: le mani della Lega sugli 80 euro. Il Carroccio punta ai 10 miliardi della misura sociale trasformando il credito d’imposta in uno sconto sulla previdenza. L’importo oggi si applica sui redditi che vanno dagli 8mila ai 26.600 euro annui (Fatto p.11).
Via gli 80 euro. I poveri sempre più poveri. Il commento di Chiara Saraceno More
Repubblica (p.29). Esclusi dagli 80 euro mensili di Renzi, i lavoratori più poveri rischiano di esserlo anche dalla riforma cui sta lavorando la Lega. Per quanto possa apparire paradossale per una misura pensata e propagandata come a favore dei lavoratori (dipendenti) a reddito molto modesto, gli 80 euro infatti non possono essere fruiti da chi ha un reddito (individuale) annuo inferiore alla soglia minima di 8.000 euro, mentre possono essere ricevuti per intero da chi arriva fino a 24.000 euro e in parte anche da chi arriva fino a 26.000 euro. Tra i molti che in questi anni hanno dovuto restituire somme ricevute “indebitamente” non vi è solo chi ha guadagnato più del previsto o ha altri redditi (individuali) oltre a quelli da lavoro. Ci sono anche coloro che hanno guadagnato meno, andando sotto la soglia minima, perché hanno dovuto lavorare a orario ridotto, o non hanno lavorato tutto l’anno. Questo esito paradossale è la conseguenza della forma, un credito di imposta, con cui sono erogati gli 80 euro. Chi ha un reddito troppo basso non può fruire di alcun credito di imposta, perché non ha imposte da pagare. Non è l’unico difetto di questa misura, dal punto di vista dell’equità, ma certo è il più grave. Dipende dalla nota (anche se non ai politici di ogni colore, a quanto sembra) questione dell’incapienza, che impedisce anche di fruire delle detrazioni (per persone a carico, per spese mediche o altro) cui si avrebbe teoricamente diritto. Una questione che produce ingiustizie in generale, ma tanto più quando si tratta di una misura destinata proprio a sostenere il reddito dei più poveri. Potrebbe essere corretta solo da una misura di imposta negativa, che rimborsi gli incapienti di quanto non possono fruire. Non è questa, tuttavia, la via che intende prendere la Lega con la sua proposta di riforma, che intende eliminare gli 80 euro per finanziare una mini flat tax. Al contrario, sia che trasformi il credito di imposta in detrazione fiscale sia che lo trasformi in decontribuzione, rischia di escludere totalmente o parzialmente, oltre ai lavoratori con redditi annuali inferiori agli 8.000 euro, anche lavoratori che attualmente fruiscono degli 80 euro mensili, ma che non hanno la capienza fiscale o contributiva per fruire del nuovo meccanismo. Nonostante le rassicurazioni di Garavaglia, secondo il quale si tratterebbe semplicemente di una modifica tecnica che nulla cambierebbe in busta paga, si allargherebbe così la platea dei lavoratori poveri esclusi da una misura teoricamente destinata ai redditi (individuali) più bassi. L’Italia è uno dei Paesi in cui il fenomeno dei lavoratori poveri, endemico tradizionalmente in alcune aree, è molto aumentato in seguito alla crisi e non accenna a diminuire. Riguarda sia lavoratori che hanno remunerazioni molto inferiori alla media, o hanno contratti di lavoro precari e non riescono a lavorare tutto l’anno, o lavorano a tempo parziale involontario, sia lavoratori con salari modesti, ma nella media, che sono gli unici percettori di reddito in una famiglia numerosa. È quindi opportuno che venga affrontato anche (non solo) sul piano fiscale. Ma senza produrre ingiustizie ed esclusioni dei più poveri, come avviene necessariamente quando si utilizza lo strumento vuoi del credito di imposta, vuoi della detrazione fiscale, vuoi della decontribuzione, senza bilanciarli con una imposta negativa. Cosa che non è certo nell’agenda della Lega, non solo per vincoli finanziari, ma perché l’equità non è tra i suoi obiettivi. Anzi, la narrazione populista serve a mascherare la legittimazione di privilegi piccoli e grandi. Sarà interessante vedere se i sindacati e il Pd saranno capaci di sviluppare una posizione critica che non si limiti a difendere lo status quo, continuando ad ignorarne le iniquità.
Trump: il nostro problema è la Fed, non la Cina. Il presidente chiede una politica di riduzione dei tassi più aggressiva. La Casa Bianca intensifica il pressing dopo i tagli in India, Nuova Zelanda e Thailandia (Sole p.5). Trump attacca la Fed: ridicola. E l’oro vola sopra 1.500 dollari (Corriere p.27).
Sulla Germania lo spettro della recessione. A giugno crolla la produzione industriale. Meno 1,5% su maggio e un clamoroso -5,2% rispetto a un anno fa. Soffrono il settore manifatturiero e le banche. More
L’economia del Nord teme il contraccolpo: obbligati a innovare. Il mercato tedesco assorbe un prodotto su quattro. A rischio meccanica, elettronica e componenti per auto. Su molti mercati Berlino resta un concorrente da battere. Dopo l’estate ci sarà un lieve aumento dei consumi ma rallenterà la parte industriale del Paese (Stampa p.9).
Il rischio del domino. Se la Germania prende il raffreddore l’Italia rischia la polmonite. Il commento di Mario Deaglio sulla Stampa. More
Chi riesce ad alzare lo sguardo dalle debolezze e dalle complicazioni dell’economia italiana – per non parlare di quelle della politica – non trova conforto in Germania. Tanto per far parlare le cifre, in giugno l’indice della produzione industriale della prima economia dell’Unione europea è caduto dell’1,5 per cento rispetto al giugno 2018, contro una flessione dell’1,2 per cento in Italia; nell’intero secondo trimestre, secondo le prime stime, il Pil italiano è rimasto stazionario rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso mentre quello tedesco è andato un po’ meglio ma le prospettive del settori trainanti, in particolare dell’industria manifatturiera, sono in picchiata per il resto dell’anno. Perché questa debolezza dell’economia più forte d’Europa? Le cause vanno da fattori esterni come la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ambedue grandi clienti di Berlino e ambedue pronti a “punire”, con dazi o in altro modo, chi commercia con il “nemico”, a fattori interni come la debolezza di alcune banche importanti, i non brillanti risultati di molte grandi imprese, la bolla immobiliare che porta i tedeschi – cittadini di un paese che invecchia – a risparmiare sui consumi correnti pur di comprarsi una casa. Se la Germania prende il raffreddore, l’Italia può prendersi la polmonite. E una polmonite economica è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Perché questo possibile effetto negativo? Perché la Germania è il nostro migliore cliente. Le nostre esportazioni industriali verso la Germania superano sensibilmente il miliardo di euro alla settimana e coprono tutto l’arco della produzione, dagli alimentari alle auto, dalla metallurgia alla chimica. Non bisogna poi dimenticare i flussi turistici: le presenze dei turisti tedeschi sono nettamente superiori a quelle complessive di francesi, inglesi e americani. Nel grande cambiamento tecnologico in corso, è pressoché impossibile calcolare quanto ci “costerebbe”, in termini di mancata crescita e minore occupazione, una sia pur moderata e relativamente breve recessione tedesca. In ogni caso, sarebbe sufficiente a trasformare le nostre prospettive per il 2020 da pallidamente positive a nettamente negative. Una Germania in crisi economica fa paura all’intera economia mondiale; ieri, un commento dell’agenzia Reuter’s ha definito “da paura” (“scary”), appunto, questa prospettiva e a maggior ragione dovrebbe preoccuparsi l’Italia. Alcuni effetti negativi, con un rallentamento delle prospettive di crescita, sono già comparsi in una delle province più dinamiche, quella di Brescia, per l’affievolirsi degli ordini tedeschi, specie nel settore metallurgico e in quello meccanico. Forse sarebbe bene che staccassimo per un momento gli occhi dalla scena politica interna e considerassimo quello che sta succedendo intorno a noi. È chiaro che da questa situazione si può uscire soltanto in ambito europeo e richiede da parte di tutti una maggiore collaborazione e non le polemiche artificiose che hanno portato l’Italia a prendere pericolosamente le distanze dal resto dell’Europa e a perdere così peso politico. Un’Europa maggiormente unita e maggiormente determinata potrebbe non solo essere più flessibile sui deficit di bilancio dei paesi dell’Unione ma anche dotarsi di nuove competenze – a partire da quelle in materia climatica – e finanziarle direttamente svolgendo così un’azione di impulso economico che passi sopra a quella dei singoli governi.
La guerra commerciale Usa-Cina è un gioco a somma negativa.
Raffaele Borriello sul Sole a pagina 17 More
Giovedì scorso, con una delle sue solite mosse a sorpresa, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’imposizione di nuovi dazi del 10% sulle importazioni di beni cinesi per un valore di circa 300 miliardi di dollari a partire dal 1° settembre. Tutto iniziò nel luglio 2018 La breve ma intensa storia della guerra commerciale tra Usa e Cina è iniziata nel luglio 2018 quando, dopo mesi di minacce, il presidente Trump decise l’imposizione di tariffe sull’importazione dalla Cina in risposta alle pratiche commerciali di Pechino considerate sleali. Dopo tre successive tranche di inasprimenti tariffari tra luglio e settembre 2018, nel maggio 2019 sono entrati in vigore dazi aggiuntivi, che hanno portato a ben oltre 250 miliardi di dollari il valore delle importazioni cinesi colpite da inasprimenti tariffari. Aggiungendo gli ulteriori dazi appena annunciati, a settembre praticamente tutte le importazioni dalla Cina saranno colpite dal protezionismo americano. In questi mesi, il governo cinese ha risposto con un approccio di tit for tat volto a ribattere “colpo su colpo”, introducendo aumenti tariffari equivalenti, anche se su volumi di importazioni molto inferiori in valore assoluto a quelli delle esportazioni cinesi colpite dai dazi statunitensi, in ragione del forte surplus commerciale che la Cina vanta nei confronti degli Stati Uniti. Dal punto di vista degli Usa, le tensioni con Pechino sono spiegate dalle distorsioni nei flussi di commercio dovute al modello statalista cinese. Ma oltre agli aspetti squisitamente commerciali le accuse statunitensi riguardano anche altre aree: il presunto cyber spionaggio cinese; le procedure sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale; le politiche discriminatorie sull’innovazione; l’uso estensivo di politiche industriali finalizzate a proteggere le industrie nazionali. Gli effetti delle tariffe Sul fronte commerciale, un recente studio dell’Ismea (L’America first di Trump: l’impatto della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, giugno 2019) mostra che l’imposizione delle nuove tariffe da parte dei due Paesi determinerebbero un calo delle esportazioni Usa verso la Cina di circa il 40% a fronte una riduzione delle esportazioni cinesi negli Usa del 29%, con una riduzione del deficit commerciale bilaterale degli Usa – la grande ossessione di Trump – pari al 23 per cento. Dunque, dal punto di vista strettamente mercantilistico, la strategia Usa può essere considerata un successo, ma non è detto che su di essa, alla lunga, prevalga il consenso. Da una parte, infatti, nel lungo periodo il deficit commerciale complessivo degli Usa potrebbe ridursi in misura inferiore alle attese, in quanto il miglioramento nei confronti della Cina sarà in parte controbilanciato dal peggioramento nei confronti dei Paesi terzi; dall’altra, poiché le importazioni dalla Cina colpite dai dazi interessano sia beni intermedi importanti per le industrie statunitensi sia prodotti di largo consumo, la guerra commerciale scatenata da Trump avrà effetti negativi sul fronte interno, in termini di costi più alti per le imprese e di maggiore spesa delle famiglie statunitensi. Sul fronte delle esportazioni, inoltre, c’è il malcontento generato dalla reazione cinese che sta colpendo soprattutto prodotti agricoli, in particolare cereali e soia, tra le principali voci di esportazione Usa in Cina. Data la rilevanza del volume degli scambi Usa-Cina, la forte contrazione dei flussi commerciali bilaterali sarà solo in parte compensata dall’intensificazione dei legami commerciali con gli altri Paesi. Nel caso degli Usa la sostituzione di importazioni provenienti dalla Cina con esportazioni di altri Paesi avverrà soprattutto per i prodotti manifatturieri, mentre nel caso della Cina la sostituzione delle esportazioni statunitensi riguarderà i prodotti agroalimentari. Le catene globali del valore Vi è, inoltre, un aspetto importante da valutare, che riguarda le cosiddette catene globali del valore – che prendono in considerazione tutta la filiera che conduce all’import/export di un prodotto finito – al cui interno la guerra tariffaria ridefinisce i legami che la caratterizzano. In particolare, i due Paesi in guerra, oltre agli scambi di prodotti finiti, vedono ridursi anche i loro legami “a monte”, vale a dire il commercio bilaterale di materie prime e input intermedi, e questo effetto è molto evidente per gli Usa, dal momento che la Cina è il principale fornitore di beni intermedi per le imprese statunitensi. Su questo terreno, per l’Italia si potrebbe determinare una maggiore partecipazione alle catene globali, trainata dall’aumento delle nostre relazioni commerciali con gli Usa conseguente alla riduzione degli scambi Usa-Cina. Tornando al fronte principale di guerra, le dichiarazioni diplomatiche della scorsa primavera da parte di Stati Uniti e Cina avevano fatto sperare nella possibilità di evitare un’ulteriore escalation. L’evoluzione degli ultimi giorni sta andando in direzione opposta, anche se c’è chi sostiene che la ripresa delle ostilità da parte di Trump sia inquadrabile all’interno di una strategia per orientare il negoziato verso un esito più favorevole agli Usa, ma comunque volta a cercare un accordo. Qualunque sia l’esito del negoziato, è evidente l’interesse della Cina a di Raffaele Borriello diversificare i mercati di approvvigionamento e sbocco riducendo la dipendenza dal mercato statunitense. Al di là degli sviluppi dei conflitti in corso, questa potrebbe essere una buona notizia per la Ue e per l’Italia, poiché potrebbe tradursi in una occasione per ampliare le relazioni commerciali con la Cina. Se la Ue finisce nel mirino In ogni caso c’è poco da festeggiare, perché l’amministrazione Usa ha recentemente messo nel mirino anche l’Unione, minacciando di imporre dazi su un elenco preliminare di importazioni dall’Ue, per un valore di oltre 11 miliardi di dollari. Potrebbe essere colpita la componentistica del settore aerospaziale, insieme a molti prodotti alimentari che hanno mercato oltre Atlantico: prosecco, pecorino, emmental, cheddar, yogurt, burro, vini, agrumi, olio d’oliva, con evidenti effetti negativi per l’Italia. Si tratta dell’ultimo episodio di una disputa presso la Wto (World trade organization, Organizzazione mondiale del commercio), iniziata nel lontano 2004: i possibili nuovi dazi, sulla cui legittimità la Wto si pronuncerà entro la fine di quest’anno, rappresentano misure compensative per gli aiuti di Stato Ue che, secondo l’accusa di Washington, Airbus avrebbe ricevuto illegittimamente negli ultimi quindici anni. Sebbene la questione sia, almeno per ora, riconducibile alle regole multilaterali, l’episodio ci ricorda che la partecipazione alla Ue consente a un Paese come l’Italia, piccolo su scala mondiale, di poter meglio resistere alle pressioni delle grandi potenze commerciali e di partecipare in modo non subalterno ai negoziati con interlocutori forti quali Stati Uniti e Cina. Direttore generale Ismea, Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare
Libero scambio: nasce in Africa l’area più grande al mondo. Il trattato farà cadere le barriere, tariffarie e non, tra i Paesi del Continente (l’unico Stato che non ha firmato è l’Eritrea). Il quartier generale dell’AfCfta sarà in Ghana. L’attuazione avverrà per fasi successive. Gli obiettivi sono ambiziosi e il principale ostacolo è la carente rete di infrastrutture (Sole p.19). More
C’è un Continente dove è più facile, e spesso più economico, importare degli elettrodomestici, ma anche del semplice aglio, da un lontano Paese oltreoceano piuttosto che dal Paese confinante. È l’Africa. C’è un Continente dove il sistema di tariffe doganali è sinonimo di un coacervo di leggi, leggine, esasperanti ordinamenti che spingono molti Paesi a preferire la dipendenza commerciale da Europa o Cina. Ed è sempre l’Africa. Il paradosso africano, però, potrebbe finire, forse presto. In un periodo storico di guerre sui dazi, in cui gli Stati Uniti di Donald Trump sono usciti dal partenariato transPacifico, e il Regno Unito ha deciso di rinunciare al mercato unico europeo, l’Africa va controcorrente. Dopo due anni di negoziati serrati, il 7 luglio 2019, a Niamey, in Niger, un vertice straordinario dell’Unione Africana ha tagliato uno storico traguardo; grazie al raggiungimento di 22 ratifiche, soglia minima necessaria, è stato sancito l’avvio operativo dell’African Continental Free Trade Area (AfCfta), l’accordo continentale africano di libero scambio. Si tratta di un mercato enorme. Basti pensare che i Paesi firmatari sono stati 54 (su 55 presenti nel Continente). Praticamente tutti, decisi a mettere da parte contenziosi politici, economici, perfino conflitti incancreniti. L’unico stato africano a non aver firmato l’accordo è l’Eritrea. I quartieri generali di questa organizzazione si troveranno in Ghana, una delle economie più dinamiche dell’Africa. Questo progetto ha le sue validissime ragioni di esistere. Gli scambi tra Paesi africani rappresentano soltanto il 17% degli scambi totali del Continente. Un dato imbarazzante se paragonato al volume intra-asiatico (60%), ancora di più rispetto a quello intra-europeo (70%). Se tutto dovesse andare come previsto – scenario per nulla scontato – il peso del commercio intra-africano sugli scambi commerciali totali del continente potrebbe aumentare del 52% rispetto alle proiezioni per il 2022. A beneficiare maggiormente di questo incremento dell’attività commerciale africana sarebbero il settore agricolo e quello industriale. La recente adesione della Nigeria, prima potenza economica e demografica dell’Africa, rende l’accordo più credibile. «La volontà della Nigeria di firmare il patto, insieme con l’adozione da parte della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di una valuta comune, contribuirà a promuovere gli scambi commerciali in tutto il continente» ha affermato Mohamed Ibn Chambas, rappresentante speciale del Segretario generale dell’Onu e capo dell’ufficio delle Nazioni Unite per l’Africa occidentale e il Sahel (Unowaas). Solo il tempo dirà se questo progetto potrà realmente vedere la luce, e in che modo. Ma gli obiettivi sono estremamente ambiziosi, e i potenziali numeri impressionanti: l’AfCfta prevede infatti la creazione di un’unione doganale con libero movimento di beni e capitali. Sarebbe il mercato più grande al mondo, considerando il numero di Stati coinvolti e l’incremento demografico della popolazione africana nei prossimi 20 anni. Solo oggi questo mercato unico riunirebbe un miliardo e trecento milioni di persone, vale a dire l’attuale popolazione africana, e varrebbe 3.400 miliardi di dollari. Ma già nel 2050, l’impetuoso incremento demografico africano porterà la popolazione del Continente sopra i due miliardi e mezzo di persone. L’accordo, infatti, prevede la soppressione del 90% delle barriere tariffarie e, soprattutto, non tariffarie che hanno sin qui ostacolato il commercio intercontinentale. È previsto anche il lancio di un sistema di pagamento digitale per la zona di libero scambio e una serie di strumenti per monitorare e gestire le regole sulle origini dei beni e le concessioni sulle tariffe, oltre ad una serie di misure volte a eliminare gli ostacoli non tariffari. Sui tempi è davvero difficile fare previsioni. Si parla di 10 anni, ma potrebbero essere anche molti di più. L’AfCfta è stato impostato per essere implementato in più fasi (le più lontane sono ancora in via di negoziazione). Il raggiungimento di una fase probabilmente farà scattare l’avvio della successiva. Eppure la strada perché il grande sogno del libero mercato si trasformi in realtà appare ancora in salita. Le difficoltà non sono poche, a cominciare dall’inadeguatezza della rete infrastrutturale. Forse è questo il problema principe dell’Africa. Solo poco tempo fa il Fondo monetario internazionale vedeva nella mancanza di logistica e di infrastrutture un motivo per rimandare ancora una volta questa importantissima decisione. Indispensabile sarà anche la disponibilità di energia – pulita – per sviluppare l’industria africana (i grandi giacimenti di gas naturale del Mozambico offriranno un grande aiuto). Le profonde disparità tra un Paese e l’altro sono un altro argomento capace di rallentare il cammino dell’AfCfta. Un altro argomento scottante è la spinosa questione delle tariffe. Diverse Paesi che da tempo hanno adottato politiche protezionistiche temono che il loro abbattimento metterà in ginocchio alcuni settori vitali delle rispettive economie. Ma l’Africa vuole uscire dal suo paradosso. Che continua a creare ingiustificabili distorsioni. Come le 90mila tonnellate di aglio che la Costa D’Avorio ha acquistato dall’Olanda nel 2015-2016. Avrebbe potuto importarle dal vicino Niger. Ma le barriere non tariffarie in vigore gonfiano il prezzo di quell’aglio africano così vicino a più del doppio di quello olandese. E gli esempi come questo non sono pochi.
Ilva, Arcelor “batte” Di Maio e ora punta il ministro Costa. L’azienda incassa il ritorno dell’immunità (“a scadenza”) e ora vuole bloccare il riesame dell’Autorizzazione ambientale. More
Il sindaco ha presentato dati sui danni sanitari e il governo valuta nuove limitazioni green. Il governo ha varato “disposizioni in materia di Ilva”. Dietro queste cinque parole c’è il ritorno dell’immunità penale per i nuovi proprietari dell’acciaieria di Taranto, la multinazionale ArcelorMittal, che sarebbe rimasta senza “scudo” dal 6 settembre e minacciava di fermare la produzione. Insomma Arcelor, che ha forti sponde leghiste nell’esecutivo, ha vinto sull’immunità e ha pensato bene di assestare anche un altro schiaffone ai 5 Stelle di governo: ha presentato ricorso contro il decreto del ministro dell’Ambiente Costa che ha avviato il riesame della Autorizzazione integrata ambientale (Aia) alla luce di nuovi dati sul rischio sanitario (Fatto p.8).
Scoperte due intese per distorcere la concorrenza. Maxi-multa Antitrust ai big del cartone ondulato “Ora pagate 287 milioni” (Stampa p.19).
Stop ai nuovi assunti e al Viminale arrivano i militari in pensione. I sindacati temono un utilizzo massiccio degli ausiliari per i posti vacanti (Repubblica p.22).
Trump a El Paso sfida le proteste: “Controlli sulle armi”. Il presidente contestato nei luoghi delle stragi. Donald promette misure dopo le sparatorie, ma torna ad attaccare i migranti (Stampa p.10).
Stati Uniti. La più popolare star della televisione americana svela i suoi dubbi: “Risponderò presto alla gente” Winfrey un anno fa aveva smentito la corsa alla Casa Bianca: “Ma quella domanda resta valida” Oprah non esclude la candidatura “Ci penso, in molti me lo chiedono”. Ancora non credo che dovrei candidarmi alla Casa Bianca, ma sono chiamata a servire il Paese. Quando sono con gli amici la domanda continua a venire fuori. Un quesito che ha una sua validità (Stampa p.10).
Kashmir. Il Pakistan allontana l’ambasciatore indiano. Kashmir, gli Stati Uniti temono che la tensione tra i due Paesi metta in crisi i negoziati sull’Afghanistan (Stampa p.11). More
Il Machiavelli di Modi che sussurra la presa del Kashmir. Il ministro dell’Interno, Amit Shah, è il più ascoltato consigliere del premier. Cresciuto nell’ultranazionalista organizzazione Rss, è lui che ha proposto il provvedimento che revoca l’autonomia allo Stato conteso con il Pakistan (Repubblica p.8). Waheed “Il mio popolo ormai è prigioniero La minaccia? L’hindu first”. Mi auguro che questa nuova aggressione non scateni un’altra guerra. Ma è una possibilità. E le conseguenze saranno comunque disastrose (Repubblica p.8).
Afghanistan. Gli accordi di Doha per porre fine al conflitto in Afghanistan dopo 18 anni. La diversa visione del tempo tra l’America e i taleban sulla via della pace a Kabul (Stampa p.11). I Talebani firmano la strage mentre trattano per la pace. A Kabul 14 morti. In Qatar è in corso il negoziato con gli Stati Uniti (Repubblica p.18).
Turchia. Erdogan, sultano tra due guerre. Turchia sul doppio fronte. In Siria incassa l’ok degli Usa alla “zona sicura”, mentre in Libia appoggia Sarraj. Obiettivo: conquistare l’Africa (Fatto p.18). More
Non conosce riposo l’e s t at e 2019 di Recep Tayyip Erdogan. Mentre in patria il Sultano sfida migliaia di ambientalisti che da giorni protestano contro la decisione di concedere alla società canadese Alamos (associata alla turca Dogu Biga) di tagliare migliaia di alberi per poter estrarre agevolmente l’oro del Monte Ida di omerica memoria, sul fronte internazionale è impegnato in due zone di guerra tra le più calde: Siria e Libia. Il presidente Erdogan potrebbe ancora muovere guerra contro i combattenti curdi siriani del Rojava e continuare a inviare altri carichi di armi a Tripoli per aiutare l’alleato Sarraj a far fronte ai bombardamenti di Haftar. Ma andiamo con ordine. DUE GIORNI FA Erdogan aveva annunciato che, se gli Stati Uniti non avessero collaborato alla creazione di una zona di sicurezza nel nord est della Siria, a oriente del fiume Eufrate, (l’area che i curdi, lì maggioranza etnica, chiamano Rojava) per allontanare i guerriglieri dell’Unità di Protezione Popolare, nota come Ypg, avrebbe “provveduto da solo”.I combattenti dello Ypg sono tutti curdi e legati al Pkk di Ocalan, la formazione che Ankara, Usa e molte nazioni europee hanno bollato fin dalla sua nascita negli anni ‘70 di terrorismo. Ma si dà il caso che lo Ypg sia stato e sia ancora alleato con il Pentagono nella guerra contro l’Isis in Siria. È altrettanto vero che Turchia e Usa sono alleati e storici partner Nato e, data l’importanza della Istambul come bastione sud-orientale dell’Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti non hanno convenienza a inimicarsela del tutto continuando a spalleggiare i curdi del Rojava attraverso il mantenimento del proprio contingente di circa 2mila soldati. Dopo tre giorni di trattative tra delegazioni militari statunitensi e turche, ieri sembra sia stato raggiunto “un accordo per coordinare la creazione di una zona sicura che diventerà un corridoio di pace”, si legge in una nota diffusa dall’ambasciata americana ad Ankara. Le delegazioni, si legge nel comunicato che ricalca quello diffuso dal ministero degli Esteri turco, si sono accordate sulla “rapida attuazione delle misure iniziali per rispondere ai timori sulla sicurezza sollevati dalla Turchia” e sulla creazione “al più presto in Turchia di un centro operativo congiunto per coordinare e gestire insieme la creazione della zona di sicurezza”. Turchia e Stati Uniti convengono sulla necessità di “non risparmiare sforzi in modo che gli sfollati siriani possano rient ra r e” nelle aree d’or i gi ne . Non è comunque chiaro quando nascerà concretamente la “zona sicura”, anche perché rimane da stabilire se la fascia cuscinetto sarà profonda 32 chilometri –come vuole Erdogan –allo scopo di allontanare il più possibile i combattenti curdo-siriani dal proprio confine. Il Pentagono finora aveva sempre rifiutato questa possibilità concedendo al massimo 10 chilometri. Del resto gli Usa, se non vogliono perdere del tutto la faccia di fronte al protagonista e unico vincitore della guerra siriana, ossia la Russia di Putin, devono trovare il modo di concedere poco a Erdogan, a sua volta sostenuto da Mosca in chiave anti-americana. Ma il tempo ormai stringe e il Sultano ammonisce che la sua “pazienza è finita” e informa l’a m m i n i s t ra z i o n e Trump di aver già avuto il beneplacito di Putin per entrare in Rojava. Tradotto: se la zona di sicurezza non si farà, i miei soldati non faranno prigionieri. Il Segretario alla Difesa degli Usa, Mark Esper, ieri aveva detto: “Quello che stiamo facendo è cercare di evitare incursioni unilaterali che possano danneggiare, ancora una volta, gli interessi reciproci degli Stati Uniti e delle Sdf (le Forze democratiche siriane di cui i curdi dello Ypg sono la spina dorsale, nd r) riguardo alla Siria”. MA C’È ANCHE LA GUERRA in Libia a tenere impegnato Erdogan. Fin dal 2014, cioè quando scoppiò la guerra civile, la Turchia ha sostenuto i governi di Tripoli affidati a rappresentanti diretti e indiretti della Fratellanza Musulmana. Oggi a ricoprire questo ruolo c’è il premier riconosciuto anche dall’Onu, Sarraj. Ne deriva che Erdogan sia nemico di Haftar la cui artiglieria due giorni fa ha colpito un aereo militare da trasporto “I l yu sh i n”, proveniente dalla Turchia e carico munizioni e armi per sostenere le milizie terroristiche del governo di accordo nazionale del premier libico Sarraj”. È quanto ha diffuso in una nota l’aviazione dell’au topro clamato Esercito nazionale libico (Lna), guidato dal generale Haftar. Per la Tuchia è vitale che la Libia non venga conquistata da Haftar, finanziato ed equipaggiato dagli Emirati Arabi e dall’Egitto, nemici di Ankara. Erdogan da una decina d’anni sta investendo molto nell’Africa del Nord e nel Corno d’Africa per espandere la propria influenza religiosa, geopolitica e commerciale.
Libia. Il governo lo sa che i soldati italiani in Libia sono sfiorati dai missili? Aumenta la frequenza dei bombardamenti di Haftar contro l’aeroporto di Misurata dove c’è anche il nostro contingente. La Difesa: “Niente danni” (Foglio in prima). More
Roma. Ieri pomeriggio c’è stato un altro bombardamento aereo contro l’aeroporto di Misurata, una città libica duecento chilometri a est di Tripoli. La notizia ci riguarda perché dentro al perimetro dell’ae – roporto a cinquecento metri di distanza dalle esplosioni c’è il contingente italiano in Libia – trecento militari della missione Miasit che fanno funzionare e sorvegliano un ospedale militare da campo. Il giorno prima c’era stato un altro bombardamento contro lo stesso luogo: un drone armato degli Emirati Arabi Uniti che opera per conto delle forze del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, ha distrutto un aereo cargo Ilyushin Il-76 ucraino che era atterrato con un carico di armi fornito dalla Turchia – così dicono fonti della parte di Haftar che non è possibile verificare al cento per cento. I missili cadono dentro al perimetro che a Misurata contiene alcuni edifici strategici come l’aeroporto civile, la pista contigua dove atterrano i voli militari, il carcere dove sono rinchiusi anche alcuni prigionieri dello Stato islamico, l’Accademia aeronautica e appunto l’ospe – dale militare italiano. Lì alloggiavano anche alcune squadre delle forze speciali americane e inglesi durante le operazioni contro lo Stato islamico nella vicina Sirte, ma ora ci sono soltanto gli italiani. Un C130 dell’aeronautica italiana che due giorni fa era partito alle due del pomeriggio dall’aeroporto di Pisa per andare a portare rifornimenti ai soldati si è fermato all’altezza di Lampedusa e poi, per non rischiare di finire in mezzo al bombardamento, ha invertito la rotta ed è tornato a Pisa. Agenzia Nova, con informazioni solide, scrive che la pista militare era troppo danneggiata per essere usata. Oltre a questi due, c’era stato già un primo bombardamento sempre sullo stesso obiettivo nella notte tra il 26 e il 27 luglio. Ogni volta il ministero della Difesa emette un comunicato molto neutro in cui rassicura: “La zona dell’aeroporto di Misurata è stata interessata da un bombardamento aereo. Nessuno dei militari italiani è rimasto coinvolto nell’attacco. I mezzi, i materiali e le infrastrutture del contingente nazionale non hanno subìto danni”. Basta tuttavia ricapitolare la notizia per capire in che razza di contesto siamo: droni cinesi modello Wing Loong venduti agli Emirati Arabi Uniti e mandati in Libia a bombardare un aereo cargo ucraino che trasporta armi dalla Turchia molto vicino a un contingente italiano – per aiutare il generale Haftar a vincere la guerra civile che lui stesso ha scatenato all’inizio di aprile. Il generale libico era stato ricevuto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Roma appena il 14 maggio scorso e in teoria il contingente italiano a Misurata non è tra i bersagli dei bombardamenti, ma è incredibile come la faccenda non susciti reazioni e non valga neppure un commento da parte del governo italiano. Eppure Salvini ha già definito gli uomini di Haftar “truppe ribelli”, quindi nega la legittimità della loro aggressione militare contro il governo di Tripoli. E pensare che un tempo si riteneva che la presenza del contingente avrebbe fatto da deterrente e che avrebbe risparmiato perlomeno alla città di Misurata dall’essere coinvolta nella violenza della guerra civile. Non è così e la frequenza dei missili sta aumentando. Sappiamo che mercoledì 31 luglio c’è stata una riunione a Palazzo Chigi sulla Libia a cui il vicepremier Matteo Salvini non ha potuto partecipare. Ha mandato due sottosegretari della Lega, Molteni per l’Interno e Volpi per la Difesa, ma il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha fatto restare Volpi in ufficio al ministero. “Se ci sono io, non c’è bisogno che ci sia lui”, avrebbe detto – secondo l’Huffington Post. Tra questi sbotti di antipatia, non si capisce la nostra posizione sulla Libia e se abbiamo una posizione. (Daniele Raineri)
I titoli dei giornali non si fanno su Twitter. Il New York Times cede alle pressioni e cambia una prima pagina su Trump (Foglio p.3) More
Il New York Times ha cambiato un titolo dopo essere stato sgridato pubblicamente da politici e lettori per una prima pagina troppo neutra – troppo tenera? – con Trump dopo le stragi a El Paso e a Dayton. Il titolo originale diceva che il presidente chiede unità contro il razzismo, ma così, hanno fatto notare, scivola in secondo piano tutta la questione che è al centro del dibattito americano in questi giorni: c’è lo zampino del presidente in queste stragi, s’intende come lontano ispiratore con i suoi comizi in cui i messicani sono tutti stupratori e gli africani abitano in “posti di merda” e l’invasione straniera è sempre imminente e i quartieri dei neri sono sempre “infestati”? La retorica trumpiana eccita i suprematisti bianchi e quindi di sponda gli stragisti? Il risultato è che per la prima volta in questi anni in cui Trump si è scagliato contro la stampa e i giornalisti, definiti “nemici del popolo” oppure #fakenews quasi a giorni alterni, sono stati i democratici ad arrabbiarsi con il New York Times. Con la differenza che sono stati accontentati: il titolo è stato cambiato fra la prima e la seconda edizione ed è diventato “Trump condanna l’odio ma non le armi”. Una figura deprimente. Si sa che dentro al giornale di New York c’è uno schieramento che rimprovera il complesso della compensazione: a volte, dicono, per far vedere che siamo neutrali siamo troppo duri con i dem – vedi il caso delle mail di Hillary – e troppo compassati con Trump. Altri dicono che il giornale non deve diventare il quotidiano della Resistenza (contro Trump) s’intende, ma che dovrebbe conservare intatto il suo standard di correttezza (il New York Times può far storcere il naso, ma vogliamo fare paragoni con il resto della stampa?). Ma il punto centrale della storia resta questo: i titoli di un giornale si fanno in redazione, nel momento in cui cedi alle pressioni esterne, magari su Twitter, perdi molto peso – come se già la credibilità fosse troppa.
Impiegata del ministero licenziata per un tweet contro il governo (Repubblica p.18). More
Un dipendente pubblico può essere licenziato se critica la politica governativa sui social media. Così ha stabilito la Corte Suprema australiana con una sentenza destinata a fare molto discutere. Il caso è iniziato nel 2013 quando Michaela Banerji, un’impiegata del ministero degli Interni, ha espresso su Twitter le sue riserve sulla politica del governo nei confronti dell’immigrazione e in particolare contro la detenzione dei richiedenti asilo. Pur twittando con uno pseudonimo e nel tempo libero da un proprio computer, quando è stata scoperta il governo l’ha licenziata, citando una norma secondo cui i dipendenti pubblici non possono esprimere posizioni politiche. Lei ha fatto causa per difendere la libertà di parola, ha vinto in primo grado, perso l’appello e ora anche la Corte Suprema le ha dato torto, sostenendo che i dipendenti pubblici devono cercare di evitare conflitti d’interesse con i datori di lavoro e restare “apolitici”. Lasciando il tribunale in lacrime, la donna ha dichiarato: «Non è una sconfitta solo per me, è una sconfitta per tutti». La decisione ha conseguenze per 2 milioni di dipendenti pubblici in Australia. «Una censura orwelliana», commentano i sindacati.
Monica Lewinsky tra i produttori della nuova serie tv sul Sexgate di Clinton (Repubblica p.18). More
Dopo aver raccontato il caso di O. J. Simpson e l’omicidio di Gianni Versace, la terza stagione di American Crime Story si concentrerà sul Sexgate che ebbe come protagonisti il quarantaduesimo presidente americano, il democratico Bill Clinton, e Monica Lewinsky. E tra i produttori della serie ci sarà proprio l’ex stagista della Casa Bianca. La relazione tra l’ex presidente e la stagista è una storia ampiamente metabolizzata dal pubblico americano, ma l’uscita della serie sta suscitando comunque delle grosse perplessità. Soprattutto per quanto riguarda la data di uscita stabilita dalla rete FX: 27 settembre 2020, a pochissima distanza dalle prossime elezioni presidenziali, a novembre. Secondo molti infatti la serie tv andrebbe a disturbare in maniera determinante la campagna del Partito democratico.
Ergastolo annullato, il boss torna in libertà. «L’Italia ha violato i patti di estradizione dalla Spagna». E lui esce dopo 23 anni (su 168 totali). Luigi Ferrarella sul Corriere (p.16). More
Da ergastolano pluriomicida a scarcerato in via definitiva, da boss di ‘ndrangheta con teorici 168 anni da scontare a invece uomo libero, senza più pendenze con la giustizia dopo 23 anni di cella: è una parola data ma non rispettata, è l’aver, l’Italia, promesso alla Spagna ma non mantenuto di non infliggergli l’ergastolo ad innescare la carambola procedurale che spalanca le porte del supercarcere di Novara al 58enne Domenico Paviglianiti, al 41 bis dalla sua estradizione nel 1999 dalla Spagna.
LETTURE
Farmaci. Mai così tanti prodotti introvabili: sono 2.100 L’Aifa: “La colpa è delle case farmaceutiche”. Emergenza in farmacia. Ora mancano le medicine. Il fenomeno si accentua in estate quando scatta la corsa all’accaparramento. Stampa p.15 More
A rriva l’estate e per chi ha problemi di salute è caccia a pillole e sciroppi. L’Aifa, l’Agenzia pubblica del farmaco, a luglio ha contato 2.152 confezioni di medicinali “missing”, scomparsi in tutto o in parte dai banconi delle farmacie. Tra questa marea di scatole, blister e flaconi 234 sono considerate terapie «importanti» dalla stessa Agenzia. L’intestazione del lungo elenco parla di «farmaci carenti», ma ad esempio l’Aciclovir in pomata, di cui c’è più bisogno per combattere l’herpes soprattutto in questa stagione di esposizione ai raggi solari, si trova in sole sette farmacie sparse lungo lo Stivale, sentenzia il sito “cercafarmaco.it” della stessa Aifa. Per chi deve partire per Paesi dove è obbligatoria la profilassi antimalarica l’unica possibilità, a leggere le indicazioni del sito, è recarsi alla farmacia comunale di Correggio, nel Reggiano. E la stessa caccia al tesoro attende chi ha bisogno delle altre confezioni “carenti”. Spesso se il prodotto è introvabile si può trovare un’alternativa terapeutica, ma nel 23% dei casi, ossia 498 confezioni, non c’è nemmeno quella e così i pazienti restano senza cure. Il fenomeno si accentua a ridosso delle vacanze estive, quando scatta la corsa all’accaparramento dei medicinali prima delle partenze e le industrie farmaceutiche diminuiscono la produzione. Ma le carenze oramai si verificano tutto l’anno e le cose vanno di male in peggio. Gettando un occhio sui precedenti rapporti dell’Agenzia vediamo che si è passati da 888 confezioni mancanti nel 2014 a 1.200 nel 2016, 1.500 nel 2018 prima di superare quest’anno il tetto delle duemila. E i prodotti senza alternativa terapeutica erano solo il 5% nel 2016, mentre sono uno su quattro oggi. A scarseggiare è un po’ di tutto, dagli antitumorali agli antivirali, dai farmaci contro l’epilessia agli antibiotici. Tempo fa hanno dovuto alzare la voce i malati di Parkinson perché la situazione tornasse alla normalità dopo che per mesi le loro terapie erano date per scomparse. E da febbraio a giugno le persone in cura con gli economici medicinali contro la tubercolosi ne hanno dovuto fare a meno, con il rischio di far estendere il contagio. Che ci si trovi oramai difronte a una vera e propria emergenza sanitaria lo conferma del resto anche il Direttore generale dell’Aifa, Luca Li Bassi: «Il problema è emergenziale e le cause non sono ancora chiare. Non solo l’Italia, ma anche Spagna, Portogallo, Francia, Olanda, Norvegia, Slovenia e Austria riconoscono che il fenomeno sta aumentando in modo esponenziale». Secondo Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, la causa è nei prezzi italiani inferiori in media del 25% alla media europea, «ed è nei Paesi dove costano di più che i nostri prodotti vanno a finire». Spiegazione che non convince il Dg dell’Aifa, che replica: «Allora dovremmo avere solo noi il problema. Invece non è così». Secondo gli esperti dell’Agenzia le cause sarebbero infatti molteplici. Come lo scarso interesse dell’industria a produrre vecchi medicinali a basso prezzo, perché con brevetto scaduto. Oppure il fenomeno delle cosiddette “esportazioni parallele”, alimentate da grossisti e distributori, che agendo al limite della legalità fanno incetta di confezioni low cost in Italia per piazzarle poi con circa un 30% di ricarico nei mercati nord europei. Qualche anno fa il giochetto con gli antiepilettici è stato smascherato da Aifa e Carabinieri dei Nas, ma altri hanno continuato a lucrare così. Ora il “decreto Calabria” appena approvato e fortemente voluto dal Ministro della salute Giulia Grillo, consente all’Aifa di bloccare momentaneamente l’esportazione dei farmaci in caso di loro indisponibilità in patria. Se sarà sufficiente lo vedremo nei prossimi mesi.
Abraham b. Yehoshua: per sfuggire alle accuse di corruzione, il premier ha provocato una paralisi ideologica. Israele, la politica non c’è più. Così Netanyahu ha svuotato la contrapposizione destra-sinistra. L’energia politica si disperde in piccole soluzioni localizzate. Stampa p.26 More
Come ho già detto nel mio ultimo articolo nel corso dei miei ottantadue anni, ho assistito a molti eventi politici, tra cui aspri scontri ideologici e manifestazioni turbolente. Molti di quegli scontri erano ovviamente tra rappresentanti della destra e della sinistra, ma anche tra gruppi laici e religiosi. Ricordo che da ragazzo, nel 1952, l’allora leader della destra Menachem Begin (divenuto in seguito primo ministro di Israele) organizzò una violenta manifestazione a Gerusalemme contro l’accordo per le riparazioni di guerra firmato con la Germania Ovest. Begin esortò a ribellarsi all’accordo e i suoi sostenitori lanciarono pietre contro il parlamento, ubicato all’epoca nel centro di Gerusalemme. Ricordo bene le manifestazioni di destra e di sinistra del 1974, dopo la guerra dello Yom Kippur, che pretendevano le dimissioni dell’allora primo ministro Golda Meir e del celeberrimo ministro della Difesa Moshe Dayan dopo il fallimento dell’Intelligence e la prova di debolezza data dell’esercito nei primi giorni dell’attacco egiziano e siriano. In seguito a quelle proteste i due leader rassegnarono le dimissioni nonostante il loro partito, il partito laburista, avesse vinto le elezioni poche settimane dopo la fine della guerra. Libano, 1982 Ricordo le manifestazioni e l’enorme amarezza di molti sostenitori della pace in seguito agli insuccessi della guerra del Libano nel 1982, soprattutto dopo la strage perpetrata dai cristiani con il tacito assenso degli israeliani nei campi profughi di Sabra e Shatila. Durante una di quelle dimostrazioni l’attivista di sinistra Emil Grünzweig rimase ucciso da una granata lanciata da un militante di destra. E in effetti, in seguito a quelle contestazioni, il primo ministro Menachem Begin, divorato dai sensi di colpa, rassegnò le dimissioni e si rinchiuse in casa fino alla morte. E come non ricordare le violente proteste e le sedizioni della destra contro il governo dopo gli accordi di Oslo firmati nel 1993 alle quali presero parte anche Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu, entrambi divenuti in seguito primo ministro? Quelle terribili incitazioni ad opporsi agli accordi di Oslo sfociarono nell’omicidio dell’allora capo del governo Yitzhak Rabin. Gaza, 2006 Ricordo bene anche le manifestazioni contro Ariel Sharon, primo ministro di Israele durante il ritiro e l’evacuazione dei coloni dalla Striscia di Gaza nel 2006. Contestazioni della destra nazionalista religiosa a detrimento di un primo ministro che era stato lui stesso un estremista di destra ma che, con l’evacuazione degli insediamenti, andava a colpire il Sancta Sanctorum dei conservatori. Questi e altri eventi, per quanto dolorosi e violenti, erano il risultato di prese di posizioni ideologiche ed etiche. Gli schieramenti che si fronteggiavano si esprimevano con toni forti ma nessuno metteva in dubbio che, dietro l’estremismo, ci fosse una chiara posizione politica che voleva, in base a concezioni diverse, il bene del paese e teneva conto del suo futuro. Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è invece alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine «sinistra», in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Nessuna soluzione Il dibattito ideologico è da tempo congelato e si è dissolto. Nel nuovo partito «Blu e bianco», fondato prima delle ultime elezioni, ci sono esponenti indiscutibilmente di destra, come l’ex ministro della Difesa Moshe Ya’alon che ha servito nell’esecutivo di Netanyahu, ma niente serve a risparmiarli dell’appellativo di «sinistroidi» con il quale i sostenitori di Netanyahu li bollano con profondo biasimo e disprezzo. Nell’Israele di oggi vi è una paralisi ideologica perché nessuno, di fatto, ha una soluzione possibile al problema principale: cercare di raggiungere un accordo con l’Autorità palestinese. Tutta l’energia politica si disperde perciò in piccole soluzioni localizzate, dirette a cambiare il comportamento di poliziotti e soldati o a fare qualche concessione ai checkpoint. Fintanto che il dibattito pubblico si è svolto in una specie di palude ideologica e di impasse politico si riusciva ancora mantenere un minimo senso di solidarietà, malgrado il lento processo di apartheid in atto nei territori e il crescente nazionalismo dei religiosi. Ma quando sull’ordinamento istituzionale si è abbattuta la richiesta di incriminazione di Benjamin Netanyahu e il suo astuto tentativo di eludere un processo calpestando le norme dell’attuale regime legale e amministrativo, si è scoperto che dietro un leader di notevole abilità in campo estero, attento a non lanciarsi in avventure militari e politiche e che gestisce con relativo successo l’economia, c’è un uomo corrotto che un apparato legale da lui stesso nominato vorrebbe portare a giudizio.Per evitare la prospettiva di un processo Netanyahu, da leader politico, si è trasformato in quello di una setta che, mediante minacce e lusinghe, argina l’opposizione dei suoi membri mentre il sistema politico si piega davanti a lui per garantirgli un’eventuale immunità annullando elezioni appena tenute, disperdendo il parlamento e indicendo nuove consultazioni elettorali entro tre mesi. Solidarietà addio Nemmeno i più anziani ed esperti fra noi erano pronti a questo scenario di corruzione e di aperto attacco politico dei partiti di governo allo stato di diritto per far sì che il Primo Ministro non finisca in prigione. E tutto questo con il sostegno di una folla acclamante. Di fronte a tale realtà proviamo un senso di disgusto e di prostrazione. Non è più questione di posizioni politiche diverse e nemmeno di tendenziose panzane raccontate dal primo ministro e dai suoi assistenti che si succedono a ritmo incessante. Questa è una chiara e spudorata violazione dei valori di solidarietà che erano alla base della promessa sionista di riunire ebrei di diversa provenienza e livello in uno stato democratico. Negli anni ’70 del secolo scorso due ministri del governo laburista furono sospettati di avere preso tangenti e ancora prima di essere processati si suicidarono per la vergogna. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1977 diede le dimissioni perché accusato di aver mantenuto un piccolo conto corrente all’estero, cosa allora vietata ai cittadini israeliani. Il presidente Moshe Katsav fu condannato a sette anni di carcere da un giudice distrettuale arabo per aver sessualmente molestato la sua segretaria. Il primo ministro Ehud Olmert finì in carcere per aver ricevuto finanziamenti illeciti per la sua campagna elettorale. Fino a ieri potevamo consolarci con il fatto che nella palude politica israeliana ci fossero ancora principi di giustizia e di uguaglianza. Ma ecco che ora il primo ministro calpesta spudoratamente la legge per salvare la propria pelle e conduce il paese a una nuova, aspra e costosa campagna elettorale a poche settimane di distanza dalla precedente. C’è quindi da meravigliarsi che persone come me, indipendentemente dalla loro posizione politica, provino un senso di avvilimento e di paralisi?
Il direttore. Giovanni di Lorenzo. L’italiano che dirige «DieZeit» e rifugge lo Zeitgeist. «Iniziai da un articolo su Branduardi scritto con una macchina prestata». Conquisto i lettori andando contro lo spirito del tempo. Stefano Lorenzetto sul Corriere a pagina 19 More
È l’unico italiano a guidare una testata straniera di prestigio internazionale. Eppure Giovanni di Lorenzo, da 15 anni direttore del settimanale tedesco Die Zeit, manco voleva fare il giornalista. Il suo sogno era diventare psicoanalista come le due zie paterne — una, Silvia, morta nel 2018, piuttosto famosa —omanager come lo zio Giorgio, che fu assunto da AdrianoOlivetti. «Pochi mesi prima della maturità, il tutor di matematica mi disse:“C’è un posto su misura per te”. E mi spedì a fare uno stage in un piccolo giornale di Hannover. Al secondo giorno, mi chiesero un pezzo su Angelo Branduardi. La sera, rincasando sulla mia Fiat 127 scassata, sentii la vocazione». Privo di macchina per scrivere, di Lorenzo si fece prestare una Triumph elettrica più pesante di un’affettatrice. A ogni articolo, cinque rampe di scale perritirarla e altrettante per restituirla. Alla fine l’amico Heiko, impietosito, gliela cedette per 400 marchi. Fu un ottimo investimento. Infatti, mentre l’editoria mondiale arranca, nei suoi tre lustri di direzione Die Zeit è passato da 460.000 a 500.000 copie e ora è il secondo organo di stampa più venduto in Germania con il tradizionale formato lenzuolo, alle spalle dell’urlatissima Bild. Che nel frattempo è scesa a meno di 1 milione e mezzo di copie: un calo del 66 per cento in un ventennio. Ha dovuto licenziare? «Al contrario, grazie a Dio. Erano 100 giornalisti quando arrivai, ora sono 140. Altri 50 lavorano nella redazione online. Faccio le corna tre volte: anche la pubblicità va bene». Inaudito. Come se lo spiega? «Non me lo spiego». La ricetta di Joseph Pulitzer? «Accuratezza, accuratezza e accuratezza». «Nonbasta. Penso che c’entriloZeitgeist, lo spirito del tempo. Die Zeit non lo asseconda. Molti lettori cercano nei giornali la conferma dei loro pregiudizi. Noi proponiamo qualcosa di audace: il confronto con pareri diversi. A settembre vareremo Streit, litigio, una sezione di quattro pagine, per offrire uno scontro d’idee immune dalla trivialità e dalla premeditazione di chi non vuole capire le ragioni altrui». Detiene il record di longevità in tv. «Non so se considerarlo un primato. Conduco da 30 anni“3 nach 9”, il più vecchio talkshow tedesco». Si è laureato con una tesi su Silvio Berlusconi. Lo ha mai incontrato? «Più volte. Uomo carismatico. Mi disse una cosa chenonho più dimenticato:“Voi giornalisti pensate che la gente sappia tutto. Invece non sa niente”. Su questo presupposto un po’ cinico ha costruito la propria fortuna». La frase ha un fondo di verità. «Me l’ha ribadita un’addetta al controllo dei biglietti che mi ha riconosciuto sul treno Berlino-Amburgo:“Lei mi costa 270 euro l’anno di abbonamento, ma ogni tanto pubblica articoli così difficili da farmi credere che voglia escludermi”. Le ho risposto: si sbaglia, io voglio proprio lei come lettrice». Abile anche nel marketing. «Macché. È che a volte nonè facile far capire ai giornalisti che bisogna scrivere per i lettori. Una redazione deve rispecchiare la società cui sirivolge. La nostra è formata permetà da donne e abbiamo anche assunto colleghi di origine iraniana, turca, marocchina, polacca, visto che l’immigrazione riguarda un quarto dei tedeschi». Che cosa cerca in un candidato? «Una personalità originale e una scrittura avvincente. E non dev’essere un tipo intrigant, non so come si traduca in italiano». Basta aggiungere una «e». «L’intrigante avvelena il clima. I colleghi cominciano a occuparsi degli affari loro e viene meno l’energia creativa». Può sempre licenziarlo. «In Germania, come in Italia, è molto difficile. Però il periodo di prova dura fino a tre anni. Poi diventa un matrimonio. Di sua volontà non se ne va nessuno. Non so se sia un vantaggio». Quanto tempo passa al giornale? «Dalle 8.30 alle 10 lavoro da casa,dovemi è più facile concentrarmi. Poi sto in redazione 12 ore, quando va bene. A volte ci rimango fino a mezzanotte». Legge i quotidiani italiani? «Leggo Corriere della Sera, LaRepubblica, Marco Travaglio e sempre La Gazzetta dello Sport. Tifo perla Juve». Nessuno è perfetto. «Litrovo ben fatti. Ma tutta la stampa tricolore ha un vizio antico: se ti perdi una puntata, non ci capisci più niente. Negli editoriali è imbattibile. I tedeschi forse sono più bravineireportage. E nelle interviste: le nostre sono ruvide, le vostre spesso compiacenti». Nel giornalismo schierarsi paga? «La partigianeria toglie credibilità». Ma «Die Zeit» non è di sinistra? «No, siamo un giornale liberal». Dirigerebbe una testata italiana? «In anni recenti me ne hanno offerte due. Ho rifiutato, perché non sarei stato bravo abbastanza. Mi manca la perfetta padronanza della lingua scritta. E poi, non conoscendo l’ambiente, mi avrebbero considerato un marziano». Segue le nostre vicende politiche? «Per quello che posso capire. Ho qualche ritegno a commentarle. All’estero l’Italia è vista come folclore anche in questo campo. Sbagliatissimo. È un laboratorio di ciò che accadrà altrove». Il ritegno da dove scaturisce? «Da due aspetti che a voi ormai passano inosservati: la volgarità del linguaggio e la delegittimazione delle istituzioni. Anzi, di ogni cosa seria, oserei dire». Vede un leader nel futuro dell’Italia? «No, sono miope. E poi ho parlato per cinque minuti con un solo politico, mio vicino di ombrellone in Toscana». Che cosa le piace dell’Europa? «Il fatto che sia custode di democrazia, diritti civili e genio. Un contropotere rispettoaStati Uniti, Cina e Russia». E che cosa non le piace? «La deriva dei suoi apparati». Il sovranismo può distruggerla? «Certo». Ma la Lega non ha perso nell’elezione del nuovo commissario Ue? «Non pensavoaMatteo Salvini, bensì ai nazionalisti dell’intero continente». Si fida di Ursula von der Leyen? «Sì, e parlo per conoscenza diretta. È seria, indipendente, molto ben strutturata, disposta a imparare». Come giudica Angela Merkel? «Il politico meno vanitoso che abbia mai incontrato. Incorruttibile. Mediatrice internazionale. Ma ha commesso un errore di fondo: nel suo programma non v’era traccia delle decisioni più importanti che poi ha preso. Ciò ha provocato una dissociazione dell’elettorato. Mi riferisco per esempio all’apertura delle frontiere ai profughi. InGermania ne arrivano ancora 170.000 l’anno». Che cosa pensa di Carola Rackete? «Difficile esprimere un giudizio, non ci siamo mai parlati. Quando ti dai la missione di salvare vite, non c’è argomento o critica che possano fermarti». «Die Zeit» si è occupato dei misteriosi tremori della cancelliera? «Salute e rapporti privati per noi sono tabù. Certo, se un politico antiabortista costringesse la compagna a interrompere la gravidanza, lo scriveremmo». I tedeschi come vedono gli italiani? «Tema troppo vasto. Ma l’atteggiamento prevalenteèla benevolenza». Versoi«traditori» dell’8 settembre? «Semmai i “vigliacchi”. La generazione che nel 1943 ci vedeva così è estinta». Da italiano ha avuto vita dura? «All’inizio senz’altro. Quando lavoravo alla Süddeutsche Zeitung, arrivavano lettere di protesta: “Non potevate assumere un giornalista tedesco?”. Nessuno mi ha mai regalato niente. Quel tempo è finito, grazie a Dio». È la seconda volta che ringrazia il Padreterno. C’entra con il suo lavoro? «No, però mi onoro di essere supervisore del Rheinischer Merkur, settimanale cattolico di Bonn salvato dalla nostra casa editriceediventato un supplemento di Die Zeit. Lo considero il foglio religioso più interessante d’Europa». Di che altro va orgoglioso? «Di averlavorato al fianco dell’ex cancelliere Helmut Schmidt, che è stato fino alla morte, avvenuta nel 2015, nostro direttore editoriale». Quanti passaporti ha? «Due. Italiano per ragioni di cuore. Tedesco per gratitudine: vivo qui da 49 anni». Teme il ritorno del nazismo? «Per nulla. La Germania è vaccinata».
La Divina Pellegrini. La forza e l’amore. Federica Pellegrini “Voglio solo essere felice, ho imparato dalle cicatrici”. Ne ho prese, di batoste, il buio fa male. A Londra 2012 ero innamorata persa di Magnini e fallii. Emanuela Audisio su Repubblica a pagina 16 More
Potrei scrivere capitoli su amore e sport. Atene 2004 La rivelazione: “Fede” non vede Potec in prima corsia nei 200 sl, ma l’argento la rende famosa. Noi donne partiamo svantaggiate, se parliamo di soldi passiamo per matte. E il ciclo mestruale è ancora un tabù, non va d’accordo col mito. Mi piace chi fa pena nei talent: mi dico “che coraggio”, è un invito a non farmi mille problemi. Prima dell’oro, quanta tensione ai mondiali. Il conflitto governo Cio? A Tokyo pretendo di andare con il tricolore: noi atleti non siamo merce di scambio. Ritroviamo il buonsenso. La voce è diversa. Anche i pensieri. Nei suoi 31 anni non c’è solo Fede, ma anche più mondo. Il suo stile libero invece è sempre quello. Vincente. Federica Pellegrini ha appena festeggiato il compleanno e il suo quarto titolo mondiale nei 200 sl. «Con molta sobrietà, ma da domani mi concedo qualche esagerazione». Quindici anni al vertice: roba da uomini? «No, da donna italiana. Da chi nasce e sa già che nella società parte svantaggiata. Nulla ti verrà regalato, dovrai combattere per avere quello che ti spetta. Poi c’è la voglia che ti spinge a non mollare. Vogliamo parlare delle nostre calciatrici al mondiale? Di come venissero sottostimate e dei retaggi culturali che ancora ci sono? Guai poi se sei una sportiva che parla di soldi o di squilibri salariali. Diventi una matta che si è montata la testa. Lo sport in più ti insegna che non puoi vincere sempre. Se sei una donna, il suggerimento che ti arriva è: lascia perdere, non è più per te, trova un’altra strada, realizzati diversamente. Io ne ho prese tante di batoste, ci sono stata male, il buio fa male a tutti». Come ci si rialza? «Togliendoti le spine. Curandoti le ferite. Lottando. Pensando che sei meglio delle tue cicatrici. Ributtandoti in acqua. Se fai la cosa che più ti piace al mondo, e per me è così, è una scelta che viene naturale. I bordi non cambiano, anche se magari ti sono sfuggiti». Ormai i 200 stile sono Pellegrini style. «L’oro ai mondiali ha meravigliato anche me. Per la tensione. Non l’ho mai provata così forte, ero al limite della paranoia, anche in batteria. Ma appena in acqua, in un centesimo di secondo, tutto si è sciolto, come se avessi e forse ce l’ho un pilota automatico. Sì un po’ di pretattica nella testa, ma stavo bene, e sono andata libera. La gara, con Matteo Giunta, l’avevamo preparata e costruita proprio così. Mi sono ritrovata una bracciata sciolta che non avevo nemmeno ai tempi di Alberto Castagnetti». L’acqua prima era un orco, mangiava e strapazzava bambine. «È il mio elemento. Mi fa esistere. Io vivo sperando di poter avere anche fuori quelle sensazioni che ho dentro la piscina. Tutto quello che voglio e sento è lì: poter tenere il ritmo, poter accelerare, rallentare. Questione di fluido, di controllo, del tuo corpo che sa come muoversi. Gli anni li sento nei tempi di recupero, per il resto vado avanti con i programmi di sempre. Ma con più serenità. È come se il vento contro fosse cessato. Prendiamo il fare la valigia». Ecco, appunto, cosa ci mette. «Le cose che mi servono per nuotare e che sono fondamentali. Una volta ci volevo far stare dentro tutto, ora mi sono data pace: mi sono dimenticata qualcosa? Non importa, la comprerò dove vado. Prima se mi scordavo mi sembrava la fine del mondo». Ora è più amata. Questione di successi? «Non credo. L’esperienza in tv, in “Italia’s Got Talent” mi ha fatto conoscere anche come persona, non solo come nuotatrice. Il pubblico si sarà accorto che ho gusti, passioni, sensibilità, come tutte le altre ragazze. E più che i successi avranno apprezzato che ho perso gare, ma non sono stata sconfitta. Non ho mollato, non sono affondata, ho rialzato la testa. Caparbietà, testardaggine, ho ripreso la mia strada. Questo forse mi ha reso più umana e più simpatica». Era la mangiauomini. «Ero soprattutto giovane. Vivevo le esperienze. Sembravo una inaffondabile, la campionessa olimpica capace di stravolgere tutto e tutti, invece a Londra 2012 avevo il cervello fottuto, ero innamorata persa di Filippo Magnini, ma c’erano cose che non andavano, che mi destabilizzavano» Chris Evert nel ’75, semifinale a Wimbledon, in vantaggio contro Billie Jean King, perse dopo aver visto il suo fidanzato Connors in tribuna con un’attrice. «Sull’amore e lo sport potrei scrivere capitoli. Sui guasti che fa la mente. Non ho rimpianti, ma a Londra proprio non c’ero con la testa. Basta chiedere al tecnico Claudio Rossetto che allora seguiva Filippo e anche me». Già chiesto: parla di suoi alti e bassi, di una situazione disperata. «Infatti il fallimento non fu colpa sua, ma io proprio non ce la facevo a restare calma e venivo da un anno problematico. Senza scendere in particolari, troppi avvenimenti personali che non andavano». Lei è una secchiona. «Diciamo che non mi piace fare brutte figure. E da giudice dei talent anche davanti ai somari evidenti ho sentimenti contrastanti. Da una parte, mi dico: ma non si accorgono di essere così penosi? E dall’altra resto meravigliata dalla loro sicurezza, dal fatto che loro credono veramente di avere qualità brillanti. Accidenti che coraggio, penso, e per me che mi sono sempre fatta mille problemi è un invito a buttarmi». Ogni tanto le tocca togliere l’acqua a qualche americana. «In piscina hanno sempre generazioni straordinarie. Ledecky stavolta stava male e per una Missy Franklin che ha smesso c’è una Regan Smith che a 17 anni va a ritmi pazzeschi. Hanno giovani sorprendenti, con una potenza di fuoco incredibile. L’America dello sport è questa, sempre decisa, fiera, piena di autostima. Sono orgogliosi di appartenere a un Paese che nello sport trova un modo di essere molto simile alla vita di tutti i giorni». In Italia non è cosi? «Viste le polemiche attuali non molto. Io da atleta a Tokyo 2020 pretendo di andarci con il tricolore, in rappresentanza del mio Paese. Non voglio nemmeno pensare che questo mi sarà impedito. Credo che ritrovare un po’ di buon senso tra le parti ora in polemica, governo e Cio, non sia così difficile. Noi atleti non siamo merce di scambio. Non m’inoltro in questioni di leggi, ma trovo che lo sport italiano rappresentato dal Coni, in più di mezzo secolo ha offerto una buona immagine del Paese e io ai Giochi vorrei andarci con la bandiera del mio Paese». Ci sono ancora tabù per le donne dello sport in Italia? «I compensi salariali. Ne puoi parlare solo con chi è dentro lo sport altrimenti se sei una donna ti devi giustificare del guadagno. Per i calciatori il prezzo è segno della loro qualità, per una campionessa una cosa da dire sottovoce, quasi dovessi vergognarti, di cosa poi? Da noi si ammirano gli altri e si giudicano troppo vanitose le altre. L’altro tabù è il ciclo mestruale». Vietato parlarne? «Non si fa, è ineducato, sta male. Non si studia nemmeno il ciclo femminile a livello sportivo. Effetti collaterali e conseguenze. Io l’ho fatto con la psicologa Bruna Rossi, abbiamo cercato di regolarizzare e di calcolare il ciclo. Io prendo la pillola. Ma se parlo di queste cose rientro nel genere piccola donna alle prese con problemi suoi, poco interessanti. Il ciclo non va d’accordo con il mito». Con Matteo Giunta discutete molto sull’allenamento? «Non tanto, meno di quello che pensano in molti. Lui mi ascolta. Siamo cresciuti insieme, lui come tecnico, io da atleta. Gli dico le mie sensazioni, lui ne prende nota. Mi riconosce come un’atleta evoluta, non come una suddita. Tiene conto dei miei riscontri. Con lui faccio molta palestra, pesi soprattutto. Perché nel nuoto il fisico è tutto, se non hai quel motore che ti porta avanti, smetti di comandare. Tutti mi dicono: facile per te fare i 200, ne conosci ogni angolo di fatica e di fiato, sai come impostarli, e questo significa meno dispendio di energie nervose. Va bene e poi? Bisogna sempre nuotarli». L’oro innamorato durerà fino a Tokyo? «A me ai Giochi basta esserci, con un buon stato di forma. Chiedo un’ultima esperienza prima di avere come confine quel bordo vasca. E vorrei arrivarci con la leggerezza che ho adesso. E con la stessa serenità. Su chi amo voglio essere discreta e riservata. Non devo convincere o sconvolgere nessuno. Questa Federica, trentunenne, vuole essere felice. Si è guadagnata anche l’oro della serenità. Sono in vacanza con i miei genitori e con Vanessa, la mia canina, io che vengo da una famiglia di gattari. Ci concederemo un po’ di baldoria poi riprendo allenamenti e tv. Sono la solita Fede che non ha paura di stancarsi e che a Tokyo vuole andarci con la bandiera». Le avessero detto che a 31 anni avrebbe messo in riga il mondo? «Non ci avrei mai creduto. Da ragazza non avrei pensato di essere così competitiva a questa età. Ma è la mia acqua, lo è sempre stata, e sempre lo sarà».