Giovedì primo agosto

Buongiorno a Tutti. L’Italia non cresce. Perché manca la spinta vitale dice De Rita. Sale l’occupazione. Ma sono over 50 e lavori di bassa qualità. Un paradosso. Intanto la Fed abbassa i tassi e Pechino sfida gli stati Uniti per controllare l’Indo-Pacifico. Buona lettura.

Crescita zero. Istat: l’Italia è in stagnazione. Crescita zero, Pil bloccato. L’economia rallenta ancora (Stampa p.2). Sale l’occupazione ma rallenta l’export. I senza lavoro a quota 9,7%, ai minimi dal 2012 (Corriere p.8). Nel secondo trimestre ferma l’economia, il 2019 sarà piatto. Anche Tria vede la stagnazione (Repubblica p.2). Colpa della frenata di industria e agricoltura. Inflazione in calo a luglio (+0,5%). Confindustria: «L’anno è ormai compromesso». Ref: «Segnali di debolezza anche per l’estate» (Sole p.3). L’Eurozona dimezza la velocità. La Spagna è la migliore tra le grandi economie ma mostra segni di affanno (Sole p.3). La frenata riaccende lo scontro sui conti con l’incognita debito. Salvini: «Ci vuole coraggio, no a mezze misure». Tria: «Serve stabilità finanziaria» (Sole p.3). More

Manca la spinta vitale. Repubblica intervista Giuseppe De Rita: “L’Italia deve ritrovare la sua spinta vitale”. Il Pil non si muove? Non ci si può avvitare intorno ai numeretti. Il problema è che oggi manca quella fiamma imprenditoriale che ci ha fatto crescere. Salvini non è pericolo per la democrazia perché non conta a livello internazionale. Mi preoccupa di più la cultura da crociata dei Cinque Stelle. Ci manca una cultura di base ed è da qui che bisogna ripartire. Il Pd non pensi alla tattica, ma alle alleanze sociali fuori dal Parlamento (Repubblica p.4). More

Gli industriali. La spinta? Meno incertezza politica e più fiducia nelle imprese. Pasini (Confindustria Brescia): la Francia può sorpassarci. Il 2019 è compromesso. La crescita dello 0,2% non è più scontata. Ora salviamo il 2020 (Corriere p.9).

Lavoro. Per l’Istat l’occupazione sale. Ma la realtà è diversa: più inattivi ed esplode la Cassa integrazione. Un tasso di occupazione al massimo storico: 59,2%. La disoccupazione al minimo dal 2012: 9,7%. Quella giovanile al livello più basso dal 2011: 28,1%. Com’è possibile se l’Italia, dopo una doppia recessione, ora è nel tunnel della stagnazione? I dati non devono trarre in inganno. L’Italia arranca, è fanalino di coda in Europa, i posti che crea sono di scarsa qualità, poche ore, paga bassa, produttività in picchiata, alto turn-over, crisi aziendali in crescita (Repubblica p.3).

L’economista Ocse. Garnero: “Ci sono più posti ma meno ore. Così affondiamo”. Da vent’anni vediamo redditi bassi e lavoro di scarsa qualità. Disoccupati appena sotto il 10%, anche la Spagna ci supererà (Repubblica p.3). More

Le ragioni. Carica di over 50 e lavori di bassa qualità è il paradosso dell’impiego senza ripresa. Determinante il ruolo dei lavoratori “maturi” rimasti in attività a causa delle riforme previdenziali. Aumentano le posizioni a scarso valore aggiunto nel settore dei servizi, in calo la produttività (Messaggero p.8). “Occorre riformare il mercato del lavoro e aiutare i più giovani. La disoccupazione è in calo ma i posti sono di bassa qualità. Le cause degli stipendi inadeguati sono la nostra bassa produttività e la crescita in affanno” dice Michele Tiraboschi direttore del centro studi Marco Biagi (Stampa p.2). A giugno scende anche la percentuale di giovani in cerca di lavoro. Buona parte però finisce tra gli inattivi. Aumentano i dipendenti permanenti e a termine, diminuiscono gli indipendenti (Sole p.4).

Navigator. Arrivano i navigator. Fino a settembre politiche attive al palo. I centri per l’impiego non hanno ancora contattato i beneficiari occupabili (Sole p.4).

Commenti 1. Pil giù e lavoro su. Un Paese, due facce e tanti dubbi è l’editoriale di Dario di Vico sul Corriere. Il rischio che si intravede all’orizzonte riguarda l’intero sistema-Paese che assomiglia a un ascensore in discesa di un piano se non due. Perché la contraddizione tra un Pil stagnante e un’occupazione resiliente ha, purtroppo, un solo possibile esito: il primo che contagia la seconda. More

Commenti 2. Software, algoritmi e anche navigator ma i dati sul lavoro? Scrive Federico Fubini sul Corriere (p.24): Domenico Parisi, nuovo presidente dell’agenzia per il lavoro Anpal parla molto di algoritmi per mettere in rapporto imprese e lavoratori, ma il Sistema informativo unitario delle politiche del lavoro è esattamente come un anno fa. Fermo. Manca infatti un tassello fondamentale, perché ancora nessuno fa sì che le imprese segnalino lì le loro offerte di lavoro. Invece di parlare di data science e algoritmi, perché non partiamo da lì? More

Commenti 3. La qualità perduta del lavoro. Scrive Tito Boeri su Repubblica (p.25): Un Paese in calo demografico ha una tendenza inerziale a far crescere i tassi di occupazione, anche se la domanda di lavoro ristagna assieme all’economia nel suo complesso.More

Convocazioni. Il Viminale ci riprova, Landini stavolta non va. La strana convocazione di Salvini per il 6, il giorno dopo Conte: “Date conferma…” Stavola la Cgil invierà solo una delegazione. Poco probabile anche la segretaria della Cisl. I sindacati non riescono a dire un no netto alle convocazioni irrituali di Matteo Salvini, ma stavolta mettono un freno all’iniziativa personale del ministro dell’Interno. Il quale, a sua volta, sembra avere qualche difficoltà a riconvocare le parti sociali dopo che il premier, Giuseppe Conte ha ripreso in mano il boccino del confronto (Fatto p.7).

Fed 1. Powell taglia i tassi americani. Trump lo attacca: “Troppo poco”. Un quarto di punto in meno, è il primo ribasso dal 2008. Mercati delusi (Repubblica p.18).More

Fed 2. Costo del denaro. L’ attesa perla decisione della Fed è finita. La Fed taglia i tassi dello 0,25 per cento. È la prima volta dopo dieci anni.More

Commento. Così Powell segue Trump e Wall Street. Scrive Donato Masciandaro in prima sul Sole: Se guardiamo i fatti, la Fed ha fatto quello che Trump chiede da tempo, preoccupato per il ciclo elettorale. Per quel che concerne i rapporti tra la Fed e Wall Street, la scelta di Powell e del suo consiglio non rappresenterebbe una novità. More

Web tax. In attesa della nuova web tax il fisco incassa dai big 2,2 miliardi. Evasione internazionale. Il gioco di squadra tra Procure, Entrate e Gdf spinge le multinazionali della digital economy a siglare accordi per sanare le imposte non versate negli anni passati. Da Amazon a Google: tasse pagate in Italia solo per 14 milioni. Manca all’appello ancora Facebook che ha promesso di registrare tutti gli incassi (Sole p.5). More

Tassa sui ricchi. Ubs tassa i ricchi che non muovono i loro capitali. da novembre chiunque avrà sul conto più di 2 milioni di franchi in contanti, dovrà pagare una commissione annuale dello 0,75%. Il motivo? I soldi devono girare. Chi sta fermo, dunque, non solo è perduto ma perde pure del denaro (Repubblica p.18). More

Huawei. Salta il freno anti-Huawei: strigliata Usa ai gialloverdi. L’ambasciatore di Trump piomba nell’ufficio di Giorgetti e convoca Di Maio: non gli sta bene lo stop ai paletti al colosso cinese. Gli americani sono pratici. Così Lewis Eisenberg, ambasciatore a Roma di Donald Trump, una settimana fa, è piombato nell’ufficio di Giancarlo Giorgetti, il leghista dialogante, il sottosegretario a Palazzo Chigi, e s’è seduto con la flemma di chi non ha fretta e, soprattutto, di chi pretende spiegazioni. Washington assiste stupefatta all’avanzata italiana di Huawei, la multinazionale della telefonia sospettata di spionaggio per i legami col governo di Pechino e messa al bando da Trump. Giorgetti ha accolto un furibondo Eisenberg, stremato dalle continue piroette diplomatiche degli italiani (Fatto p.6).

Del Vecchio. Del Vecchio: fusione Essilux ormai a pieno regime. Grand Vision? Primo passo. «Le due culture si integrano, nessuno chiede più un Ceo». Avremo le giuste dimensioni per tradurre nel mercato la nostra visione di omnicanalità (Corriere p.27). More

Fca. Manley: “Fca aperta alle opportunità. Ma sopravviviamo bene anche da soli”. Primo semestre positivo grazie ai risultati americani. Confermati gli obiettivi 2019. Ora il rilancio di Maserati. L’ad interviene sulle nozze sfumate con Renault (Stampa p.16). Fca vince la scommessa in Usa ma perde colpi in Europa. L’utile netto in sei mesi a 793 milioni (+14%) In Italia più uscite incentivate e dal 2020 arrivano nuovi modelli Manley: sopravviviamo anche senza alleanze (Repubblica p.19).

Conad rilancia Auchan. “Così rilancio l’ex Auchan. Brianti sarà il nuovo ad”. L’amministratore delegato di Conad Francesco Pugliese spiega i piani dopo l’acquisizione. L’azienda perdeva un milione al giorno: le colpe non sono dei lavoratori ma dei manager francesi. Operazione difficile: cercheremo di avere il minor impatto possibile sui 18 mila dipendenti coinvolti (Stampa p.18).

Pechino sfida gli Usa. Oggi Pompeo a Bangkok per una serie di incontri con i Paesi asiatici. La Cina punta a mettere le mani su risorse naturali e corridoi strategici. Investimenti, prestiti e politica. Pechino sfida gli Stati Uniti per controllare l’Indo-Pacifico (Stampa p.11). More

Guerra dei dazi. Usa-Cina: senza schiarite gli incontri di Shanghai. Nuovo round negoziale a settembre. Si è allargata la distanza tra le parti. Il nodo dell’import cinese di prodotti americani del settore agricolo (Sole p.19).

POLITICA

1 Giustizia

La riforma della giustizia. Il Consiglio dei ministri è una telenovela. La riforma della giustizia resta in bilico. Vertice notturno dopo lo scontro tra Bonafede e Bongiorno. Il nodo della separazione delle carriere. Salvini: Il ministro Bonafede ci mette pure la buona volontà ma la sua cosiddetta riforma della giustizia è acqua. Bonafede: Ci vediamo in Cdm, non su Facebook, così forse potrò finalmente sentire le sue argomentazioni (Stampa p.4).

Il Carroccio duro sull’autorizzazione a procedere contro il forzista Sozzani: 5S e Pd votano insieme Lega all’attacco: ora blocchiamo la norma sulla prescrizione

Entro Ferragosto deve passare il dl Sicurezza Matteo non si fida: “Voglio la fiducia”

Il leghista resiste al pressing per portare Moavero alla commissione Ue

Stampa p.5

Riforma della giustizia. Bonafede, al Consiglio dei ministri duello con Bongiorno. Rottura sul penale. La Lega: da rifare. Il piano avanti «salvo intese». Nove ore di lite sulla giustizia (Corriere p.2). Il leader leghista sbotta: è un testo da gattopardi, si sono fatti fregare dai magistrati del ministero. Ma il vicepremier ottiene da Conte la fiducia sul decreto Sicurezza. Le forti critiche della Lega. In Aula Borghi e il capogruppo Molinari lanciano bordate a Tria (Corriere p.3). Salvini fa la guerra per far saltare la prescrizione (Fatto p.4). Giustizia, stop alla riforma la lite è sulla prescrizione. La Lega rimette in discussione il blocco dopo il primo grado, braccio di ferro sul testo con i 5S (Repubblica p.10).

La Lega stoppa la riforma della giustizia del Guardasigilli Alfonso Bonafede. A mezzanotte passata – e dopo ore di trattative e scontri in consiglio dei ministri tra lo stesso Bonafede e il ministro Giulia Bongiorno, alter ego di Salvini sulla giustizia – il Carroccio concede il via libera solo a due capitoli del testo grillino, il nuovo sistema elettorale del Csm, giudicato “incostituzionale” dalle toghe, e le nuove regole sul processo civile sponsorizzate dal premier Giuseppe Conte. Ma l’osso duro del ddl – il processo penale viatico alla futura prescrizione – passano con la formula “salvo intese” che di fatto equivale a una bocciatura.

Dice Bonafede: “Stasera ho sentito tanti no. Da parte mia c’è l’assoluta disponibilità a modifiche. Ci siamo aggiornati ai prossimi giorni”. Ma le fonti leghiste danno un’altra versione: “C’è distanza sulla riforma. La Lega è per lo stato di diritto, per tempi certi della giustizia. L’Italia è un paese democratico, e Lega vuole garanzie per gli italiani. Servono manager nei tribunali che garantiscano il rispetto dei tempi, servono nuove regole sulle intercettazioni, la separazione delle carriere”. E ancora: “La Lega non vuole i cittadini ostaggio a vita della giustizia e non accetta riforme di facciata”. È una bocciatura in piena regola. In cui manca un dettaglio, di cui parla subito lo stesso Bonafede: “Non vorrei che ci fosse il tema della prescrizione come nodo che non viene portato al tavolo”. La bestia nera per la Lega resta proprio e sempre la prescrizione. Quello stop dopo il primo grado ottenuto da Bonafede sei mesi fa con la legge Spazzacorrotti. Non andava, e tuttora non va giù a Salvini e Bongiorno, che già avevano obbligato Bonafede a far slittare l’entrata in vigore della nuova prescrizione a gennaio 2020 in attesa di approvare il processo penale che adesso viene bloccato. Con l’obiettivo di fermare anche la prescrizione. Che in realtà solo una nuova legge può mandare in archivio. Ma non basta, perché il Carroccio, stressato dalle indagini in corso su Moscopoli e su Siri, si batte per una decisa stretta sulle intercettazioni su cui, all’opposto, M5S fa muro. Tutto il resto, la durata dei processi e la separazione delle carriere, è di contorno. Per questo Salvini e Bongiorno hanno duramente litigato con Di Maio e Bonafede, mentre Conte mediava vantando il merito del nuovo processo civile di Bonafede, secondo lui più rapido e meno costoso, “l’unica cosa che veramente interessa ai cittadini” diceva da esperto avvocato civilista. Ma dopo due lunghe interruzioni, i leghisti continuavano a parlare di “trattativa in stallo”. “Vogliono un processo penale brevissimo e impossibile” replicavano gli uomini di Bonafede. E Salvini invitava alla prudenza e al rinvio: “Prendiamoci altro tempo perché sulla giustizia bisogna fare le cose per bene. Ci stiamo battendo per la certezza della pena, per tempi più brevi dei processi e per dare garanzia agli innocenti, che non possono essere sotto inchiesta a vita”. Una conferma che il tasto dolente è la prescrizione. Comincia male e finisce peggio la battaglia sulla giustizia tra gli alleati di governo. Uno scontro durissimo in mattinata, poi Salvini e Di Maio si vedono a palazzo Chigi con Conte, parlano con Bonafede. La mediazione non arriva. Salvini si apparta con Bongiorno. Ma ai grillini bruciano le parole pronunciate poche ore prima da Salvini dopo un summit al Viminale con Bongiorno, Molteni, Morrone. Via Fb parte l’affondo contro Bonafede. La sua non è una riforma, ma un “riformina”, peggio “è acqua”. Giusto mentre Di Maio parla di riforma “epocale che sarebbe un grave danno bloccare”. Proprio quello che avviene 12 ore dopo.

Una riforma, anzi due

di Gianluca Di Feo

P er un vicepremier “è epocale”. Per l’altro invece “è solo acqua fresca”. Il clima peggiore per affrontare la riforma della Giustizia: un tema strategico, di quelli che richiederebbero intese larghe e grandi dibattiti. Invece no. La slavina del governo travolge anche una questione fondamentale per la credibilità delle istituzioni e la trasforma nell’ennesimo scontro a porte chiuse tra i due partner della maggioranza. Le premesse d’altronde erano pessime. Il disegno elaborato dal ministro pentastellato Bonafede è riuscito a ottenere un risultato senza precedenti: unire magistrati e penalisti nel contestarlo. Nei suoi progetti almeno Silvio Berlusconi si era sempre curato di conservare il sostegno degli avvocati. Invece l’attuale Guardasigilli ha condotto fiumi di audizioni con tutte le categorie, per poi ignorarne le osservazioni. «Le decisioni finali spettano a me, che me ne assumo le responsabilità», ha dichiarato Bonafede con piglio bonapartistico e un’interpretazione molto autoritaria del suo ruolo. Una determinazione che si è subito schiantata contro la realtà di questo governo, dove Salvini non è disposto a cedere la leadership. Anzi, ha lanciato su Facebook la sua riforma parallela, in una gara a chi la spara più grossa. Il M5S vuole chiudere i processi entro sei anni? La Lega è pronta a farlo in tre anni, promettendo diecimila assunzioni e mille magistrati in più. Una fiera delle velleità, utile solo a proclami da imbonitore social. Sono bastati 5 minuti di Consiglio dei ministri per capire che le posizioni erano inconciliabili. E una lunga notte di trattative per cercare di rabberciare una formula che nascondesse il naufragio. Uno spettacolo nefasto, sintomatico non solo della crisi della maggioranza ma anche dell’incapacità di fronteggiare i problemi del Paese. La lunghezza dei processi è una gogna per tutti gli italiani, semplici cittadini e imprenditori. Per questo richiede soluzioni concrete e condivise, intorno a cui cementare un consenso ampio non solo politico ma di tutti i protagonisti del mondo giudiziario. Né il ministro Alfonso Bonafede, né la sua antagonista leghista Giulia Bongiorno si sono preoccupati di costruire questi presupposti: entrambi procedono con una visione di parte, seguendo la ricetta che piace al loro partito. Senza curarsi del fatto che possa funzionare o meno. Conta solo la sfida a braccio di ferro tra Di Maio e Salvini: tanto l’unico risultato alla loro portata è un carosello di slogan, dietro cui celare l’agonia dell’esecutivo.

Repubblica p.24

Procedimenti lumaca, è giusta la stretta. Il Commento di Cesare Mirabelli sul Messaggero a pagina

Il disegno di legge che attribuisce al Governo una delega per la riforma della giustizia manifesta una ambizione e contiene una insidia. Proporre un unico provvedimento per riforme che comprendono il processo civile, il processo penale, l’ordinamento giudiziario, la carriera dei magistrati, il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, offre l’idea che si persegue una “grande riforma”, destinata ad incidere profondamente sul sistema ed a rendere efficiente il funzionamento della giustizia. La diversità dei temi trattati, ciascuno oggetto di una o più deleghe al Governo, alcunidi carattereprevalentemente tecnico,comequelliche riguardano ilprocesso, altri di maggiore spessorepolitico,come quelli relativi aimagistrati ed al Consiglio superiore della magistratura, implicano il rischioche difficoltà o intoppi in Parlamento su singoli aspetti di una propostacosìcomplessa blocchio rendapiù difficile il percorso ancheper quelle parti della riforma,ciascuna relativa adun tema omogeneo,per le quali vi sia largacondivisione. Perquanto riguarda il processo, siacivilechepenale, un elemento tecnico dominante è l’accentuazionedella informatizzazione.Deposito di atti,comunicazioni enotifiche, sono esclusivamente affidate a sistemi telematici.Ne dovrebbe derivare,sia purecon qualche complessità operativa forse sottovalutata, il superamento di tempimorti e di incertezzenel buon esito dellenotifiche,che particolarmentenel processo penaledetermina il rinviodelle udienze. Nelprocesso civile si tende a governarne la durata, sin dal ricorsoche lo introduce, fissando termini stringentiper gli attida comperedalle parti e dal giudice, e ad accentuarne laoralità, sino allasentenza resa immediatamentedopo la discussione,con la lettura del dispositivo e possibilmentedelle ragionidella decisione.Modalità analoghe ancheper il giudiziodi appello,che attualmente costituisce la fase cheha maggiore difficoltà acontenere i tempi richiesti per la decisione.E’ offerta ancheuna aperturaper l’attività istruttoria stragiudiziale,semprecon la garanziadelcontraddittorio tra leparti e della difesa tecnica. Ancheper il processopenale sonoscanditi i tempi per il compimentodelle attività. Sinda quelladelle indaginipreliminari checompie il pubblicoministero, lacui violazionepuò determinare responsabilità disciplinare.È evidente il tentativodi bilanciare il già previsto allungamento dei tempi diprescrizione dei reati, sterilizzandone gli effetticon l’auspicato abbreviamentodella durata deiprocessi.Unanovità, almeno sulpiano legislativo, perché già sperimentata in alcuneprocure, è la possibilità affidata al pubblicoministero di prevedere e rendere trasparenti e predeterminati i critericon i qualiselezionare lenotizie di reatoda trattareconprecedenza. Inqualchemodo si superadi fatto ilprincipio di obbligatorietà dell’azionepenale, che viene raccordato allecapacità operativedegliufficidi procura. Tuttaviane deriva, insingoli territori, aduna annunciata ed implicita “depenalizzazione giudiziaria”di reaticonsiderati di minor rilievo.É anche significativa la introduzione di casinei qualinon èconsentito appellare le sentenze:di proscioglimentoper reati di minor rilievo, o dicondanna a pena sostituitacon il lavoro di pubblicautilità. L’obiettivodi ridurre ladurata ora eccessivadei processi,che ha determinatonumerose condannedell’Italia daparte dellaCorte europeadei diritti dell’uomo, è affidato ancorauna volta amodifiche delle regole processuali,mentre rimangono sottovalutati gli aspetti che riguardano la efficienzadella organizzazione e delle risorse. Gli aspetti politicamentepiù sensibili riguardano la “riforma ordinamentaledella magistratura”,che dedica largo spazio aicriteri ed alleprocedure per lanominanegliuffici direttivi.Una disciplinache articolaminutamente i tradizionalicriteri della anzianità,delle attitudini e del merito sin qui riempiti da circolaridelConsiglio superiore dellamagistratura.È evidente l’intenzionedi porre rimedio sul pianonormativo a quanto reso evidentedalle recenti vicende per lanomina delProcuratore della Repubblicadi Roma.Tuttavia l’eccessodi dettagliati vincolinel procedimento enella articolazione deicriteri rischia di alimentareulteriormente il già frequente ricorso al giudice amministrativocontro i provvedimentidinomina. D’altraparteun sistemanel quale prevalesse il buon andamento, dovrebbe essere il riconoscimento dell’autorevolezzadelConsiglio e la linearità delle suescelte a costituire lamigliore garanzia per la selezione deimagistrati che aspirano a funzionidirettive. Dunque èquesto unnodo essenziale. Il disegno di legge governativo lo affrontacon riguardo alle elezionidei magistraticomponentidel Consiglio superiore della magistratura, ilcuinumero in controtendenza rispetto all’andamento generale nuovamentesi accresce da sedici a venti.Le elezionisi svolgono conun sistemamisto:nella prima fase solo sorteggiati i magistratichepossono presentare la propria candidaturanelcollegio dove esercitano le loro funzioni.Nella seconda fase sono eletti essere candidatipiù votatinelle singole circoscrizioni.La limitazione al potere di fatto dellecorrenti organizzate resta dunque affidata alla sorte, allacasualità dellepotenzialicandidature. ©RIPRODUZIONERISERVA

Messaggero p22

Si, la giustizia è impazzita. Carriere inseparabili, Csm irriformabile, magistrati mediatici e ora la riforma di un “ministro improvvisato”, Bonafede. Chiacchierata a tutto campo con l’avvocato Coppi. Annalisa Chirico sul Foglio pagina IV

Roma. “Nei tribunali c’è un tale degrado che mi è passata la voglia di andarci”. Il professor Franco Coppi appare tormentato e non lo nasconde. La chiacchierata su vita e morte del diritto attraversa il principio e la fine di un’esistenza: la sua. “Volevo fare il pittore ma non avevo dentro il sacro fuoco del pittore. Neppure quello dell’avvocato, a dire il vero. Dicono che non si dovrebbe vivere di rimpianti, che al termine di un ciclo sei quello che dovevi essere. Una qualche provvidenzialità immanente nelle cose deve pur esserci. Poi però io mi fermo a pensare e il pensiero è tormento. Penso a ciò che non sono riuscito a fare, che mi sarebbe piaciuto fare, ai posti che non ho visto, agli incarichi che non ho accettato. Sebbene oggi non abbia più alcun senso, continuo a ripensare me stesso. Ci si prepara anche così a morire”. “Degrado” è una parola forte, professore. “Aspetti formali e sostanziali contribuiscono allo stato attuale. Nelle corti di assise capita di imbattersi in giurati con la maglietta da mare e la fascia tricolore, in magistrati con la toga buttata addosso a un paio di blu jeans e la camicia aperta fino all’om – belico. Non pretendo che si torni ai tempi in cui ti guardavano storto se ti presentavi in Cassazione con l’abito spezzato ma gli eccessi attuali sono inaccettabili: la forma è manifestazione di rispetto verso il ruolo che si esercita nelle aule giudiziarie”. I guasti della giustizia però non sono una mera questione di abbigliamento. “Non mi ritengo l’ultimo arrivato, ho accumulato un po’ di esperienza, eppure da qualche tempo capita con frequenza sempre maggiore di trovarsi di fronte a sentenze inaspettate e inaspettabili. Certi episodi sono talmente inverosimili che temo di non essere creduto”. Noi le crediamo. “E’ accaduto che, poco prima di un’udienza, un magistrato mi abbia confidato candidamente di essersi già formato un’opinione sul caso guardando gli spettacoli televisivi. Me l’ha detto senza avvertire la gravità di un’affermazione che per me è valsa come una pugnalata nel fegato”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha presentato un ddl che fissa in sei mesi il termine perentorio per la conclusione delle indagini preliminari. “Mi lasci dire, in premessa, che nella vita non ci s’improvvisa. Da anni sento parlare di come riformare la giustizia: una materia così rilevante e complessa andrebbe affidata a persone dotate della competenza necessaria. A mio giudizio, porre limiti temporali alle varie fasi del processo è in sé sbagliato: se per una perizia tossicologica s’impiegano tre mesi abbondanti, come si fa a stare nei sei? Ho sentito lo stesso ministro presentare come obiettivo auspicabile il processo lungo nove anni nei tre gradi di giudizio. Un’idea commovente”. In che senso? “Co – me si può pensare che nove anni siano un tempo trascurabile nella vita di una persona? Nove anni sono un’enormità, una cosa mostruosa! Anziché fissare termini drastici, bisognerebbe indurre il magistrato a correre di più. L’attuale codice invece sembra favorire le lungaggini. Si consideri il dibattimento: sotto il mito della verginità del giudice e della formazione della prova si è camuffata una perdita di tempo incredibile. Chiunque assista a un’udienza si accorge che essa serve esclusivamente a trasferire ciò che tutti sanno, a eccezione del giudice, dai verbali investigativi del pm a quelli del dibattimento. Se fosse vero che il giudice, una volta a conoscenza degli atti, si preforma un giudizio immutabile, con il vecchio codice Rocco avremmo dovuto avere soltanto condanne. All’epoca invece le sentenze di assoluzione fioccavano. Oggi si pretende che chi ha redatto un verbale si rechi in aula, a distanza di tre anni, per riferire se il capo della vittima fosse reclinato sul volante o riverso sul sedile, elementi e fatti già pacificamente acquisiti agli atti. E’ un meccanismo caotico, fonte di perdite di tempo inenarrabili”. La riforma Vassalli del 1989 è uno spartiacque: lei vorrebbe tornare indietro? “Continuo a ritenere che il codice Rocco desse maggiori garanzie dell’attuale. Il giudice istruttore, al momento del rinvio a giudizio, consegnava al giudice del tribunale un’ipotesi di lavoro. Va da sé che parliamo di magistrati perbene, avvocati preparati e pm dotati: in presenza di un giudice pazzo o di un difensore corrotto, non c’è codice che tenga. Con il vecchio rito i processi si risolvevano in un paio di udienze perché il giudice era nelle condizioni di poter acquisire, mediante la lettura degli atti, una conoscenza approfondita del caso. Oggi assistiamo al paradosso di corti di assise che rinviano a un anno, un tempo spropositato per il penale. Nelle facoltà di legge s’insegna, sin dalle prime lezioni, che la caratteristica fondamentale del procedimento penale è la concentrazione: grazie a ritmi incalzanti il giudice non perde la memoria dell’accaduto e le parti sono effettivamente coinvolte nel produrre i rispettivi contributi in termini serrati. L’organizza – zione del lavoro negli uffici giudiziari va razionalizzata, così è quasi farsesca”. Nel progetto Bonafede testé menzionato si elimina la figura del procuratore aggiunto, fino a oggi individuato dal Csm, per sostituirlo con il “magistrato coordinatore” nominato dal procuratore capo. “La sostanza non muta cambiando nomi ed etichette. Il coordinatore assorbirà il mestiere dell’aggiunto, con il rischio di un maggiore accentramento di potere: il procuratore capo, se è illuminato, fa la fortuna di una procura; se è debole o sensibile alle lusinghe, è causa del disastro”. Intanto, sempre grazie al governo in carica, dal primo gennaio 2020 la prescrizione si blocca dopo il primo grado di giudizio. “E’ la prova più evidente del fallimento della giustizia. Si è costretti ad abolire la prescrizione perché ci si rende conto che non si è in grado di celebrare il processo in tempi ragionevoli. Domando: quando saranno fissati i procedimenti in grado di appello o in Cassazione? Secondo quali criteri? A quali sarà data la precedenza? E’ giusto tenere per anni un cittadino nella totale incertezza circa la sua sorte? Non va poi dimenticato che insieme ai condannati, ai quali può far comodo il trascorrere del tempo, esistono le persone assolte: stando alle nuove norme, la spada di Damocle di un processo infinito continuerebbe a pendere sulla loro testa. Ci si dimentica poi delle vittime: quanto tempo dovrà attendere la moglie di un operaio, morto cadendo da una impalcatura, per ottenere il risarcimento del danno?”. Il Guardasigilli sogna un Csm eletto con un mix di votazione e sorteggio, un meccanismo arzigogolato foriero di un paradosso: i candidati meno votati potrebbero essere quelli eletti. “Io resto contrario al sorteggio: se è indiscriminato rischia di far eleggere un magistrato fresco di concorso; se invece s’in – troducono criteri e paletti, legati per esempio all’anzianità di servizio, diventa un sorteggio pilotato e discriminatorio”. Il correntismo però non fa bene alla giustizia. “La formazione delle correnti è inevitabile. Il tema non mi ha mai appassionato, a me piace mettere la toga sulle spalle”. Lei coltiva buone relazioni con tutti. “Non ho amici magistrati, non li frequento ma uso cordialità, certo. Quando sono in aula ho davanti a me il pm, un avversario, e non mi domando a quale corrente appartenga”. Lo scandalo Csm, squadernato sui giornali, ha svelato il segreto di Pulcinella: toghe e politici negoziano le nomine. “La vicenda non mi ha stupito, mi sembra piuttosto emblematica del momento buio che sta attraversando la giustizia in Italia. Io però una soluzione l’avrei”. Quale? “Se al Csm venisse lasciata la sola funzione disciplinare e il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi fosse affidato a un organo diverso, non ci sarebbe più la corsa a farsi eleggere. Il compito di nominare procuratori capi, aggiunti e presidenti di sezione potrebbe essere assegnato a un collegio di giudici costituzionali, integrati con il primo presidente della Cassazione e con il procuratore generale, insomma con figure avanti nella carriera e perciò meno sensibili a pressioni esterne”. Silvio Berlusconi e Matteo Renzi avrebbero sostenuto la sua candidatura a Palazzo dei marescialli. Lei ha sempre rifiutato. “Io mi limito alle cose che so fare”. Le fu proposto anche il ruolo di giudice costituzionale. “Il compianto Loris D’Am – brosio, all’epoca consigliere giuridico del presidente Giorgio Napolitano, mi raggiunse in ufficio per illustrarmi questa possibilità. Mi presi la pausa estiva per pensarci, alla fine declinai”. C’è un ministro della Giustizia che rimpiange? “Il democristiano Guido Gonella fu un buon ministro”. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, professore. E’ passato un po’ di tempo. “Tra i recenti, checché se ne dica, il leghista Roberto Castelli non mi è dispiaciuto”. Gonella era giornalista, Castelli ingegnere. “Un buon guardasigilli non dev’essere per forza un giurista. Oggi ci sono diversi laureati in legge, mi pare, manifestamente incompetenti”. Lei è disilluso dalla politica. “Mi vengono i brividi quando ascolto il discorso tenuto dall’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi alla Conferenza di pace a Parigi nell’agosto del 1946. Ogni epoca ha i suoi uomini. Al giorno d’oggi, va di moda una politica urlata, io penso invece che dialogando a voce bassa ci si controlla di più e si dice qualche fesseria in meno”. Lei appare sempre misurato, quasi serafico. “Chi strepita deve nascondere la debolezza dei propri argomenti”. Lei è un moderato? “Non direi, io adoro gli eccessi, mi piace chi ha il coraggio di rompere una tradizione, il conformismo fa comodo a tutti”. Tornando alla politica, il vicepremier Matteo Salvini ha arruolato la donna che difese con lei Andreotti. Giulia Bongiorno, ministro di ferro. “Lei è una professionista con le carte in regola, chissà dove arriverà”. A proposito della sua nostalgia per il rito inquisitorio: se i tribunali sono “gabbie di matti”, il copyright è il suo, come si può auspicare il ritorno a un sistema dove un unico soggetto raccoglie le prove e decide il rinvio a giudizio? “Queste etichette, inquisitorio e accusatorio, lasciano il tempo che trovano, io mi concentrerei sulle regole effettivamente applicate. Istituti come patteggiamento e rito abbreviato si sarebbero potuti innestare anche sul ceppo del vecchio codice, che prevedeva ormai la presenza del difensore già in sede d’in – terrogatorio dell’imputato. Con il vecchio codice io non ho avuto sentenze ingiuste per colpa del codice, ma magari perché il giudice non aveva studiato la causa o io non ero stato abbastanza bravo da far valere le ragioni del cliente”. Il rito accusatorio, secondo il codice in vigore, è tuttora incompiuto. “Si può definire davvero accusatorio il procedimento in cui le domande all’imputato e ai testimoni vengono formulate avendo sotto gli occhi le dichiarazioni rese in fase istruttoria, e al minimo scostamento si fanno partire le contestazioni al solo scopo di mettere in dubbio l’attendibilità e la credibilità del testimone? E’ accusatorio il processo in cui s’indulge a credere in ciò che è stato detto in fase istruttoria davanti al pm piuttosto che alle affermazioni raccolte nel dibattimento davanti al giudice?”. La parità tra accusa e difesa è un miraggio. “La parità è un’utopia, non esisterà mai, se non altro per la disponibilità di mezzi a vantaggio dell’accusa che, per ragioni anche economiche e pratiche, sono preclusi all’imputato. Tuttavia questo è il bello del processo penale: che gusto c’è a battagliare ad armi pari? E’ molto meglio avere a che fare con un avversario più forte, per superarlo”. Lei, professor Coppi, è forse il più famoso avvocato d’Italia: c’è il suo nome nel caso Andreotti, nello scandalo Lockheed, nel golpe Borghese, nelle difese di grandi gruppi industriali e in quelle di Nicolò Pollari, Antonio Fazio, Gianni De Gennaro, Franzo Grande Stevens… “Forse il mestiere dell’avvocato è talmente banale da riuscire anche a una persona che non lo ama particolarmente. Lanciare un razzo nello spazio è più complicato”. Lei, in fin dei conti, voleva fare il pittore. “Smisi il giorno della laurea in Legge. In verità, se avessi avuto il sacro fuoco della pittura, non avrei mai interrotto. Forse la mia era piuttosto un’illusione giovanile”. Lei è riuscito a far assolvere Berlusconi per le cene eleganti. Ha capito, alla fine, se erano davvero tali? “Di sicuro erano divertenti. Se mi avessero invitato, ci sarei andato”. Niccolò Ghedini soffriva un po’ il suo protagonismo. “Non è vero, è stato lui a chiedermi di associarmi nella difesa”. Il senatore le ha regalato un golden retriever che lei ha ribattezzato affettuosamente Rocky, di cognome Ghedini. “Non vedo perché il cane, la mia passione di questi anni, non debba avere un nome. E’ un omaggio a Ghedini, non certo una presa in giro”. Nel cielo stellato della sua carriera compare un buco nero, privo di avi illustri. “Sabrina Misseri è l’angoscia della mia vita. La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre”. Entrambe scontano una condanna all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. “Ho la certezza assoluta della loro innocenza, sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato. Noi difensori non possiamo pretendere di vincere tutti i processi, non deteniamo il monopolio della verità e certe vicende si prestano a molteplici letture, d’accordo, ma nel caso di Sabrina Misseri no. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento”. La Corte di Strasburgo, da voi adita, ha giudicato il caso ammissibile. “Attendia – mo di conoscere l’esito, i tempi non sono brevi. Poi non ci resterà che sperare nella revisione del processo”. Perché lei ha fallito? A questa domanda l’avvocato mi chiede la cortesia di stoppare la registrazione. Pausa. Dopo qualche minuto, riprendiamo. “Talvolta un magistrato si forma una convinzione e non è più capace di rinunciarvi, così ogni elemento viene interpretato e costruito in funzione del preconcetto in un circolo interminabile di distorsioni logiche”. La Corte d’as – sise è la sua passione. “Sono un avvocato di vecchia scuola: reati societari e tributari possono essere interessantissimi ma un bell’omicidio rimane un bell’omicidio. Lì si manifesta il problema della prova che richiede analisi psicologiche ed esame dei testi; lì si dispiega il vero processo con lo scontro tra le tesi di accusa e difesa; lì si cerca di costruire, quasi a colpo di pollice, come se si dovesse plasmare una creta, questa verità che affonda le radici nell’uomo e nelle sfaccettature del suo animo”. L’umano pendolare tra l’an – gelico e il demoniaco. “L’imputato di Corte d’assise lo devi dapprima capire e comprendere, poi lo devi far capire e comprendere al giudice”. Ha mai difeso un omicida pur essendo consapevole della sua colpevolezza? “In questi processi raramente l’imputato si confessa con il difensore né il difensore, per svolgere il proprio mandato, ha bisogno di sapere se egli sia colpevole o innocente. Tu lo difendi da un’accusa, punto. Il tuo dovere è trovare nel processo ogni elemento favorevole, anche perché un processo non sempre lo vinci con l’assoluzione: ottenere le attenuanti generiche, a volte, è un gran successo”. Il processo è un po’ di logica e un po’ di buon senso, parole sue. “Non s’interpre – tano solo le norme ma anche i fatti, e questi vanno valutati secondo regole d’esperienza. Se cammino per strada e qualcuno mi viene incontro, immagino che voglia festeggiarmi e non prendermi a schiaffi. Il buon senso ti permette di individuare le regole d’esperienza da applicare al singolo caso per interpretarlo correttamente. La logica serve a concatenare gli elementi raccolti secondo un principio razionale e coerente”. Eppure certe sentenze fanno a pugni con il senso comune. “Accade sempre più spesso, purtroppo, che certi pronunciamenti risultino incomprensibili all’uomo della strada, e pure a noi avvocati. Il compito del giudice richiede umiltà: se egli pretende di imporre la propria visione della vita e del mondo, applicherà regole d’esperien – za sbagliate, non adatte al caso concreto e in contrasto con il vivere quotidiano. I vecchi maestri ammonivano che tra una vittoria in fatto e una in diritto va privilegiata la prima”. In Italia la pena resta incerta. “Già Cesare Beccaria insegnava che la pena, per essere efficace, dev’essere certa ed eseguita in tempi prossimi alla consumazione del delitto. Oggi invece prende piede una cultura della pena concepita come castigo. Io ti punisco anche a distanza di quindici anni dal fatto, anche se sei una persona diversa da quella che ha commesso il reato. Non mi scandalizzano gli sconti di pena, del resto l’esperienza carceraria è terribile; mi scandalizza piuttosto una condanna a quindici anni dal fatto perché essa preclude qualunque possibilità di recupero e reinserimento sociale. E’ castigo e basta”. Da noi resiste l’idea che l’unica pena possibile sia quella detentiva. “Il ricorso a sanzioni non carcerarie andrebbe esteso e approfondito. Se a una persona colpevole di omicidio stradale togli la patente a vita, lo colpisci più che tenendolo un anno dietro le sbarre”. Le sanzioni amministrative, di regola, sono più tempestive ed efficaci. “Un maggiore impiego di esse avrebbe un effetto deflattivo sul carico dei procedimenti penali pendenti. Il sistema accusatorio, che postula per definizione un numero ridotto di procedimenti, è difficilmente attuabile in un paese dove ogni anno oltre 50 mila ricorsi giungono in Cassazione”. Il magistrato risponde di ciò che fa? “Il magistrato non può vivere nella preoccupazione di dover pagare l’errore, gli toglierebbe serenità e coraggio. Nel caso di dolo o colpa grave, la sanzione deve essere effettiva. Un tema diverso, tuttavia, si pone con maggiore urgenza, e non ha a che fare con eventuali illeciti: se un giudice vede regolarmente le proprie sentenze riformate in appello e in Cassazione, ne deve rispondere oppure no? E’ possibile che non gli si possa dire: guarda, il penale non fa per te, adesso passi a occuparti di cause condominiali. Un minimo di controllo nel corso della carriera andrebbe ripristinato. I capi degli uffici sono tali non solo per presenziare a inaugurazioni e manifestazioni calcistiche: se sono capi, devono saper comandare”. Di tanto in tanto si torna a parlare di separazione delle carriere. “A mio giudizio, il problema sta da un’altra parte, e riguarda le modalità di reclutamento dei magistrati e l’a ssenza di controlli dal giorno successivo al concorso. Se i due percorsi venissero nettamente separati, pm e giudice non sarebbero forse più fratelli come adesso ma resterebbero perlomeno cugini. La riforma non introdurrebbe benefici particolari: ho conosciuto magistrati che sono passati disinvoltamente da una funzione all’altra svolgendo magnificamente entrambi i ruoli”.

Foglio p IV

2 di maio

Il«nuovocorso»diDiMaio: piùforzaaitemiidentitari Ecelebrai suoinavigator Da settembre priorità ad acqua pubblica ed economia «verde»

Corriere p.5

Un piano per settembre, un ritorno alle origini, ma seguendo una nuova prospettiva. Luigi Di Maio ha intenzione di concentrare in queste ultime settimane le sue attenzioni sui provvedimenti più indigesti per il Movimento (a partire dal decreto Sicurezza bis per passare all’autonomia) periniziare dopo la pausa estiva dell’Aula un «nuovo corso». Un doppio filo parallelo tra ciò che accadrà in Parlamento e quello che il leader ha in mente in seno al Movimento. Sul fronte governativo in prima fila ci saranno i temi identitari pentastellati, sia quelli che hanno intrapreso un iter parlamentare come l’acqua pubblicaoil taglio dei parlamentari, sia quelli legati all’ambiente, accostati però al mondo delle imprese. L’economia «verde» sarà uno dei cavalli di battaglia futuri del ministro del Lavoro, che punta a riannodare il legame con la base (guarda caso nello stesso periodo dovrebbero prendere forma le nuove strutture regionali dei Cinque Stelle). «Qui si tratta di costruireedi ascoltare», dice un pentastellato, che respinge le accusa di passi indietro. «Macché: siamo sempre noi, è il nostro dna, sono i nostri temi da sempre». E prosegue: «Abbiamo il dovere di realizzareipunti per cui la gente ci ha votato».

3 sicurezza

Salvini impone la fiducia sulla sicurezza

Il leader leghista: “O passa la legge o non ha senso andare avanti”.

Repubblica p.11

La strategia sulla Tav fa esplodere gli azzurri Il Cavaliere tentato dall’imboscata in Senato, ma i deputati alzano le barricate

Giornale p.4

3 autonomia

Autonomia, intesa lontana restano le distanze sul fondo di perequazione

LOMBARDIA E VENETO NON ACCETTANO DI TRASFERIRE ALLE ALTRE REGIONI UNA QUOTA DI RISORSE AGGIUNTIVE

Messaggero p.3

Aspettando l’au to no m i a , il Nord incassa dalla sanità 1,2 miliardi l’anno dal Centrosud a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per la mobilità

Fatto p.5

Sud e autonomie il bluff della Lega

di Stefano Folli

Alla crescita zero in economia corrispondono le decisioni zero nell’attività di governo. A parte la Tav, forse l’unico rebus in via di soluzione nonostante gli strappi, si deve al binomio Conte-Tria il merito di aver evitato la procedura d’infrazione in Europa. Ma si tratta di un successo della linea, diciamo così, istituzionale dell’esecutivo, in un momento in cui la tenaglia politica del duopolio Lega-M5S si era allentata. Per il resto, il conflitto permanente tra i due soci della maggioranza paralizza l’esecutivo in modo quasi perfetto. Lo si è visto ieri sera in Consiglio dei ministri, dove la riforma Bonafede si è subito insabbiata. Nessuno peraltro può credere che in questo clima si lasci al ministro della Giustizia “grillino” il privilegio di condurre in porto un mutamento storico. E infatti il rilancio di Salvini non ha l’obiettivo di rendere più efficace o rigoroso il provvedimento messo a punto in via Arenula. Più semplicemente la Lega sposta il terreno dello scontro. Ed evoca la “clausola di dissolvenza” che fino a oggi ha precluso qualsiasi riforma in materia di giustizia: la separazione delle carriere dei magistrati. Tema antico e controverso come pochi, sul quale è inutile illudersi che un compromesso sia possibile. Se Salvini usa questo argomento per bloccare Bonafede, vuol dire che ha già deciso di fare della riforma della giustizia un altro cavallo di battaglia elettorale. Di conseguenza, le “riformine che sono acqua fresca” – parole del ministro dell’Interno – equivalgono a quelle discusse e di fatto concordate con i magistrati. Quella che piace alla Lega, con la separazione delle carriere, è impossibile oggi, come tutti sanno. Ma potrebbe diventare plausibile, anzi probabile, nel caso in cui il partito di Salvini ottenesse in solitudine il successo a valanga nelle urne per il quale si prepara da tempo. Tutto o quasi va dunque ricondotto al momento elettorale che peraltro non si realizzerà domani, ma al più, come sappiamo, nei primi mesi del 2020. Intanto però nel destino degli italiani c’è l’ennesima, lunghissima campagna fatta di colpi bassi e violenza verbale. Una campagna ricca di chiaroscuri in cui non tutto è come appare. Si prenda ad esempio il prossimo viaggio di Salvini nel Meridione di cui ha scritto ieri su questo giornale Carmelo Lopapa. È senza dubbio una mossa che fa parte della campagna elettorale di fatto già cominciata. Ed è volta a tagliare l’erba sotto i piedi ai Cinque Stelle (un po’ anche a Fratelli d’Italia) che nel Sud raccolgono il massimo dei consensi. Al tempo stesso è una contraddizione per Salvini, qualcosa che lo obbliga a camminare sulla lama di un rasoio. Non si può infatti recitare la parte del paladino del Mezzogiorno e al tempo stesso promuovere la riforma dell’autonomia regionale nella versione cara a Zaia e Fontana. I due pezzi del mosaico non stanno insieme, come ha spiegato Roberto d’Alimonte sul Sole 24 Ore. Salvini è un giocatore molto abile nel “bluff”, ma in questo caso non può coniugare l’autonomia nordista, voluta dai suoi, e il nazionalismo sudista che gli conviene per calcolo elettorale. C’è una sola strada: rinviare ogni decisione di merito a tempi migliori. Come è ormai prassi.

Repubblica p.25

4 seggio

Seggiosicilianoalla5Stelleumbra Caoseproteste.PoiilsìdelSenato Il Pd:regime.Il posto era vacante, M5S va a 107.Un eletto in più anche per FI, esce un dem

Al M5S spettano in Sicilia 17 seggi al Senato, ma nella lista, il 4 marzo, non c’erano candidati a sufficienza: Catalfo, nel listino proporzionale, è stata eletta anche nell’uninominale

Esauriti tutti i candidati nella lista siciliana, per assegnare ai 5 Stelle il 17° seggio è stato scelto il primo dei non eletti M5S in Umbria, per un calcolo tecnico sui quozienti

Alle Politiche del 2018 Edoardo Patriarca del Pd vince nella circoscrizione di Modena per soli 46 voti sul leghista Stefano Corti

Un ricorso porta al riconteggio delle schede, ribaltando il risultato. La Giunta per le elezioni del Senato ritiene quindi di assegnare il seggio a Corti

Corriere p.6

5 commissario

Commissario Ue Le incertezze sul nome

La scelta del nome del commissario europeo presenta ancora diverse incognite. Il totonomi va avanti da giorni. Dopo la ministra Giulia Bongiorno, si è parlato anche del segretario generale della Farnesina Elisabetta Belloni e di Letizia Moratti. Però tutto è ancora da decidere. Domani intanto il premier Giuseppe Conte incontrerà la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen

Corriere p.3

Caos sulla scelta del commissario. Conte chiede invano un nome per Bruxelles. Rispunta l’ipotesi Tria

Repubblica p.11

L’ESTATE INDAFFARATA DELL’UE C’è una Commissione da fare e un primato da conquistare (color rosa), poi si lavora parecchio in Grecia, Austria e Belgio. I deputati a scuola, la musica con i cuori e la legge del pollo inglese

di Paola Peduzzi e Micol Flammini

L’estate europea sarà piena di corteggiamenti, di proposte e di rifiuti, chi con il cuore in mano chi con un piano d’azione efficace (i più fortunati con entrambi), tutti attenti a collocarsi nel posto giusto, ché sta per aprirsi il quinquennio di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ed è necessario prendere le misure nuove all’Europa che verrà. Prima di cominciare questo gioco delle coppie su scala continentale – un gioco che si fa al chiuso, nei palazzi – abbiamo fatto un giro all’aperto, in piazza. In Bulgaria ci sono proteste contro la nomina di Ivan Geshev a procuratore generale: ancora questa settimana molte persone si sono ritrovate davanti al palazzo di Giustizia di Sofia chiedendo di dare al paese un’alterna – tiva al regno di Geshev, “il cowboy”. Il gruppo Justice for all chiede che venga proposto un altro nome, a settembre l’estate non sarà più una scusa e ci si conterà, quindi dice ai bulgari: fatevi vedere, fatevi sentire. In Romania la piazza urla “incompetenti”, ce l’ha soprattutto con le forze di polizia e con il ministero dell’Interno: una ragazzina ha telefonato tre volte dicendo di essere stata rapita, la polizia è intervenuta diciannove ore dopo, della quindicenne non c’era più traccia, restavano le sue ultime parole: “Lui sta arrivando, sta arrivando, sta arrivando”. In Repubblica ceca si protesta contro la corruzione, in Georgia contro le ingerenze russe, in Russia (in tantissimi) contro Vladimir Putin, recitando la Costituzione. Ogni piazza ha le sue ragioni e le sue ombre, ma se non fossimo sempre storditi dagli urlatori con i loro slogan triti, questa voglia di diritti e di rispetto dei diritti la chiameremmo effervescenza democratica, e la sentiremmo addosso come l’estate. (EuPorn segue nell’inserto I)

I corteggiamenti di palazzo hanno una destinataria quasi unica: Ursula von der Leyen, che continua il suo tour nelle capitali europee con il taccuino in mano. C’è chi dice che per la presidente della Commissione europea ci sia già la colonna dei buoni (che l’hanno voluta e votata) e quella dei cattivi (gli altri) e premi e punizioni andranno di conseguenza. Ma per ora la von der Leyen è alle prese con un problema più pratico: mantenere la sua prima promessa, che è quella di una Commissione paritaria, tanti uomini tante donne (sin da quando era ministro per la Famiglia in Germania, la von der Leyen si è battuta per le quote rosa, anche contro il volere del suo capo, Angela Merkel). Al momento l’equilibrio è precario. Su diciannove candidature pervenute, ci sono otto nomi di donna: uno è quello della stessa von der Leyen, altri tre più che candidature sono delle conferme: la danese Margrethe Vestager, la bulgara Mariya Gabriel e la ceca Vera Jourová. Poi ci sono l’estone Kadri Simon, la finlandese Jutta Urpilainen, la maltese Helena Dalli e la cipriota Stella Kyriakides (è la prima volta che Estonia, Finlandia e Malta propongono una donna). Il corteggiamento è appena iniziato e mancano ancora molti paesi all’appello, ma ogni volta la von der Leyen ripete che “i gruppi di lavoro misti sono quelli di maggior successo” e per favore, indicatemi un nome di donna. Così, affacciandosi di volta in volta nei vari palazzi di governo delle capitali europee – domani la presidente arriva a Roma – la von der Leyen cova una duplice speranza: la prima è speriamo che sia femmina, la seconda è il primato sulla Commissione uscente. Anche Jean-Claude Juncker voleva una Commissione paritaria, ma si è accontentato di otto donne su ventotto. Grandi progetti ad Atene. Non tutti i Parlamenti si svuotano come il nostro, anzi, ce n’è uno molto indaffarato: quello greco. Kyriakos Mitsotakis è stato eletto il 7 luglio, mettendo fine all’èra Tsipras. Già ha reimpostato le regole di stile, il vestito blu e la cravatta, un segnale per dire ai greci e all’Europa che tutto sarà diverso, non soltanto l’abito. Saranno tante le cose da discutere, come un nuovo piano di investimenti. Mitsotakis vuole dare allo stato uno spirito imprenditoriale e ha annunciato la riduzione dell’imposta sulla proprietà al 22 per cento a partire da agosto. Poi verrà abolita la brigata antifrode che non sarà più un elemento a sé ma verrà assorbita dal ministero delle Finanze. Infine c’è la questione del complesso Hellinikon, che il nuovo premier ha promesso di rilanciare in una settimana e qualcosa si sta muovendo, visto che il governo ha nominato viceministro dell’Ambiente un ex consigliere per lo sviluppo del gruppo Lamda, il maggiore azionista del complesso. Appena insediato Mitsotakis ha prestato giuramento sulla Bibbia, anche questo un modo per prendere le distanze dalla vecchia Grecia e subito ci ha tenuto a rassicurare i più tradizionalisti, promettendo di non rispettare il piano di Syriza di togliere ai sacerdoti lo status di dipendenti pubblici. Il premier ha promesso molto e i greci gli hanno creduto, su pensioni e stipendi e anche su come affrontare l’immi – grazione – già è stato eliminato il ministero dell’Immigrazione creato da Tsipras e integrato nel ministero per la Protezione dei cittadini – dovrà fare in fretta e agosto, si sa, è il mese perfetto per portarsi avanti coi lavori. Comeback kid. Il Wunderkind austriaco, Sebastian Kurz, prepara il suo ritorno in vista delle elezioni del 29 settembre. Finora è stato molto quieto, doveva far digerire il collasso prematuro del suo governo, dopo che i compagni di coalizione dell’estrema destra, l’Fpö, erano finiti nello scandalo dell’Ibiza – gate – il vicecancelliere Heinz-Christian Strache ripreso in un video girato a Ibiza mentre promette grandi affari con dei russi – trascinando giù tutto l’esecutivo. Ora però mancano sessanta giorni esatti al voto e il tempo delle scuse è finito. Consapevole degli equilibri dell’elettorato austriaco, il quasi trentatreenne Kurz ha smesso di escludere una seconda alleanza con l’Fpö, anche se ha posto una condizione: “Se dovessi guidare ancora l’esecutivo e dovessi farlo con l’Fpö, dal mio punto di vista Herbert Kickl non può essere nominato ministro”. Kickl era il ministro dell’Interno nel governo Kurz, gli aveva dato parecchi problemi, dalle liste di proscrizione dei media considerati non amici alla gestione dei servizi segreti che aveva allarmato le agenzie d’intelligence di tutto il continente: quando Kurz, in mezzo allo scandalo di Strache, ha annunciato il licenziamento di Kickl, tutti i ministri dell’Fpö si sono dimessi, consegnando il cancelliere alla fiducia del Parlamento che non è arrivata. Come ultimo atto da ministro, Kickl ha fatto l’ennesimo dispetto: ha abbassato – contro il volere di Kurz – il pagamento orario dei richiedenti asilo. Lo scontro non si è riassorbito, ma ora l’ex cancelliere, dopo queste settimane di silenzio, non vuole più parlare del passato: ha lanciato uno spot elettorale ed è partito per i comizi in campagna e in montagna. Conta su una virtù che lo caratterizza da sempre: la pazienza. Laddove molti leader sono divorati dalla fretta, lui ha sempre coltivato l’arte di saper aspettare: ora, in quest’estate di abboccamenti e di molte cose da sistemare, vuole sposarla con tutta l’ambi – zione possibile. Un governo per cinque. Anche il Belgio ha un gran da fare a mettere tutti d’accordo tanto che per rispettare il risultato delle elezioni parlamentari del 26 maggio ci vorrà una coalizione di cinque partiti e formarla non sarà semplice. Il re Philippe, capo dello stato, ha dato tempo fino a settembre, ha mandato i suoi emissari che sono tornati indietro con un nulla di fatto. Come fare a mettere d’accordo i nazionalisti delle Fiandre e la sinistra della Vallonia? Vista la confusione e vista la tendenza belga ai governi ballerini, la Nuova alleanza fiamminga, N-VA, che rispetto al 2014 ha perso 8 seggi, vuole cercare di tornare al potere per imporre una riforma delle istituzioni: un progetto di un sistema di tipo federale che riduca al minimo lo stato centrale. Ma per attuare questo programma sarebbe necessario innanzitutto formare un governo che abbia una maggioranza dei due terzi nella Camera dei deputati e in ogni caso i partiti di lingua francese hanno già detto che di avviare una nuova riforma delle istituzioni non se ne parla. Il partito dei Verdi, gli Ecolo, ha fatto sapere che non si siederà mai al tavolo con dei nazionalisti. Il re ha chiesto di trattare, ha invitato i partiti a parlarsi tra di loro e spera che alcune scadenze possano aiutare ad accelerare il processo: il bilancio da approvare; l’obbligo di designare il nome di un candidato per la Commissione Ue e la necessità di trovare un sostituto al primo ministro uscente Charles Michel che a dicembre dovrà prendere il posto di Donald Tusk al Consiglio europeo. Illiberali, missione compiuta. Qualche giorno fa, Viktor Orbán è andato al suo consueto appuntamento di mezz’estate in Transilvania in visita alla comunità ungherese, come fa da trent’anni a questa parte. Il suo discorso, che è come lo Stato dell’Unione ma in versione familiare e senza cravatta, è stata la celebrazione da parte del premier ungherese di una missione compiuta: siamo illiberali, ne siamo orgogliosi, gli altri ci odiano, ma noi sapremo combatterli. Lo abbiamo già fatto: “Abbiamo evitato che la guerriglia ideologica prendesse il sopravvento in Europa”, ha detto (e il suo capo della comunicazione, Zoltán Kovács, ha fatto un refuso nel livetweeting: ha scritto gorilla invece che guerriglia, ed è diventato un tormentone: non suonava male, bisogna dirlo, quel gorilla), e lo abbiamo fatto “bloccando i candidati di George Soros ovunque. Ovunque”, ha proseguito Orbán, celebrando il fatto che è stata nominata alla presidenza della Commissione “una madre di sette figli”, che evidentemente per l’Ungheria in collasso demografico è oltre che una garanzia un sogno. Ma la battaglia è ancora tutta da fare, perché l’Europa e l’occidente vanno aggiustati, soprattutto per quel che riguarda l’immigra – zione e l’economia. Le formule le conosciamo già, ma nella seconda parte del suo discorso Orbán ha voluto dare una forma filosofica al suo progetto di “trasformazione della nazione”, ha detto che l’idea che la democrazia possa solo essere liberale è stata imposta dai liberali stessi – “che sono persone non senza talento”, bontà sua – appicci – cando a chi la pensa diversamente l’etichet – ta di “illiberali”. “Tutto quello di cui abbiamo bisogno è trovare un’espressione che dia un significato positivo alla parola ‘illibera – le’ che suona tanto negativa”, ha detto il premier ungherese, ribadendo che la difesa dei confini e la difesa della cristianità sono il carburante di ogni forma di democrazia. Ci odiano perché abbiamo un’altra idea di mondo, ha concluso Orbán, felice di poter tornare sulla guerriglia ideologica che lui sta domando – l’illiberalismo è una missione compiuta, ha detto ritornando a Budapest – e sul classico vittimismo di chi vuole prendere dai liberali soltanto quel che conviene: i fondi europei essenzialmente. Che dipendono anche dalla permanenza nella principale famiglia politica europea, quella della madre dei sette figli. La Ze Academy. Una maggioranza così il Parlamento ucraino non l’aveva mai vista. 254 deputati, tutti del partito di Volodymyr Zelensky che, dopo aver vinto le elezioni presidenziali in aprile, ha stravinto alle politiche. Ma nella Rada, il Parlamento ucraino, è entrato un po’ di tutto e sulla preparazioni dei deputati di Sluha Naradu (Servitore del popolo) ci sono molti dubbi. Mandiamoli a scuola, ha pensato Zelensky, e all’inizio di questa settimana tutti i deputati sono andati a Truskavets, a Rixos Prykarpattya, un ex sanatorio sovietico, a lezioni di economia e politica governativa. Le conoscenze dei deputati sono state affidate a Timofei Milonov, presidente della School of Economics di Kiev e vicedirettore della Banca nazionale ucraina, che su Facebook nei giorni scorsi aveva raccontato il suo piano di sottoporre i parlamentari a cinque sessioni di tredici ore “intense, dure, complete”, per spiegare tutto, dalle infrastrutture alla sicurezza, dall’economia alla difesa. La sessione è iniziata con un sondaggio per valutare le capacità e le conoscenze dei deputati, un’autovaluta – zione come hanno detto i giornalisti presenti. Oliver Carroll dell’Independent, non potendo assistere alle lezioni (i deputati dovevano sentirsi liberi e quindi lontani dagli sguardi dei giornalisti), ha intervistato i deputati all’uscita. E tutti concordano su un punto: “Ciò che la gente non capisce è che stiamo facendo la storia ucraina”. Un pollo per svoltare l’estate. Boris Johnson, neopremier britannico, non vuole fare nessun tour europeo: finché non si rimette mano alle carte del divorzio, lui starà a Londra. Gli europei sono molto offesi – Michel Barnier, caponegoziatore della Brexit per l’Ue, è da molti mesi anche distratto: prima sperava addirittura di diventare presidente della Commissione, ora il suo nome circola tra i commissari che la Francia deve ancora indicare alla von der Leyen, ma non essendo femmina teme di non avere troppe chance – ma anche gli inglesi non sono particolarmente tranquilli: Johnson non è un tipo rassicurante nemmeno per i suoi collaboratori e fan. Ma poiché è estate e la Brexit è un affare autunnale, poiché le lacrime per questo divorzio sembrano finite, da giorni i giornali e le tv inglesi sono piene di polli. Anzi di un pollo: il celebre Mirror Chicken, che è un po’ come il Gabibbo ma non denuncia nessuno. La tradizione del Mirror Chicken è nata nel 1997, il quotidiano Mirror prese un suo giornalista, gli mise addosso un costume da pollo giallo e rosso e lo mandò a rompere le scatole ai politici, nella fattispecie ai laburisti che erano andati al potere dopo molti anni con Tony Blair (in realtà lo scontro più chiacchierato avvenne con un conservatore). Negli anni ha avuto più o meno popolarità, ma in questi giorni è tornato di moda perché tra i collaboratori più stretti di Johnson ce n’è uno, Lee Cain, che era stato infilato nel costume da pollo dal suo direttore ed era andato a caccia del politico del momento, l’ex cancelliere George Osborne (che dice oggi di non essere mai stato “catturato”). Tom McTogue, che oggi scrive sull’Atlantic ma ha lavorato in molti giornali britannici, si è costituito: anche io sono stato messo nel costume da pollo, dove fa un caldo tremendo tra l’altro, ed è andato a caccia di politici: l’apice della sua carriera da Mirror Chicken l’ha raggiunto quando ha chiesto a Kenneth Clarke, veterano dei Tory, se poteva prenderlo in braccio e farsi fare una foto (“No, you bloody can’t”). Ma la storia del pollo è servita a McTogue per raccontare la cultura irriverente e partigiana dei giornali britannici – esplicita, giocosa, incomprensibile agli stranieri – e ancor più un tratto culturale imprescindibile: il divieto di essere troppo seri. Oggi questo divieto suona quasi come una condanna nel Regno Unito che si perde nelle fantasie e nelle battute fini a se stesse, ma è un’altra di quelle cose belle che abbiamo smesso di comprendere quando parliamo degli inglesi. Passerà anche questa nostalgia, ne siamo certe. Tutta Visegrád balla. L’estate è stagione di festival, c’è chi la passa danzando e chi per rincorrere la musica si sposta a est. E’ bizzar – ro, ma i tradizionalisti di Visegrád hanno tra i migliori Festival musicali di ogni estate, l’Ungheria ha lo Sziget e la Polonia il Pol’an – d’Rock. Ai partiti di governo queste kermesse estive non piacciono, troppa disinibizione, tanti turisti, tanta opposizione. Soprattutto i polacchi hanno fatto del festival che inizia oggi un’oasi da cui tener lontana la retorica nazionalista del PiS, il partito che governa la nazione dal 2015, in cui parlare di democrazia, di diritti e in cui ballare. Per questo il PiS ha cercato di contrastare l’evento, che è organizzato da Jerzy Owsiak, creatore di Wielka Orkiestra Switecznej Pomocy (La grande orchestra della beneficenza di Natale), che ogni anno riempie le città polacche di cuoricini rossi. L’evento è gratuito, ci saranno anche workshop e conferenze e alcuni media hanno cercato di generare il panico, parlando dell’alta possibilità che in quei giorni a Kostrzyn, città in cui si svolge il festival, vengano commessi crimini sessuali. Gli avventori sono molti, nonostante l’iste – ria, i polacchi hanno voglia di ballare e di ascoltare musica, di sentire l’estate, lontani dal PiS. Anche noi andiamo a sentire l’estate, ci ritroviamo il 5 settembre, con i cuori rossi.

Foglio p.I

6 Centro sinistar pd

• Mosse di Franceschini, laboratori possibili, primarie sospese, intese sospette. La denuncia dell’ex segretario del Pd siciliano Faraone ci spiega perché in Sicilia l’incubo Pd-M5s è già realtà Roma. La Sicilia potrebbe essere di nuovo “un laboratorio”, stavolta dell’al – leanza Pd-Cinque stelle. “E’ uno dei motivi per cui sono stato cacciato dalla segreteria regionale”, dice al Foglio il senatore renziano Davide Faraone, ex segretario del Pd siciliano, rimosso da poco e sostituito da un commissario che è invece sostenitore del dialogo con i grillini, Alberto Losacco, molto vicino a Dario Franceschini. “Io credo che in atto ci sia una restaurazione”, dice Faraone. “Temo che sarò l’ultimo segretario eletto con le primarie”. Una “restaurazione” che si vede anche a livello nazionale, sostiene, con la distinzione tra candidato premier e segretario, e anche da vari indizi. Il più grosso è il tentativo di mettere a sistema la corrispondenza d’amorosi sensi fra Pd e Cinque stelle. “Io sono stato eletto segretario proprio sulla base di un’idea radicalmente alternativa al M5s e alla Lega contro qualsiasi ipotesi di accordo. Non è un caso che io sia stato buttato fuori dalla segreteria regionale con un voto della commissione garanzia proprio nei giorni in cui Franceschini faceva l’intervista per fare l’accordo con i Cinque stelle e proprio quando i suoi uomini in Sicilia facevano dichiarazioni che andavano in quella direzione”. Il riferimento è a un’intervista al deputato franceschiniano Losacco, a Formiche, poco prima di essere nominato commissario: “Guardo con grande attenzione, lo diceva anche Franceschini, a personalità come Conte e Fico che in questi mesi hanno avuto la forza e il coraggio di prendere posizioni in alcuni casi diametralmente diverse da quelle di Salvini e Di Maio. Non parlerei genericamente di 5 Stelle, ma mi concentrerei su quelle personalità che hanno dimostrato di saper condividere con noi alcuni punti politici rilevanti. Penso alla conferenza stampa di Conte sui rapporti con l’Europa o ad alcuni interventi di Fico sull’immigrazione o sui temi sociali”. E ancora: “Creare muri insormontabili tra noi e i 5 Stelle in questa fase non mi sembra una scelta politica lungimirante”, ha detto Losacco. Ma non è l’uni – co: anche il capogruppo nell’Assemblea regionale siciliana Giuseppe Lupo ha auspicato un’intesa: “Il dialogo è difficile, spesso possibile e ritengo anche che sia necessario”, ha detto in un’intervista a Live Sicilia. Ecco, dice Faraone, “io sono vittima di un’idea politica che è diversa da quella che intendevo praticare”. Dunque oggi in Sicilia “abbiamo un partito commissariato che non farà le primarie per misurarsi su una linea che rischia di essere quella dell’accordicchio. E quello che sta succedendo in Sicilia sa di questione nazionale. Adesso che è stato rimosso l’ostacolo Faraone, non in maniera democratica ma per scelta scellerata della commissione di garanzia, è chiaro che si apre un varco a ipotesi di questo tipo. Io comunque metterò in campo tutti gli strumenti politici possibili a mia disposizione per contrastare questo disegno, anche se non sono più segretario. Segretario, ripeto, eletto con le primarie. Io sono nato con le primarie, ci ho costruito il mio rapporto con Matteo Renzi. Sono un elemento cardine del Pd. Adesso dunque vorrei capire che cosa ha in testa questo partito, visto che vedo in atto una restaurazione pericolosa”. Ma le è venuta voglia di lasciare il Pd? “Intanto ho riconsegnato la tessera a Zingaretti, anche se rimango all’interno del gruppo parlamentare del Pd”. Una posizione condivisa anche dall’ex segretario Renzi, che in un’intervista a La Sicilia ha detto di non essere disponibile a stare “in un Pd che fa accordi con i Cinque stelle”. (da)

6 Berlusconi cd

Il Giornale intervista Berlusconi. «Lancio l’Altra Italia dei veri italiani Non sarà un partito ma la casa di chi salverà il Paese»

L’ex premier: «Una federazione di società civile, forze di centro-destra e associazioni contro grillini e sinistra» E su Forza Italia blocca Toti: «Primarie solo per gli iscritti»

«Ridiamo un centro ai responsabili» Il disegno: «Un nuovo polo moderato e innovativo ispirato a valori liberali e cristiani»

Giornale p.2

CAMBIARE IL PARTITO MA SENZA SVENDERLO

Sallusti

Giorfnale in prima

La mossa per liberare Fi dalla palude delle regole Il leader vuole ridare appeal all’area moderata E anche il tavolo previsto per oggi appare superato

Giornale p.4

Il Cavaliere lancia una federazione di centro. Ma potrebbe essere una strategia per distrarre dal caos del partito Sfida al governatore ligure: credevo fosse diverso, ma non ha il quid. Anche la coordinatrice azzurra tentata dall’addio Toti si dimette, la Carfagna ci pensa E Berlusconi guarda oltre Forza Italia

Faccio appello a tutti i soggetti che non si riconoscono in questa situazione e alle realtà civiche

L’attuale coordinatore potrebbe creare un movimento di supporto alla Lega

Stampa p.7

«Altra Italia», Berlusconi lancia la federazione di centro L’appello del leader: non sarà un partito nuovo, chiamo a raccolta tutti i moderati, liberali e cristiani

Corriere p.2

L’ex premier e la federazione dei moderati Berlusconi lancia “L’altra Italia” e vuole Carfagna alla guida di Fi

Oggi al tavolo delle regole l’ex ministra e Toti potrebbero dimettersi, con motivazioni diverse, da coordinatori nazionali

Repubblica p.11

7 Meloni

«Mesi di angoscia per uno stalker Mi diceva: porterò via tua figlia» Giorgia Meloni(FdI) e l’arresto delsuo persecutore a Roma: «Denunciate sempre»

È stato arrestato dalla polizia a Trentola Duecenta (Caserta), l’uomo accusato di atti persecutori, tramite post e sms sui social, ai danni della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ● L’uomo è ai domiciliari, con divieto di ritorno per due anni nella provincia di Roma

Corriere p.18

7 Moto d’acqua

Salvini jr sulla moto la Procura aspetta le relazioni della scorta

Di Maio assolve l’alleato l’Ordine dei giornalisti vuole le scuse dopo le minacce

Repubblica p.8

Salvini, aspettiamo le scuse

di Stefano Cappellini

È nota la passione di Matteo Salvini per le dirette Facebook. Rinomata anche la sua capacità di svicolare, non solo fisicamente, da critiche e contestazioni. Ieri, in uno dei suoi tanti video social, si chiedeva se i media daranno conto del suo zelo nell’impedire un approdo alla nave Gregoretti o se invece preferiranno occuparsi – così ha detto – di «sport nautici». Il riferimento è ovviamente al video di Valerio Lo Muzio che ha documentato ieri su Repubblica i giri del figlio sedicenne di Salvini sulla moto d’acqua della polizia in servizio a Milano Marittima, dove il vicepremier trascorre le vacanze. L’accostamento tra le due questioni a scopo diversivo è senz’altro più spericolato delle ben protette escursioni acquatiche della famiglia. Mancano, soprattutto, le scuse al nostro giornalista, intimidito dalla sua scorta («Ora sappiamo dove abiti», gli è stato detto dopo il controllo dei documenti) per non aver smesso di riprendere la scena. Salvini ha ammesso di aver compiuto un “errore da papà”, faccia un passo in più: si scusi da ministro con Lo Muzio.

Repubblica p.24

7 Moscopoli

Non solo Moscopoli, anche i soldi del Marocco “Savoini era il ministro degli Esteri della Lega”

Parla Giordanengo il dentista amico del faccendiere: “Quel pranzo con Salvini”

La pista che dal Marocco porta all’hotel Meridien Etoile di Parigi, fa una tappa a Milano. È il 28 novembre del 2015, sono passate poche settimane dalla missione della Lega a Rabat, per incontrare i ministri del governo marocchino. E manca ancora qualche mese all’incontro, nella primavera del 2016, all’hotel parigino, dove – come ricostruito in un’inchiesta pubblicata ieri da Il Fatto Quotidiano – Gianluca Savoini e un altro italiano avrebbero ricevuto 150 mila euro in contanti da Mohammed Khabbachi, emissario di re Mohammed VI e delegato alle relazioni europee. L’occasione dell’appuntamento è una partita di calcio: Milan–Sampdoria, finita 4 a 1 per la squadra di casa. «A me il calcio non interessa, ma decisi di andare perché mi dissero che Khabbachi era un grande tifoso e veniva apposta in Italia per vedere la sua squadra. C’eravamo io, Khabbachi e Savoini» rivela Claudio Giordanengo, dentista di Paesana, nel Cuneese, leghista di lunghissimo corso e candidato alle comunali di Saluzzo a maggio, tra le polemiche per aver ricordato sul santino elettorale le visite gratuite nel mese della prevenzione dentale.

Racconta Giordanengo: «Matteo Salvini non venne allo stadio, ma lo incontrammo a pranzo il giorno prima. Con lui c’eravamo Khabbachi, Savoini ed io, al ristorante Orti di Leonardo. Fu una cosa veloce, perché Salvini aveva poco tempo. Non si parlò di affari – chiarisce – ma non so se dopo la partita Khabbachi si sia fermato a Milano per altre riunioni. È stata l’ultima volta che l’ho visto». Giordanengo ricostruisce quei mesi dell’autunno del 2015 «che – ammette – dopo la questione della Russia capisco possano far sospettare un certo parallelismo, ma io non ho elementi per dirlo». Il pensiero va ancora a quella serata a San Siro: «Avevo pensato che ci voleva una bella passione per partire dal Marocco solo per vedere una partita. Magari non me ne rendevo conto e c’erano altre finalità, ma non posso dirlo». In quei mesi Giordanengo è nel cerchio magico della Lega. Era stato lui – con Massimo Gerbi, figlio dell’ex patron del Toro Calcio, Mario Gerbi, e Kamal Raihane, agente calcistico – a organizzare la missione del Carroccio alla corte di re Mohammed. «Era un po’ come quando Borghezio, al grido di “Roma ladrona”, si candidò nella Capitale – ricorda – volevamo andare in Marocco a parlare di immigrazione per smentire l’idea della Lega razzista e perché quel Paese aveva problemi simili ai nostri, con molte persone in arrivo dal sud del Magreb. Aspiravamo a diventare forza di governo – aggiunge – Salvini era solo europarlamentare e segretario di una forza politica in recupero». A quell’epoca Giordanengo non è un iscritto al Carroccio. Dal 1995 non ha più la tessera, ma resta «portatore sano di leghismo», legato a Mario Borghezio, e amico «dal 1997» di Savoini, «con il quale ho contatti settimanali perché è iscritto a una mia rubrica religiosa su Telegram». A quell’epoca, prosegue Giordanengo «Savoini era considerato una sorta di ministro degli Esteri di Salvini e si era preso la paternità di quella missione, anche perché io non ero nella struttura della Lega». Nei tre giorni a Rabat, Salvini e i suoi incontrano sei ministri e il presidente del parlamento. «Lo scopo della missione era solo politico». Dopo il viaggio in Marocco e la partita del Milan, Giordanengo non sa più nulla di missioni, né rapporti con il paese magrebino. «Non sapevo nulla nemmeno dell’incontro di Parigi, quello dei soldi finiti nella turca. All’incontro a Parigi tra Savoini e Khabbachi me l’ha detto un imprenditore di Bergamo – riferisce – che mi ha contattato due settimane fa». La telefonata gli è parsa misteriosa. «Mi ha raccontato di aver ricevuto l’incarico di preparare una nuova missione in Marocco, sempre per Savoini, che poi non si è fatta. Aveva sostenuto delle spese e voleva recuperarle. Quando però gli ho chiesto il nome dell’azienda, si è negato. Non mi ha convinto e non l’ho più sentito». E Savoini? «Da quando è esploso lo scandalo Moscopoli non l’ho più sentito».

Repubblica p.8

7 Gregoretti

Nave Gregoretti, Macron accusa Salvini Il francese: noi fedeli ai principi Ue. Ieri sbarcati i migranti, andranno in 5 Paesi. E si apre un nuovo caso Sea Eye

Stampa p.6

Augusta Sì allo sbarco grazie ai Paesi Ue che l’Italia snobba

Profughi accolti negli stati partecipanti al vertice disertato dal ministro dell’Interno

Repubblica p.6

8 Siri

Chiesta l’autorizzazione per accedere al personal computer sequestrato Nei guai anche Luca Perini, capo dello staff dell’ex sottosegretario Milano, indagato il leghista Siri I pm al Senato: ci serve il suo pc

Stampa p.4

8 ndrangheta

Politici a servizio della ’ndrangheta Coinvolti consiglieri di Pd e FdI

Arrestate 17 persone L’ex assessore intercettato si paragonava a Totò Riina “Io non li sciolgo nell’acido li impicco al mio olivo”

accuse di associazione mafiosa e corruzione

Stampa p.7

Clan e politici, arresti in Calabria Consigliere di FdI nellemani della cosca che gli uccise il padre.Nell’inchiesta anche il capogruppo pd

In carcere il presidente dei costruttori di Ance, Francesco Berna e suo fratello Demetrio

Il ❞ dentista intercettato «Sai qual è la differenza tra me e Riina? Che Riina li squaglia nell’acido, io li appendo a un ulivo e con una scimitarra li taglio a pezzi e li do al cane».

Corriere p.16

Quei politici al servizio dei clan Arrestati consiglieri Pd e FdI

Il blitz contro la cosca Libri un vero terremoto per la politica e l’imprenditoria

Alessandro Nicolò fece una cena dove c’era anche Berna, tutti i ragazzi della cosca… incredibile… sembrava un summit, non una riunione elettorale…

Sai qual è la differenza tra me e Riina? Che Riina li squaglia nell’acido, io li appendo e con una scimitarra ogni tanto gli taglio un pezzo e lo do al cane

Repubblica p.16

9 Gozi

GIORGIA MELONI La leader FdI chiede di togliere la cittadinanza all’ex Pd ora nello staff dell’Eliseo “Sembra che la Francia avesse con lui un debito da saldare. Ma noi non siamo una loro colonia” “Gozi ha tradito l’Italia, è un venduto Potrebbe dare dossier sensibili a Parigi”

Vogliamo sapere se su certe trattative con la Francia l’Italia avrebbe potuto ottenere di più

Abbiamo presentato interrogazioni per sapere di quali informazioni si è occupato in passato

Stampa p.6

Gozi: “A Parigi collaboro Roma mi vuole apolide”

Roma — «Ma che vuole Di Maio? Non sono né ministro, né sottosegretario, non ho giurato sulla Costituzione francese». Sandro Gozi, a cui il vicepremier M5S non esclude di revocare la cittadinanza italiana dopo che l’ex sottosegretario pd è diventato responsabile per gli Affari europei del governo Macron, parla di «polemica grottesca», di «castroneria giuridica, che evoca i periodi più bui della storia. A Parigi sono sbalorditi. La mia collaborazione è vista come un segnale di amicizia. A Roma invece mi vogliono degradare ad apolide». Va detto che Di Maio è arrivato buon secondo. La prima a lanciare il sasso nello stagno è stata Giorgia Meloni sulle colonne del Giornale. Il sospetto: Gozi potrebbe fornire ai francesi informazioni rilevanti di cui è venuto a conoscenza da sottosegretario. Da qui l’idea di togliergli la cittadinanza, sulla base della legge 91 del 1992. Recita l’articolo 12: «Il cittadino italiano perde la cittadinanza se ha accettato un impiego pubblico o una carica pubblica da uno Stato cui non partecipi l’Italia, se non ottempera all’intimazione del governo di abbandonare l’impiego». «È tutto contestabile», taglia corto Gozi. «Bassanini e Monti ebbero ruoli simili nella commissione per le riforme di Attali. De Gasperi è stato parlamentare austriaco». «Con i francesi – insiste Di Maio – abbiamo «molte cose in comune, ma anche interessi confliggenti». Alle Europee Gozi, 51 anni, ex assistente politico di Prodi, ora iper renziano, si è candidato con Renaissance, la lista sostenuta da Macron, risultando tra i non eletti. Sarà ripescato in caso di Brexit. La sua consulenza è un’idea del primo ministro Édouard Philippe. Quanto guadagnerà? «Lo definiremo oggi», dice. Il Pd lo ha difeso, ma l’europarlamentare Carlo Calenda si è smarcato. Condivide i timori di Meloni e Di Maio: «Non si entra in un governo straniero, conoscendo posizioni e interessi anche riservati non sempre coincidenti», ha twittato. Replica di Gozi: «Carlo ha perso un’occasione per tacere».

Repubblica p.8

Gozi (Pd) è una minaccia per l’Italia non può stare nel governo francese 1-n-__ -‘H-5 I Ila. Come sottosegretario di Renzi e di Gentilom evenuto a conoscere notizie riservate che ora riversera a Macron, impegnato invari bracci di ferro con Roma su cantieristica navale, spazio e Difesa _ Persino il suo compagno di partito Calenda si è scandalizzato Veritò p.2

10 Bibbiano

Affidamenti, onlus contro Di Maio “Ingiusto colpevolizzarci tutti” Le comunità: il caso Bibbiano non deve far credere che svolgiamo male il nostro compito

27000 I bambini vulnerabili che ogni anno in Italia trovano una sistemazione

MARIA EDERA SPADONI “Rappresenta una salvaguardia per i minori” La 5S vicepresidente della Camera “Guai a sfiduciare questo sistema”

Il nuovo disegno di legge Pillon sulla separazione dovrà tener conto delle esigenze dei figli

Stampa p.8

di Stefano Cirillo LASOCIETÀSMARRITA COM’ÈDIFFICILEACCERTARE GLIABUSI SUI BAMBINI

Caro direttore, la tesi del suo opinionista Ernesto Galli della Loggia che gli abusi appartengano a un moderno fenomeno di «psicologizzazione della realtà» risulta a dir poco sorprendente. Quando il vescovo Clemente Alessandrino nel Secondo Secolo invitavaisuoifedeli a non recarsi nei bordelli perché avrebbero potuto commettere incesto sulle figlie e sui figli che avevano abbandonato, parlava di un comportamento socialmente diffuso, non di un’interpretazione psicologica. Quando Jean-Jacques Rousseau nelle Confessioni scriveva che non si vergognava di aver abbandonato tutti i figli che aveva messo al mondo, non proponeva una spiegazione psicologizzante della sua condotta, ma denunciava la propria incapacità a fare il genitore. Oggi la crescente consapevolezza dei diritti dei bambini espone la violenza nei loro confronti alla riprovazione collettivael’essere un buon genitoreèsentito come un dovere sociale. Quindi chi non è in grado di assolverlo se ne vergogna: se maltrattaipropri figli, li trascura, ne abusa, lo nasconde e non riesceachiedere aiuto. Per questo motivo negli ultimi mesi in Italia sono stati uccisi sette bambini dai propri genitori, isolati, spesso lontani dalle loro famiglie d’origine e dalle loro comunità, e incapaci appunto di chiedere aiuto. Per questo motivo il mio paziente che ha abusato una trentina di volte della propria figlia di 11 anni lo ha negato per tre gradi di processo, confessandolo tra le lacrime solo nelle sedute di psicoterapia, di fronte alla figlia che aveva accusato di essere una bugiarda (anche inuna lettera indirizzatale dal carcere e ovviamente nonconsegnatale dagli educatori della comunità). Per questo sono nati i servizi ditutela,per questo lavorano – spesso in solitudine e sopraffatti dal sovraccarico–iservizi sociali. I quali certamente non allontaneranno mai, in un Paese civile com’è ancora l’Italia, un bambino per le difficili condizioni economiche dei suoi genitori, ma solo se corre un grave pericolo perla sua vita e perla sua crescita, una volta falliti tutti gli altri interventi di protezione. Psicoterapeuta, presidente del Comitato scientifico del Centro per il bambino maltrattato (Cbm) Il Melograno, Milano *** Sirassicuri il presidente Cirillo, non sono Barbablù. Egli ha letto davvero male il mio articolo se ne ha dedotto che secondo me gli abusi sui minori non esistono, essendo solo la manifestazione di un «moderno fenomeno di psicologizzazione di massa». In questione qui non sono gli abusi, caro presidente, sono i metodi per accertarli. E la terribile vicenda di Bibbiano di questo ci parla: del fatto che attraverso sistemi d’indagine di natura psicologica,rivelatisi(in questo come in non pochi altri casi:ripeto: in non pochi

altri casi) erronei, e per giunta facilmente manipolabili da operatori criminali, si possa facilmente arrivare alla conseguenza supremamente disumana di togliere dei bambini ai propri genitori innocenti. Lei, caro Cirillo, su questo doveva pronunciarsi. E mi lasci aggiungere una cosa: l’esempio che lei porta del padre abusatore che vergognandosi dell’accaduto non confessa perché «non riesce a chiedere aiuto», e solo dopo il lungo trattamento psicologico da lei somministratogli, alla fine crolla, non fa che confermare i peggiori sospetti su panorami, diciamo così terapeutici, per nulla rassicuranti. Ernesto Galli della Loggia

orriere p.24

10 Carabiniere

Cosa non torna nell’inchiesta. Dubbisulle relazioni diservizio I magistrati acquisiscono i turni Sideveverificarechierainpiazzalanottedeldelitto.«Ancheduemilitariinsellaaunamoto»

Sarà ascoltato il maresciallo Sansone: aveva richiamato diversi sottoufficiali

Corriere p.11

Il mediatore della cocaina “Mai parlato di magrebini”

Brugiatelli dà una versione diversa rispetto all’Arma E sulla chiamata al 112 “Mi minacciavano”

Il pusher “Quella notte i carabinieri ci dissero: state tranquilli non cerchiamo voi”

Non avevo niente, ma non mi hanno nemmeno perquisito Per questo ho pensato subito che non fosse un’operazione antidroga

Repubblica p.12

La chat con lo scatto partita per sbaglio E l’Arma blinda il Reparto operativo

Messaggero p.8

Il vicebrigadiere era senza pistola però non si e ammazzato da solo. Certa stampa insiste nell’addossare colpe all’Arma o al militare defunto, come se fosse vittima di se stesso e dei colleghi. Invece è stato pugnalato 11 volte mentre tentava di fermare due ragazzi strafatti e pericolosi Belitro Verita p.7

10 Fast food

Il Mibac blocca il fast food alle Terme romane

kLa campagna di “Repubblica” Sopra, una pagina di Repubblica dedicata al cantiere del fast food accanto alle Terme di Caracalla A sinistra il San Francesco di Caravaggio custodito a Roma, a Palazzo Barberini: doveva essere prestato al Giappone per una mostra itinerante. In basso, il ministro Alberto Bonisoli; nella foto grande, il cantiere a Caracalla

Repubblica p.29

10 Bibbiano

ESTERI

1 Libia

Sulla Libia nuovo sgarbo di Salvini a Trenta

La proposta forse è stata «indecente». La risposta è stata nefasta. Il risultato? Al tavolo che il premier Conte aveva convocato martedì a Palazzo Chigi per fare il punto sulla Libia si sono presentati i capi delle agenzie di intelligence, il premier e il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni. Neppure uno dei due ministri titolari del dossier: né Salvini né Elisabetta Trenta (Difesa) che aprono così in modo conclamato l’ennesimo fronte di crisi nella maggioranza di governo. Lo sgarbo è stato a doppio senso. Martedì era prevista la riunione a Palazzo Chigi. Lunedì Salvini fa sapere tramite la propria segreteria che non potrà essere presente. Delega, al suo posto, due uomini di fiducia. «Parteciperanno a detta riunione – si legge nella mail inoltrata a Palazzo Chigi lunedì pomeriggio – l’onorevole Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno, e l’onorevole Raffaele Volpi, sottosegretario alla Difesa. Entrambi sono già stati contattati e hanno confermato la presenza». Messa così sembra una comunicazione ordinaria. Il diavolo è sempre nei dettagli. E questa volta il dettaglio è che Volpi, sottosegretario alla Difesa, viene inviato ad un tavolo dove siede la legittima titolare nonché suo superiore in linea gerarchica, il ministro Trenta. Che s’arrabbia – non poco – e martedì mattina spedisce il Capo di Gabinetto, il generale Serino, nell’ufficio di Volpi per comunicargli che «il ministro Trenta non ritiene opportuna la sua presenza alla riunione». Così il ministro 5 Stelle caccia il suo sottosegretario leghista da un tavolo importante a cui era stato inviato dal segretario politico della Lega. Da mesi Elisabetta Trenta e Matteo Salvini si stuzzicano a vicenda: sui porti, sui migranti, sulle navi militari in mare (che Trenta vuole ma Salvini no e quindi non salpano). Ora c’è anche il sospetto che la ministra tratti con la presidente Ue Ursula von der Leyen, con cui è molto amica, per diventare commissaria. All’Immigrazione per giunta. Soffiando il posto alla Lega. Che risponde chiedendo il rimpasto: Volpi al posto di Trenta. Quello che conta è che a quel tavolo sulla Libia, un grosso problema per l’Italia, non si è presentata neppure la ministra Trenta.

Stampa p.5

2 Bin Laden

la rivelazione dell’intelligence americana diffusa dal network Nbc Morto Hamza, il figlio di Osama bin Laden Per gli Usa era il vero leader di Al Qaeda

Stampa p.10

L’annuncio dall’America, ucciso ilfiglio diBin Laden «Noi parte dell’operazione» Hamza aveva più volte minacciato di attaccare gli Stati Uniti Mesi per verificare la morte, mistero sulla data e sul luogo

Corriere p.12

“Morto Hamza, figlio di Bin Laden” Erede designato del nuovo terrore

Trent’anni, secondo gli Stati Uniti era pronto ad assumere la guida di Al Qaeda Sulla sua testa c’era una taglia da un milione di dollari

Repubblica p.14

3 Brexit

Ponti-giardino, cannoni-acqua Così Boris dice addio al rigore

La tendenza a fare spese costose (e inutili) è costante nella carriera del premier Il totale degli impegni, 50 miliardi di sterline all’anno, va ben oltre il dovuto alla Ue

L’austerità non è nello stile di Boris Johnson. Appena insediato, il nuovo premier britannico ha fatto una netta inversione di marcia rispetto al rigore degli ultimi dieci anni di Governo conservatore, spingendo l’acceleratore sulla spesa pubblica e promettendo tagli alle tasse e più soldi a tutti, dagli ospedali alle scuole alla polizia. Johnson si prepara a demolire dieci anni di sforzi dei cancellieri Tory per ridurre il deficit di bilancio dal 10% del Pil del 2010 all’attuale 1,1% del Pil. Nella strategia del premier però, di fronte all’imperativo di attuare Brexit e alla necessità di mantenere il potere, i conti pubblici passano in secondo piano. Esimi professori e prestigiosi istituti di ricerca hanno fatto i loro calcoli e hanno concluso che le promesse di Johnson, se mantenute, costerebbero circa 50 miliardi di sterline all’anno, ben oltre il cosiddetto “conto del divorzio” da Bruxelles che il premier minaccia di non pagare. Farebbero “esplodere il debito pubblico”, secondo l’Office for Budget Responsibility (Obr). Qualcosa non torna. Nella carriera inusuale di Johnson, però, caratterizzata da convinzioni ondivaghe e punti di vista mutevoli, forse l’unica costante è stata la tendenza a fare promesse grandiose e a impegnarsi in progetti troppo costosi. Quando era sindaco di Londra, Johnson era stato criticato per i suoi “vanity project”, progetti inutili in alcuni casi e irrealizzabili in altri, che sono costati quasi un miliardo di sterline, 940 milioni per la precisione. Si era innamorato ad esempio dell’idea di un nuovo aeroporto su un’isola nell’estuario del Tamigi, commissionando studi di fattibilità e un progetto di Foster & Partners costati oltre 5 milioni. Altrettanta passione aveva messo nel promuovere il progetto del Garden Bridge, un ponte-giardino pedonale, costato 52 milioni e poi abbandonato dal suo successore Sadiq Khan perché «inutile». Le bici in affitto note come “Boris Bike” sono costate 225 milioni di sterline e, al contrario delle bici parigine, non sono una fonte di reddito ma costano tuttora milioni ogni anno al Comune di Londra. Costosi ma bellissimi gli 800 autobus rossi a due piani disegnati dall’architetto Thomas Heatherwick, costati 321 milioni di sterline, mentre la teleferica da 24 milioni che unisce le due sponde del Tamigi viaggia quasi vuota. Il sindaco Johnson aveva anche voluto comprare tre cannoni ad acqua Wasserweffer, che la polizia avrebbe dovuto usare in caso di nuovi scontri di piazza come nel 2011. Peccato che l’allora ministro dell’Interno, tale Theresa May, avesse prontamente bandito l’utilizzo di cannoni ad acqua. Il Comune di Londra li ha rivenduti lo scorso anno con una perdita netta di 300mila sterline. Le spese passate del sindaco Boris diventeranno insignificanti in confronto alle spese future del premier Johnson, se manterrà le promesse fatte in campagna elettorale. Le riforme fiscali annunciate – alzare la soglia alla quale scatta l’aliquota massima del 40% da 50mila a 80mila sterline e la soglia alla quale si iniziano a versare contributi – costeranno 20 miliardi di sterline all’anno, secondo l’Institute for Fiscal Studies. Un altro miliardo sarà speso per reclutare 20mila poliziotti, 5 miliardi saranno investiti nelle scuole, 3,6 miliardi iniziali per portare la banda larga superveloce nelle “zone dimenticate” del Paese. Questa settimana nel suo primo viaggio da premier ha promesso 300 milioni per sostenere le economie di Scozia, Galles e Irlanda del Nord. La convinzione di Johnson è che i tagli alle tasse rilancerebbero l’economia e quindi porterebbero a un aumento degli introiti fiscali. L’impatto negativo di “no deal” però vanificherebbe tutti i presunti benefici. Le previsioni ufficiali dell’Obr sono di una recessione in caso di hard Brexit. L’altra convinzione del premier, in questo caso giustificata, è che le sue promesse sono popolari. Dopo dieci anni di tagli la gente è stanca di austerità e lieta di sentir parlare di aumenti della spesa pubblica, conditi dall’insopprimibile ottimismo di Boris Johnson che tanta parte ha giocato nella sua vittoria. Come un grande architetto Johnson ha tracciato il disegno. Spetta ora agli apprendisti di bottega riempire gli spazi vuoti, e fare i calcoli necessari per trasformare lo schizzo in realtà.

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Anche per Johnson l’Irlanda resta l’ostacolo più difficile La terza tappa del primo viaggio da premier di Boris Johnson è stata la più difficile. Dopo Scozia e Galles, il premier britannico ha visitato ieri l’Irlanda del Nord e incontrato i leader politici, tentando invano di rilanciare i negoziati per un nuovo Governo. L’Irlanda del Nord è senza un Governo autonomo da oltre due anni in seguito a contrasti tra i partner della coalizione, i repubblicani di Sinn Fein e gli unionisti del Dup. Londra non vuole infiammare la situazione tornando a imporre il suo “dominio diretto”, ma Brexit complica le cose. La leader di Sinn Fein, Mary Lou McDonald, ieri ha avvertito che un referendum sulla riunificazione dell’Irlanda sarà inevitabile se la Gran Bretagna lascerà la Ue senza un accordo. Mentre Arlene Foster, leader del Dup e alleata di Johnson, ha detto che una riunificazione è «fuori discussione». L’Irlanda del Nord aveva votato per restare nella Ue e la questione del confine interno irlandese è stata e resta il problema più difficile da risolvere nei negoziati tra Londra e Bruxelles. Il Congresso americano intanto ha avvertito Johnson che bloccherà l’accordo commerciale bilaterale sognato dal premier e promesso da Donald Trump se Brexit danneggerà l’Irlanda. Washington è garante degli Accordi di pace del Venerdì Santo che prevedono non ci sia un confine tra le due Irlande

Sinn Fein: un referendum per lasciare la Gran Bretagna

L a linea dura sulla Brexit voluta dal nuovo premier Boris Johnson se da una parte sta facendo salire i consensi dei conservatori, dall’altra sta fornendo nuova linfa ai movimenti indipendentisti del Regno Unito. Dopo la Scozia anche l’Irlanda del Nord potrebbe chiedere presto un referendum sull’indipendenza. L’eventualità di un no deal sarebbe «catastrofica» e rappresenterebbe «per tutti un drammatico cambiamento su quest’isola, e sarebbe impensabile che le persone non avessero l’opportunità di decidere insieme sul proprio futuro», ha avvertito la leader dello Sinn Fein, Mary Lou McDonald, al termine dell’incontro ieri con il premier britannico. Il «no» di Boris Johnson Un’uscita senza accordo il prossimo 31 ottobre farebbe saltare il backstop, il meccanismo voluto da Bruxelles e accettato da Theresa May che, mantenendo temporaneamente l’Irlanda del Nord nel mercato unico e il Regno Unito nell’unione doganale, eviterebbe il ritorno di un confine fisico sull’isola, rispettando così gli accordi di pace del Venerdì Santo del 1998. Ma Johnson, che lo ha definito «antidemocratico», non ha alcuna intenzione di accettarlo perché questo impedirebbe alla Gran Bretagna di stipulare nuovi accordi commerciali finché il meccanismo resterà in vigore. E non hanno nessuna intenzione di accettarlo nemmeno gli unionisti del Dup, l’altro grande partito dell’Ulster, i cui voti sono necessari al governo per restare in piedi. Anche senza il backstop «in nessuna circostanza» ci sarà un ritorno «a controlli fisici o infrastrutture al confine», ha assicurato il premier, che però non ha ancora spiegato come intende ottenere questo risultato. Sul punto Johnson si è anche scontrato con il suo omologo di Dublino, Leo Varadkar, che ha paura che con il No Deal venga messa in pericolo la pace sull’isola e si possa tornare ai tempi dei Troubles. I due hanno avuto una telefonata molto tesa sull’argomento e ognuno alla fine è rimasto sulle proprie posizioni. E un aiuto agli irlandesi potrebbe arrivare inaspettatamente dall’altra sponda dell’oceano. Se il presidente Donald Trump sostiene con convinzione la linea dura di Johnson, non la pensa allo stesso modo il Congresso in cui l’influente gruppo dei Friends of Ireland si è detto pronto a far saltare qualsiasi accordo commerciale tra i due Paesi se dovessero essere messi a rischio gli accordi del Venerdì Santo. —

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Brexite frontiere, ancheBelfast minacciaBoris di Michele Farina Diplomazie DAL NOSTRO INVIATO LONDRA Uomo o topo? Boris Johnson la dice anche in latino: aut homo aut mus. La usa in ufficio, a chi arriva primo nelle sfide: man or mouse? L’alternativa che gli scotta tra le mani non è uno scherzo: deal o no-deal? Accordo con l’Europa o divorzio bruto? All’insediamento era stato lapidario: il 31 ottobre via «senza se e senza ma». Domenicaisuoi ministri hanno rincarato: «Il no-deal è lo scenario su cui lavoriamo». Questa settimana, con la sterlina ai minimi, Boris ha girato l’Unione (la sua) per sentire l’aria che tira. In Scozia persino la leader del suo partito, Ruth Davidson, gli ha detto no-deal mai. E la premier Nicola Sturgeon ha promesso: se sbatti la porta, vogliamo un altro referendum sull’indipendenza. In Galles stessa musica: e quando Boris ha visitato un allevamento di polli, la padrona dietro le quinte ha parlato del no-deal come di una legnata. Tensione ancora più palpabile ieri a Belfast. Mary Lou McDonald, presidente del Sinn Féin, è stata dura: «Se Boris sceglie il disastro nodeal, non potrà dire che non gli era stato detto». E in quel caso, i nazionalisti chiederanno un referendum sulla riunificazione irlandese. A rischio l’accordo di pace tra cattolici e protestanti. Boris glissa e incassa il sì sibillino di Arlene Foster, leader unionista del Dup (i cui voti tengono a galla la maggioranza a Londra): il no-dealresti sul tavolo delle trattative. Ma il nodo irlandese è l’intoppo maggiore per un addio dolce. Il backstop negoziato da Theresa May è rinnegato da Boris come «una mostruosità»: quel confine con l’Irlanda continuerebbe senza guardie né controlli, con la Gran Bretagna nel mercato comune fino a un’intesa commerciale con la Ue. Inaccettabile per Boris, che manda il consigliere David Frost sul continente perincontri esplorativi. Ma a Bruxelles rimangono fermi: il backstop non si tocca. Uomo o topo? Boris ha tre mesi per scegliere. © RIPRODUZ

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Warren e Sanders «in coppia» sfidano i moderati democratici Nella seconda serie di dibattiti per le primarie i due senatori tengono la scena con proposte di welfare «europeo». Ieri notte a Detroit si è svolto il confronto organizzato dalla «Cnn» in vista delle primarie democratiche per scegliere chi sfiderà Trump nel 2020. Si sono presentati 10 candidati. Joe Biden e Kamala Harris si sono misurati nella seconda tornata.

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Il pg fa ricorso: no ai domiciliari per Formigoni, può collaborare L’ex governatore R oberto Formigoni deve ritornare in carcere secondo la Procura generale di Milano che ha chiesto alla Corte di Cassazione di annullare l’ordinanza con la quale il Tribunale di sorveglianza ha concesso la detenzione domiciliare all’ex Governatore della Lombardia. Per l’avvocato generale Nunzia Gatto, i giudici non avrebbero approfondito la possibilità che Formigoni possa collaborare con la magistratura rivelando elementi che potrebbero fare luce sugli aspetti della vicenda Maugeririmasti ancora oscuri dopo il processo nel quale è stato condannatoa5anni e 10 mesi di carcere per corruzione. Il suo, quindi, non è un caso di «collaborazione impossibile», quella sulla quale si è basato il Tribunale di sorveglianza per concedere la detenzione domiciliare al 72enne Formigoni, superando il divieto posto dalla «spazzacorrotti». Secondo i giudici, Formigoni non avrebbe potuto aggiungere nulla a quanto già scoperto. Sulla «collaborazione impossibile» si era detto d’accordo in udienza il sostituto pg Balice, contrario però ai «domiciliari». Ci vorranno mesi prima che la Cassazione decida.

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Retromarcia su Formigoni: “Deve tornare in carcere” La Procura generale fa ricorso in Cassazione sui domiciliari al “Celeste ”

Il 18 luglio il parere era favorevole. Cade la tesi della “c o l l a b o ra z i o n e impossibile”

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Formigoni condannato a dover morire di fame e di stenti

VITTORIO FELTRI

Apprendo con disgusto che l’ufficio di presidenza del Senato, capeggiato dalla giurista stimatissima nonché cattolica Elisabetta Alberti Casellati, ha deliberato la soppressione della pensione per Roberto Formigoni, confiscando i versamenti da lui effettuati per 16 anni come parlamentare italiano ed europeo. PeraltrolaCorte deiConti aveva già provveduto a prosciugargli il trattamento di quiescenza per i 18 anni da governatore della Lombardia. Mi consta che, nel frattempo, i suoi beni siano stati tutti requisiti, né risultino tesoretti qualsivoglia in Italia o nel resto del mondo da lui attingibili. Il disgraziato aveva appena ottenuto gli arresti domiciliari, e pareva, dalle foto che circolano, un po’ sollevato: contava sulla pensione, essendo vietato per lui, nella sua condizione di recluso domestico, qualsiasilavoro,anche servirele patate fritte e gli hamburger in un fast food, o magari il sagrestano. A questo punto gli consiglieremmo di chiedere la pensione di cittadinanza o quella sociale, ma non essendo terrone e neppure peruviano è quasi impossibile l’ottenga. Potrebbe sempre contare sulla carità degli amici. Ma siamo sicuri non sia una forma postuma di corruzione? Non scherzo, sono sarcastico, che è un modo per sublimare l’ira. Chiedo agli esperti di morale e di diritto che differenza ci sia tra questo comportamento istituzionale e il furto con destrezza. Mi sfugge qualcosa? Non mi importa che questa manfrina praticata a Palazzo Madama sia legale, con tutti i timbri dei codici e soprattutto la benedizione degli Alti Pennacchi dell’Etica. Essa contraddice il principio di umanità per cui non si può negare a nessuno la possibilità di un dignitoso sostentamento. Conosco la storia di questa ghigliottina che non taglia la testa ma la dignità, ed è persino peggio. La giustificazione dell’attoiniquo di tipo tribale sarebbel’indegnità a percepire il vitalizio da onorevole stante la condanna per corruzione. Dal 2011 in realtà non si tratta più di vitalizio ma di una vera e propria pensione, calcolata con il sistema contributivo. A suo tempo si fissò comunque questa regola per placare i furori anti-casta e dare un osso da leccare ai Cinque Stelle. Tutto questo fa veramente schifo. Tanto più quando viene per decisione, senza un briciolo di vergogna, da parte di colleghi politici che se fosse stata affidata loro la sanità lombarda saremmo tutti morti di itterizia per lo spavento. Formigoni non ha ammazzato carabinieri a Roma, non ha stuprato commesse a Osio Inferiore, ha solo goduto di alcuni giri in barca non da criminale, ma eventualmente da idiota. Condannarlo di fatto, come in un rito voodoo, alla mendicanza del lebbroso offende qualsiasi civiltà giuridica. Restiamointerdetti dinanzialla passività dell’opinione pubblica. Mi auguro un intervento discreto del galantuomo Mattarella. Senza chiasso. Da siculo amante della giustizia. ©

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Beni culturali Una lunga estate calda L’addio del direttore Gino Famiglietti, i vertici dei musei ancora da confermare, il pasticcio del McDonald’s a Caracalla, i Caravaggio promessi al Giappone e poi bloccati. Caos e lotte di potere al ministero

Bonisoli è stretto tra veti salviniani, interessi politici e burocrazia

Di Sergio Rizzo

P rimo agosto 2019: consigliamo al ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli di cerchiare la data sul calendario. Oggi infatti la guerra in corso sul suo ministero, già cominciata da un pezzo, imbocca una nuova escalation. Il salto di qualità è la nomina di Federica Galloni al posto di Gino Famiglietti sulla poltrona di direttore generale Archeologia, Belle arti e Paesaggio. È la seconda posizione burocratica in linea gerarchica del ministero, dopo quella occupata dal segretario generale Giovanni Panebianco, di fatto il ministro ombra fedelissimo del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Vincenzo Spadafora e del capo grillino Luigi Di Maio. Ma dal punto di vista strettamente operativo è forse la più importante, dopo la riforma appena fatta. E qui, per spiegare di cosa stiamo parlando, è necessario un passo indietro. Qualche settimana fa Bonisoli mette il timbro sulla rivoluzione del ministero voluta da Panebianco e che in alcuni passaggi ha l’impronta riconoscibile di Famiglietti. La riforma, debolmente contrastata dalla ministra della Funzione pubblica leghista Giulia Bongiorno, attribuisce poteri tipici del ministro al segretario generale e concentra la funzione di tutela nella figura del direttore generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio. Apriti cielo: le proteste, soprattutto da parte dei alcuni soprintendenti che si vedono limitare la propria sfera d’azione, scattano immediate. Si dirà che questo accade sempre quando gli equilibri nelle alte burocrazie vengono messi in discussione. Ed è vero: basta ricordare che cosa provocò a suo tempo la riforma del predecessore di Bonisoli, Dario Franceschini. Ma questa volta c’è in ballo qualcosa di più. Da che il ministero dei Beni culturali esiste al suo interno hanno sempre convissuto due anime spesso protagoniste di una lotta di potere senza quartiere. Una è l’anima che si può definire più commerciale, convinta che i Beni culturali siano “il nostro petrolio”, come spesso si sente dire, e che quindi vadano valorizzati, perfino senza andare troppo per il sottile. L’altra è l’anima che per semplicità possiamo qualificare come più integralista: persuasa che la funzione del ministero sia invece quella di tenere i beni culturali alla larga da qualunque tentazione affaristica, e che quel “petrolio”, termine aborrito, debba comunque rimanere ben custodito nel giacimento pubblico. In questo scontro che dura da quasi mezzo secolo nessuna delle due anime ha mai prevalso nettamente. Almeno fino a ora. Perché la riforma farebbe invece pendere decisamente la bilancia dalla parte della seconda, incarnata da Famiglietti e in sintonia con principi sempre professati dal Movimento 5 Stelle, partito che oggi controlla il ministero. Anche se basta leggere il contratto di governo stipulato con la Lega, dove si parla chiaramente di valorizzazione dei Beni culturali in funzione turistica e di rapporto con i privati per lo sfruttamento delle risorse culturali, per capire quanto sia stretto il sentiero e quanto sia costellato di contraddizioni. Per dirne una, come si tiene insieme l’affermazione del contratto che “i beni culturali sono uno strumento fondamentale per lo sviluppo del turismo” con la decisione di togliere la competenza sul turismo al ministero di Bonisoli per passarla all’Agricoltura del leghista Centinaio? E contraddizione forse ancora più evidente è il passaggio delle consegne avvenuto oggi. Una riforma in chiave integralista era chiaramente disegnata sulla figura di Famiglietti. Appena varata, però, Famiglietti è dovuto andare in pensione. Non senza aver lasciato in eredità (e in extremis) al successore un paio di segnali pesanti e inequivocabili. Uno: lo stop al progetto di McDonald’s alle Terme di Caracalla, a Roma. Due: il no al trasferimento di alcuni quadri in Giappone per una mostra itinerante sul Caravaggio organizzata dall’associazione MetaMorfosi dell’ex deputato comunista Pietro Folena. Prestito già concordato con i giapponesi, ma bocciato dal comitato tecnico consultivo presieduto da Tomaso Montanari. Fra le opere bloccate, con la motivazione che il progetto scientifico non era adeguato, il San Francesco D’Assisi in meditazione di Michelangelo Merisi attualmente collocato a Palazzo Barberini. Con l’uscita di scena di Famiglietti sarebbe stata logica, nello spirito di quella riforma, una nomina in linea con quella filosofia. Era circolato il nome del soprintendente di Firenze, Andrea Pessina. Fermato però, a quanto pare, dal niet leghista oltre che dai timori di possibili ricorsi. Si era allora pensato all’eventualità di trattenere in servizio Famiglietti, con l’obiettivo di sbarrare la strada alla pretendente più accreditata per anzianità e grado che nel giro di un paio d’anni sarebbe (anche lei) andata in pensione, ma la strada si è rivelata impraticabile. Così, stretto fra veti salviniani e anzianità di carriera, ossia la solita miscela di interessi dei politici e delle burocrazie, la scelta del mite Bonisoli è caduta proprio su Federica Galloni. Quanto a filosofia del proprio ruolo, l’esatto opposto di Famiglietti. Almeno a giudicare da alcune iniziative: gli esperti di storie romane ricorderanno il via libera alla vendita di alcune parti del quattrocentesco Palazzo Nardini, come pure i tre pareri positivi allo stadio della Roma a Tor di Valle, prima che la stessa soprintendenza decidesse di porre un vincolo sulle tribune del vecchio ippodromo. E le occasioni per verificare il cambio di rotta non mancheranno. Magari proprio dalla mostra in Giappone sul Caravaggio. «Abbiamo scritto al ministero di ripensarci. Capiranno che non si può fare una figura simile», confida Folena. Il fatto è che non basta proclamare un certo cambiamento, se poi non si è in grado di perseguirlo concretamente impantanandosi nelle acque basse della politica e della burocrazia. Da oltre un anno i 5 Stelle hanno in mano uno dei ministeri più importanti senza riuscire a tracciare e seguire una linea precisa. Con la struttura che naviga nella confusione e nell’incertezza, fra nomine dirigenziali di prima fascia ancora nel limbo dopo ben 14 mesi (tra cui le direzioni di musei come Uffizi e Brera) e il fucile puntato della Lega che rivendica l’autonomia anche per i Beni culturali del Veneto e della Lombardia: impugnato al Collegio Romano Lucia Borgonzoni. Efficacissima, la sottosegretaria leghista senatrice e consigliera comunale di Bologna diplomata all’accademia di Belle arti, nella marcatura salviniana al ministro per caso. Il vero problema.

7 Nazionalismi

IL NAZIONALISMO AVANZA NELRIFIUTODELLAREALTÀ

IL NAZIONALISMO AVANZA NELRIFIUTODELLAREALTÀ

Torna una situazione in cui al conflitto armato sisostituisce, per ora, quello commerciale: adesso la parola chiave non è più collaborazione,ma competizione

Nessuna lungimiranza IlXXI secolo ci sta dando un mondo in cui gli Stati si affrontano brandendo interessi dalla corta vista

di Salvatore Bragantini

D eclina l’era in cui i Paesi sviluppati collaborarono per scongiurare le tensioni alla radice della seconda guerra mondiale; i nazionalisti, ormai al governo negli Usa, nel Regno Unitoein Italia, sono prima forza d’opposizione in Francia e Germania.Amutareil quadroèstata la globalizzazione che, intensificando gli scambi internazionali, ha avuto effetti contrastanti fra Paesi sviluppati ed emergenti. Su questa s’è innestata la finanziarizzazione dell’economia, sfociata nella crisi del 2007, che contraddiceva le scelte decise nel ’44 alla conferenza di Bretton Woods grazie a J.M. Keynes, un gigante del pensiero. Memore delle esose riparazioni inflitte cent’anni fa alla Germania sconfitta e della crisi del ’29, egli convinse gli Usaascongiurare nuovi conflitti diffondendo lo sviluppo economico, la piena occupazione e la stabilità finanziaria. Allo spirito di collaborazione multilaterale di Bretton Woods si deve l’accordo di Londra del febbraio ’53 quando – a meno di otto anni dalla resa di Berlino –i Paesi vincitori condonarono alla Repubblica Federale Tedesca (Rft) metà dei debiti accesi dal Terzo Reich per aggredire l’Europa libera. Gli Usa volevano certo sottrarre la Rft all’influenza sovietica, ma c’erano altri, più rudi, modi per farlo: non era quella la scelta ovvia. Con l’approccio cooperativo la «Guerra fredda» l’han vinta le democrazie occidentali che, pur operando per la sconfitta dell’Urss, han sempre escluso di ottenerla con le armi. Quello spirito ha propiziato la rinascita post-bellica, poi agevolato il più ambizioso progetto politico della storia, l’attuale Unione Europea, e perseguito lo sviluppo condiviso con le organizzazioni multilaterali. Queste han sospeso – fatto senza precedenti nella storia – il vigore della legge di gravità politica, per la quale il più forte ha ragione. Se gliUsa nel ’45 avessero perseguito l’America first, il nostro destino sarebbe stato assaipeggiore; ora la vittoria di Trump, col tramonto del multilateralismo cooperativo nello «Stato guida», è il punto di svolta. Quell’assetto declina forse per troppo successo: laBrexit ela crisid’identitàdellaUe son dovute proprio ai progressi, per tanti eccessivi, dell’integrazione europea. L’esplosione degli scambi internazionali, poi, ha immesso nell’economia moderna centinaia di milioni di persone prima escluse, migliorandone il tenore di vita. Sono emigrati nei Paesi emergenti molti lavori prima svolti in Occidente ove, invece, aumentano i poveri che lavorano e per centinaia di milioni di persone peggiora la vita. Esse soffrono la perdita di status sociale, sperimentando l’incertezza sul futuro, ben nota ai Paesi emergenti. Visto dallo spazio, il mondo è oggi più equo, o meno iniquo, di ieri, ma gli elettori dei Paesi sviluppati si oppongono col voto. L’avanzata del nazionalismo esprime, magari inconsciamente, il rifiuto della nuova realtà, che ha dato il benessereatanti «là» e l’ha tolto «qua», vorrebbe ricacciare le masse che si affacciano al benessere nella miseria da cui sono uscite, nell’illusoria nostalgia di un passato che non tornerà. Torna, invece, un mondo nel quale al conflitto armato si sostituisce, per ora, quello commerciale, nel quale la parola chiave non è più collaborazione, ma competizione. Donald Trump sfrutta la potenza militare perimporsi negoziando conisingoli Stati, più deboli. Così, perriequilibrare

xla bilancia commercialeUsa, mission impossible, finge che le importazioni d’acciaio canadese o di auto europee mettano a rischio la sicurezza Usa. È il ritorno alla legge di gravità, cui solo la Ue si può opporre: sono perciò assurde le parole del sottosegretario leghista Michele Geraci, che dice al Sole 24Ore, sui negoziati commerciali: «La politica (della Ue, ndr) è comune, ma le negoziazioni, per noi, si devono fare one to one con ogni partner: Usa, Cina e altri». Le pratiche illecite della Cina van combattute, ma ciò non autorizza a bloccare il suo sviluppo per impedirle di crescere negli equilibri mondiali. I rischi dell’autocrazia cinese, gravissimi, non si affrontano impedendo – con la forza o con i suoi sostituti, come l’overreach legato al ruolo del dollaro Usa nei pagamenti – a uno Stato sovrano le politiche di crescita che ritiene opportune.Conmetodi simili l’Occidente, lungi dal vincere la «Guerra fredda», ci avrebbe precipitato in quella calda, senza vincitori, forse senza sopravvissuti. Trump prima scatena i conflitti commerciali, poi vuole che la FederalReserve abbassi il costo del denaro per attutirne le conseguenze: cinica scelta volta a propiziarsi la rielezione, manipolando la valuta. Per questo «alto fine», dovremmo tutti correre verso l’inevitabile bolla, giunta la quale le banche centrali sarebbero quasi prive di spazi di manovra. Quando il XX secolo si chiuse nel trionfo dell’Occidente, parve che una visione lungimirante degli interessi nazionali potesse ancora prevalere; il XXI sta dandoci un mondo diviso da ampi fossati, dove gli Stati si affrontano brandendo interessi nazionali dalla corta vista. La critica alla globalizzazione continua, ma sono poche e sparse, chissà perché, le voci che vorrebbero ricondurre la finanza al ruolo di serva dell’economia. La finanza padrona ha invece acuito i lati negativi della globalizzazione e, a differenza di questa, è assai dannosa.

Corriere p.24

8 feltri

L e legano mani e piedi, le infilano un sacchetto di cellophane in testa. Serena muore soffocata e viene abbandonata in un bosco. Il padre Guglielmo lancia l’allarme. E’ terrorizzato: ha già perso per malattia la moglie, la mamma di Serena. Si affiggono foto di Serena ovunque. Un carrozziere di Rocca d’Arce, Carmine Belli, vede la foto e crede di riconoscere una ragazza che aveva incontrato, va dai carabinieri e lo racconta. Sarà il suo disastro. Intanto si cerca Serena. La trova la Protezione civile in un punto già setacciato dai carabinieri, naturalmente senza successo. Tutta Italia ne parla. Se ne fanno trasmissioni televisive. E’ l’intrattenimento morboso dei nostri tempi. Guglielmo, il padre, viene prelevato dai carabinieri durante i funerali, in diretta tv. E’ soltanto per i più intempestivi e impietosi adempimenti burocratici. Nessuno lo può immaginare, però, e su Guglielmo si sollevano voci infami. Poi viene arrestato Belli, il carrozziere. Diventa il mostro di Arce. Starà in carcere per 17 mesi. Le sentenze di assoluzione parlano di accanimento. Tutto tace fino al 2008 quando un carabiniere di Arce, Santino Tuzi, prende coraggio e racconta di aver visto Serena entrare in caserma il giorno della scomparsa. La sera prima di essere sentito in procura, però, Tuzi si ammazza (uno dei carabinieri per cui ora è stato chiesto il processo è accusato di induzione al suicidio). Ma da lì le cose cominciano lentamente a prendere un’altra piega. Questo allucinante caso giunge a una prima definizione proprio nei giorni sciagurati del folle assassinio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, pugnalato a Roma da un ragazzo americano. La morte di Rega è diventata subito una bruciante ed estenuante questione politica. I massimi vertici del governo (perdonate la temeraria espressione) e pure leader delle minoranze hanno chiesto per il ragazzo una pena esemplare, carcere e buttare la chiave, marcire in galera, lavori forzati, pure un abbozzo di proposta di ritorno alla pena di morte. Si è cominciato a discutere delle regole d’ingaggio delle forze dell’ordine, di come renderle più elastiche, cioè più sbrigative (e ad Arce non sarebbe stato l’ideale). Non si parla d’altro da una settimana, con la faciloneria e la brutalità di tempi in cui si crede di risolvere i problemi con un vaffanculo e un colpo di scimitarra. Per fortuna la repellente storia di Arce non ha armato simili tumulti. Per fortuna nessuno ha chiesto il supplizio della ruota e l’esecuzione sulla pira dei carabinieri accusati dell’omicidio di Serena. Per fortuna nessuno ne ha tratto l’occasione per suggerire lo svilimento e il depotenziamento dell’Arma. Nessuno si è impancato da tribuno retto e inflessibile. L’uomo ha un cuore di tenebra da che Caino alzò il braccio per colpire il fratello. E non saranno gli arruffapopolo a mondarlo con un tweet dopo il fritto misto di metà pomeriggio.

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SENZA RISORSE, CON PERSONALE INSUFFICIENTE RECLUTATO ANCHE DALLE ASL SOS archivi di Stato, così la politica lascia morire la memoria pubblica

Nei depositi 1500 chilometri lineari di carte: crescono ogni anno di 25 chilometri

Carenza di spazi, molti posti vacanti in seguito a un’ondata di pensionamenti, per i pochi dirigenti rimasti un sovraccarico di mansioni

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Di Giovanni De Luna

C’è un percorso obbligato attraverso il quale i ricordi di noi tutti diventano prima memorie collettive e poi storia. E passa attraverso gli Archivi, in particolare gli Archivi di Stato. Oggi nei loro depositi sono custoditi più di 1.500 chilometri lineari di carte. Circa altri 2000 chilometri sono in attesa di esservi depositati, dopo le operazioni di selezione da parte dei vari uffici statali tenuti per legge a versare la loro documentazione. Ogni anno complessivamente questi giacimenti crescono in media di 25 chilometri lineari. Si tratta di una montagna colossale che racchiude le nostre esistenze e che rappresenta un lascito duraturo per le future generazioni che vorranno ricercarvi il senso della loro identità, le radici della loro comunità. Gli archivi di Stato sono uno dei luoghi più strategicamente rilevanti per la trasmissione della memoria e del sapere storico, uno snodo fondamentale in un circuito virtuoso in cui si studia il passato per capire il presente e progettare il futuro. Questo circuito oggi si è spezzato e tutto sembra essere precipitato in un presente enormemente dilatato. Nello spazio pubblico è come se di colpo il passato sia diventato muto e il futuro inesistente. I messaggi che arrivano dal mondo della politica sono inequivocabilii. L’idea stessa di costruire una religione civile, fondata su un patto di memoria riconosciuto e accettato, è definitivamente tramontata fin dagli albori della Seconda Repubblica. Tra le forze di governo, i Cinquestelle continuano a sbandierare ostentamente la loro mancanza di passato e la Lega di Salvini – cancellando anche i residui di quella «identità padana» che Umberto Bossi aveva inventato con le ampolle e i riti celtici – si è tuffata in una campagna elettorale permanente, tutta fondata sul qui e ora; ne risulta un futuro azzerato o, peggio, descritto come affollato di oscure minacce e nemici insidiosi. Quanto alle opposizioni, il Pd ha rinunciato da tempo ai suoi vecchi alberi genealogici, senza peraltro avere la capacità di proporne di nuovi. In questo contesto, reso ancora più accidentato dalla pervasività della rete e dalla sua ossessione per il presente, il ruolo degli Archivi di Stato appare come svuotato dall’interno. È una ferita culturale i cui aspetti concreti sono sotto gli occhi di tutti. La mancanza di personale specializzato innanzitutto, con la conseguente assenza di ogni significativo ricambio generazionale. Le recenti 190 assunzioni coprono in minima parte i posti lasciati vacanti da un’ondata senza precedenti di pensionamenti. Ne deriva anche un sovraccarico di mansioni e di responsabilità che grava sui pochi dirigenti rimasti e che porta a situazione quasi grottesche: la soprintendente della Lombardia lo è anche del Piemonte e della Valle d’Aosta, il direttore dell’Istituto Centrale per gli Archivi è anche soprintendente per la Sardegna, la stessa dirigente copre la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio e l’Archivio di Stato di Firenze, la soprintendente dell’Archivio centrale dello Stato regge anche la Soprintendenza archivistica e bibliografia della Toscana e l’Archivio di Stato di Torino. È desolante anche la rarefazione del personale di supporto, per intenderci i custodi che tengono aperti gli archivi e assicurano la consultazione delle carte nelle sale studio. Il tutto nel quadro di una situazione economico-finanziaria sempre più precaria che rende difficili gli interventi di ordinamento e inventariazione delle carte già versate, ma rischia anche di bloccare, in mancanza di spazi adeguati, le stesse operazioni di versamento della documentazione destinata alla conservazione permanente e alla pubblica fruizione. Si pensi soltanto agli archivi dei Tribunali e, in particolare, a quelli degli uffici soppressi a seguito della Riforma Severino del 2012-2013: in tutta Italia si moltiplicano casi di sedi abbandonate dall’Amministrazione giudiziaria senza che le carte abbiano potuto essere trasferite nei competenti archivi di Stato. Si tratta, per intenderci, di una documentazione preziosa sugli aspetti più significativi degli eventi che hanno scandito la storia dell’Italia repubblicana che probabilmente andrà dispersa o perduta per sempre. Da parte del governo in carica sono state ora ventilate alcune misure per affrontare almeno alcune di queste difficoltà. Si pensa, ad esempio, di affiancare agli attuali dirigenti oberati di lavoro un personale aggiuntivo reclutato negli organici di strutture pubbliche – tipo le Asl, o l’Inps – che hanno competenze di tutt’altro tipo; un po’ come se si mandassero i pescatori di anguille a fare formaggi negli alpeggi. È una situazione che si trascina da tempo e risale alla vecchia affermazione che con la «cultura non si mangia». È una concezione per la quale se qualche museo è appetibile in quanto «attrazione turistica», gli archivi non hanno scampo. Era così prima, lo è ancora di più nel quadro politico di oggi. I partiti della Prima Repubblica furono tutti «imprenditori pubblici della memoria»; coltivarono la propria – attraverso istituti specializzati nella conservazione dei propri archivi (il Gramsci o lo Sturzo per il Pci e la Dc, la Fondazione Nenni e la Fondazione La Malfa per il Psi e il Pri, ecc.) – e quella collettiva, proponendo un «patto» pubblico fondato sulla Costituzione e sulla Resistenza. Quelli di oggi alla memoria hanno semplicemente rinunciato, sia alla propria sia a quella pubblica. —

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