Buongiorno. Conte pronuncia un durissimo intervento contro Salvini e va al Quirinale a dimettersi. Oggi le consulazioni. Il colle cerca una soluzione rapida. Telefonata Zingaretti – Di Maio per far nascere un governo giallorosso. Buona lettura a tutti. PS Stamattina la rassegna è incompleta per problemi tecnici. Scusate.
Conte lascia. Tempi stretti per la crisi. Il presidente del Consiglio Conte ha annunciato ieri al Senato la fine del governo M5S-Lega, attaccando a tutto campo il vice Salvini: «Ha perseguito interessi di parte, una decisione grave» quella di aprire la crisi, «dettata da opportunismo politico». La scelta di rompere, ha detto Conte, interrompe l’azione di governo ed «espone a seri rischi il nostro Paese», compreso lo spettro di ritrovarsi in esercizio provvisorio con un nuovo Esecutivo «nella difficoltà di contrastare l’incremento dell’Iva e con un’economia esposta a speculazioni e sbalzi dello spread».More
In serata, al termine del dibattito, Conte è salito al Quirinale per rassegnare le dimissioni; resterà per gli affari correnti. Già oggi il capo dello Stato Mattarella darà via alle consultazioni con le forze politiche per verificare entro due giorni l’eventuale maggioranza parlamentare per tentare un nuovo governo di legislatura. In alternativa resta la strada del ritorno al voto entro fine anno o inizio 2020. Salvini nella sua replica ha tirato dritto: «Rifarei tutto quello che ho fatto. Continuo a pensare che si debba andare al voto». Il leader leghista da un lato ha attaccato a testa bassa «l’inciucio» tra M5S e Pd, ma dall’altra ha tentato di lasciare aperto uno spiraglio per il dialogo con il M5S, confermando di essere disponibile a «votare il taglio dei parlamentari, fare una manovra coraggiosa e poi andare al voto». La Lega ha quindi ritirato la mozione di sfiducia a Conte. Resta da vedere che cosa succederà sull’asse M5S-Pd. Nel corso del dibattito al Senato c’è stata un apertura del Pd: «Sì a un confronto con i Cinquestelle, poi vedremo se ci saranno le condizioni per dare vita a un governo» ha detto il capogruppo dem Marcucci. Ma i 5 Stelle restano divisi sul governo.
Cala il sipario. Accuse, smorfie e rosari nella corrida del Senato. Giù il sipario sul governo Conte feroce con Salvini: “Irresponsabile”. Applausi dai banchi del Pd. Il divorzio dei due ex alleati si fissa in una sequenza nell’Aula del Senato verso la metà del discorso del premier Conte. «Far votare i cittadini è l’essenza della democrazia», sta dicendo l’inquilino di Palazzo Chigi. Pronuncia questa frase e gli spalti, pardon i banchi della Lega si incendiano, applausi scroscianti, Salvini sorride e fa un gesto come dire «eh infatti», per qualche secondo il premier si interrompe. «Ma sollecitarli a votare ogni anno è irresponsabile», prosegue, e stavolta ammutoliscono i leghisti e si accende il battimani in un altro settore dell’emiciclo, un’altra tifoseria si direbbe. Un intervento via l’altro fino alla replica piccata del premier dimissionario: «La responsabilità della crisi porta la firma del ministro Salvini, ma se gli manca il coraggio me la assumo io». Le ultime parole della giornata, prima di lasciare Palazzo Madama in direzione Quirinale. E aprire un altro film.
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Il selvaggio e il leader per un giorno.
Cechov ha costruito i suoi racconti più belli su figure di funzionari e di professori di provincia che appena escono dall’anonimato rimangono schiacciati dal “fuori luogo”. Pensate infatti a Conte, alla sua politica come gentilezza e, per contrasto, alla forza delle accuse finali – come non condividerle? – con le quali ha condannato Salvini.
Francesco Merlo su Repubblica. More
Bastonato e frastornato, Matteo Salvini, che pure aveva salutato Giuseppe Conte stringendolo a sé, per un momento abbassa la testa fra le braccia sdraiate sul tavolo come a proteggerla da una lapidazione. Conte gli sta dando dell’irresponsabile, ma senza mai brillare di odio e di collera, solo ogni tanto fremendo, come percorso dalla corrente elettrica: dice «caro Matteo» e poi lo accusa di slealtà, mancanza di cultura istituzionale, opportunismo, autoritarismo, abuso di religione… Ed è la scena madre, “la morte nel pomeriggio”, direbbe Hemingway, del toro più infoiato della politica italiana di tutto il dopoguerra. Infatti in sala stampa e nelle tribune nessuno più badava alla rumorosa e movimentata sarabanda che pure si svolgeva tutt’intorno a loro, con i senatori che inalberavano cartelli e i commessi che glieli strappavano dalle mani, con gli applausi, i buuh e gli insulti che nessuno più capiva non perché, dall’estrema destra all’estrema sinistra, tutti insultavano tutti e tutti insieme, ma perché nessuno più li sentiva: come in certi film, quando i suoni del mondo si sospendono, continuavano a vivere solo i due protagonisti, Salvini il selvaggio domato e il suo torero feroce e gentile, nell’ultimo duello, quello dove anche il vincitore muore insieme allo sconfitto. Perché senza Salvini non c’è il governo e dunque non c’è quel Conte che, per 14 mesi, più si sentiva fuori posto, più si incatenava al suo posto. Quel quasi premier, che esce di scena insieme al suo alleato-nemico, è finalmente diventato un premier intero, ma per un giorno soltanto, l’ultimo. Mai Conte era stato così freddo e così efficace stando accanto all’ex eroe ormai suonato. Difficile dire quale sarà il futuro di ciascuno di loro, ma certamente non li vedremo più insieme. Dunque ieri sono morti entrambi perché è morta la politica del “famolo strano”, l’alleanza impossibile, quella che, nel Transatlantico del Senato, faceva sospirare Aldo Cioffi e Michele Geraci, i due sottosegretari di Di Maio, il primo grillino e il secondo leghista, che camminavano abbracciati: «Ci stanno separando e nessuno può capire quanto ci dispiace. La colpa è di questa schifezza dei partiti». E intanto il senatore Morra, presidente grillino della commissione Antimafia, si spingeva sino ad accusare Salvini di avere inviato messaggi in codice alla ‘ndragheta di Isola Capo Rizzuto. Accanto, il vecchio Scilipoti si inginocchiava davanti all’effigie di Cavour. Come si vede, si può raccontare anche ridacchiando la giornata di ieri, che è stata, come al solito, commedia e neppure troppo raffinata. L’intera squadra dei grillini di governo, per esempio, è arrivata mezz’ora prima degli altri per prendere posto occupando tutti gli scranni dorati sotto la cattedra della presidente Casellati, per l’occasione vestita di raso giallo come Raffaella Carrà. Riservati al governo, quegli scranni sono solo venti. Guidati dal capoclasse Di Maio, i grillini di vaffa e di governo volevano costringere i leghisti a sedersi nei banchi ordinari, insieme agli altri senatori: pussa via. Ma, sveltissimo, il leghista Fontana ha rubato la sedia a Bonisoli e poi Salvini, con i pugni sui fianchi, ha preteso il suo posto di vice, accanto a Conte. E ovviamente l’ha ottenuto. Quindi Salvini ha abbracciato Conte che gli ha lungamente sussurrato frasi all’orecchio e tra loro è stato un bel ridere, pochi minuti prima della lapidazione. Banchi rubate, barzellette sotto voce…: è roba da terza C, da Pierino e la supplente? Sicuro, ma questa cifra di racconto per una volta non è sufficiente, non è adeguata alla giornata di ieri, sicuramente non al Conte che ha descritto come un’epopea il bullismo che subiva da Salvini, del quale era il garante e al tempo stesso la vittima. Cechov ha costruito i suoi racconti più belli su queste figure di funzionari e di professori di provincia che appena escono dall’anonimato rimangono schiacciati dal “fuori luogo”. Pensate infatti a Conte, alla sua politica come gentilezza e, per contrasto, alla forza delle accuse finali – come non condividerle? – con le quali ha condannato Salvini. Eppure la politica come politesse è stata la sua unica trovata e cioè modestia e amabile rispetto, una riconoscenza leggera e fugace, una complicità ingenua, prepolitica e antipolitica, con la complessità sociale. Qualche volta questa gentilezza lo ha collocato nell’inattualità, nel limbo delle qualità senza spazio e senza tempo, dove anche il vaffa, che pure l’aveva prodotto, diventava il suo contrario. Era il Conte del bacia mano alla Merkel ma anche di quel fuori-onda dove, sempre con la Merkel, parlava male sia di Di Maio e sia di Salvini promettendo: «Li controllo io, perché io quando dico basta, è basta». Ma, come dicevamo, quel Conte “paglietta” che si diceva fiero «d’aver coagulato Salvini attorno a un tavolo per evitare iniziative che potrebbero soggettivizzare il conflitto» ieri è diventato leader per un giorno. Ha lavorato per tutta la notte lasciando platealmente accese le luci di Palazzo Chigi e ha scritto con il sapiente Casalino un j’accuse che è la sua dichiarazione d’indipendenza, la sua liberazione ma anche il suo canto del cigno. «Troppo comodo accorgersene ora» gli ha detto Emma Bonino. E Renzi: «Come mai non se n’è accorto prima, presidente Conte?». E lo stesso Salvini: «Dunque non mi sopportavi, ma non me lo dicevi. E ora parli di me, come di me parla Saviano». E invece c’è qualche cosa di drammatico nella figura di Conte, che va ben oltre il trasformismo italiano. E c’è qualcosa di misterioso in questo veloce precipitare di Salvini che sembrava avere in mano sia il Paese sia il governo dove gli alleati a cinque stelle erano ormai diventati suoi gregari. E invece in una settimana di cattivo umore, di spleen ferragostano, Salvini ha provocato la sua caduta. «Un colpo di sole» gli ha detto Renzi, che finalmente ieri, come nel film di Moretti, ha detto qualcosa di sinistra (sui migranti, sul garantismo, sulla recessione economica) e gli ha profetizzato la fine del mondo: «Per esperienza personale, ministro Salvini, la avverto: quegli stessi che lo osannavano, già oggi sono pronti a crocifiggerla, perché anche questa è l’Italia». E difatti, più dei sondaggi che già lo danno in calo, è la giornata di ieri che ha mostrato la fragilità del successo di Salvini, il disperato niente di cui erano fatti la richiesta dei pieni poteri e quel ghigno e quel grugno che pure divennero l’illustrazione dell’epoca, il ceffo compiaciuto del razzismo creativo sulla copertina (ricordate?) di Time. E invece ieri, Salvini, in un finale sconnesso, dopo avere preso le botte di Conte, ha persino proposto di andare avanti così, come se non fosse successo niente: «Per fare insieme le riforme che avevamo in cantiere, il taglio del parlamentari per cominciare, e subito dopo la finanziaria». Ma Conte ha respinto anche quest’ultima “giravolta”, e nella replica ha rimproverato Salvini di avere addirittura ritirato la mozione di sfiducia perché non è capace di «prendersi la responsabilità dei propri comportamenti». Ma «se non hai tu il coraggio, il coraggio me lo prendo io, e vado dal presidente Mattarella». Fuori, per Salvini niente bagno di folla e niente selfie, ma la claque grillina che gridava: «Conte, Conte, l’Italia è con Conte». E Giorgetti, l’infido e fidatissimo Giorgetti, ai grillini che gli hanno chiesto di mollare Salvini, ha mormorato: «In famiglia non ci si ama, ma ci si aiuta». Salvini se n’è andato denunciando l’inciucio, «un accordo con il Pd che evidentemente c’era già». Ma per la verità l’applauso della sinistra, il più intenso e il più corale, non è andato alle meritatissime bastonate che Conte ha dato a Salvini ma alla frase secca e precisa: «Il governo si arresta qui». Se infine Renzi ha visto giusto su Salvini, su se stesso e sull’Italia, il capitano potrebbe non vincere le prossime corse e continuare a cadere e cadere. Qualche caporale insolente del suo partito si sta già manifestando, vedremo se, finiti gli osanna, ci saranno ad attenderlo le pernacchie.
Conte. Un premier a scoppio ritardato. La convenienza elettorale, il non-senso delle istituzioni, la Russia. Bordate a Salvini. Così ieri Giuseppe Conte, al suo ultimo giorno, si è ricordato che il suo è un ruolo politico.
Il Foglio a pagina I.
Da premier a candidato anti Salvini. Conte si rilancia ma pensa già al voto da candidato M5S. Spunti di programma che sembrano su misura per un accordo con i dem: “Ricerca, università e maggiore attenzione all’ambiente”. I grillini faranno il suo nome al Quirinale per la guida di un nuovo governo. Ma il discorso in Senato fa di lui il naturale anti-Salvini al prossimo giro elettorale. L’ultimo affondo al rivale: “Non hai il coraggio di prenderti il peso della rottura”.
Goffredo De Marchis su Repubblica. More
Nel giorno dell’addio lo staff di Giuseppe Conte non ha perso la voglia di scherzare. In un corridoio del Senato si sorride guardando un meme che gira sul web e riproduce una finta pagina di un sito hard, con una foto dell’aula di Palazzo Madama e la didascalia: «Il primo ministro italiano brutalizza il ministro dell’Interno». Non vedevano l’ora di sbugiardare pubblicamente Matteo Salvini, di inchiodarlo alle sue responsabilità nel crescendo di questi 14 mesi che dunque si è retto sulle cose non dette e finalmente rivelate in diretta televisiva e di fronte ai senatori. Lo staff segue la diretta nel Transatlantico del Senato con lo sguardo adorante perché, dicono, non si può trovare un capo migliore di Conte. Un capo che forse non chiude qui la sua corsa. Un governo bis con lui a Palazzo Chigi, che è la prima scelta ovvia del Movimento 5 stelle, appare una strada troppo difficile, troppo esposta al rischio di accuse, fondate, di trasformismo. Ma si apre un altro portone per la carriera dell’avvocato del popolo, tanto più dopo il duello con Salvini in aula. Se alla fine si andrà al voto, Conte può ritagliarsi il ruolo di leader dei grillini proprio nella chiave di avversario del segretario leghista suggellata dal discorso di ieri. È un’ipotesi suggestiva ma anche così reale da terrorizzare molti nel Partito democratico. Se la sfida sarà Conte contro Salvini i dem possono rimanerne schiacciati perdendo l’appeal di unica alternativa al pericolo sovranista. Salvini non si aspettava un attacco così diretto. Non quei toni, non quelle parole. Doveva sistemarsi da un’altra parte, nei banchi della Lega, perché l’immagine di lui seduto e del premier dimissionario in piedi che lo bacchetta guardandolo e posandogli una mano sulla spalla non è di quelle che possono andare giù alla macchina comunicativa del Capitano. Ieri ridotto alla figura di un bambino dispettoso rimproverato dal maestro. Sei «un opportunista politico», gli dice l’ex premier. «Hai incassato il decreto sicurezza bis e hai aperto la crisi senza però ritirare i ministri». Gli dà anche del codardo implicitamente e poi esplicitamente quando nella replica lo fulminerà: «Non hai neanche il coraggio di prenderti il peso della rottura. Hai ritirato la mozione di sfiducia. Ma il coraggio ce l’ho io e vado al Quirinale a dimettermi». Gli “schiaffi” metaforici sono tantissimi. Salvini fa delle facce strane, bacia il rosario. Sa bene che le telecamere lo stanno inquadrando in una posizione scomoda, non da leader. Pesantissimo il ceffone sull’uso dei simboli religiosi. «Non te l’ho mai detto Matteo — dice Conte — ma accostare agli slogan politici i simboli religiosi significa che hai un’incoscienza religiosa. Offendi il sentimento dei credenti e oscuri il principio di laicità». Altra botta sulla Russia. «La vicenda merita di essere chiarita — incalza l’ex premier riferendosi a Moscopoli — . E sono venuto io in aula al posto tuo, senza ottenere neanche le informazioni dal ministero. Ma sappi che il caso ha risvolti internazionali». Conte non si ferma. «La tua grancassa mediatica sul governo dei No ha finito per macchiare 14 mesi di buon lavoro». E ancora: «Dopo il 26 maggio hai attuato un progressivo distacco che ti ha distolto dai tuoi compiti istituzionali». Come dire: hai smesso di lavorare e pensato solo alla campagna elettorale. Nei confronti del Parlamento Salvini è stato «irriguardoso». Eppoi anche «imprudente» nel momento in cui ha evocato le elezioni. E «quando hai immaginato di avere pieni poteri, beh devo dirti che questa concezione dello Stato mi preoccupa. Lo Stato è fatto di pesi e contrappesi studiati per evitare tentazioni autoritarie». Niente viene perdonato. «E non per fatto personale», spiega nella replica alle otto di sera. «Io con Salvini andrei a prendere un caffè in qualsiasi momento», confida Conte ai suoi collaboratori. Lo ha ferito anche l’accusa del Partito democratico di essersi svegliato tardi, di aver condiviso questo percorso senza battere ciglio. «Non è vero. Ogni volta che è stato necessario ho rimarcato in consiglio dei ministri la scorrettezza istituzionale di Salvini. L’ho fatto però senza passare veline ai giornali». Più o meno quello che dice in aula quando accusa il Capitano di «invasioni di campo in settori non di sua competenza», delle risse consumate con altri ministri, delle «accuse ai colleghi» che dovevano rimanere nel chiuso di quattro mura e invece venivano sventolate nella pubblica piazza. «Foga comunicativa», dice l’ex premier. «Controcanto incessante persino durante i vertici internazionali. Questo non ha rafforzato il tuo prestigio», aggiunge Conte alludendo ai sentimenti delle Cancellerie nei confronti del leader della Lega. «Il rispetto delle istituzioni non s’improvvisa», è l’ultima accusa prima di delineare un possibile programma per andare avanti, per chi verrà, magari lui stesso. Ricerca, università. Un «nuovo umanesimo» e un’attenzione maggiore all’ambiente. Ammicca al Pd? O già pensa a una campagna elettorale? «Bisogna fare la politica con la P maiuscola. Io non ho mai insultato un avversario e non creo nemici dietro ogni angolo». Può partire da qui una seconda vita da leader?
Il Colle. Mattarella non vuole la melina dei partiti. Subito un accordo o si andrà alle elezioni. Via alle consultazioni rapide. Senza intese tra Pd e M5S in un paio di giorni nasce il governo “di garanzia”. Mattarella ha urgenza di sciogliere i nodi per mettere in sicurezza l’Italia nel caso di elezioni. Ugo Magri sulla Stampa. Governo vero o elezioni scrive Marzio Breda sul Corriere. More
Prima si voterà e più tempo avrà il futuro governo per scrivere la manovra economica e bloccare l’aumento automatico dell’Iva. Inoltre, un percorso rapido e ordinato verso le urne ridurrà il rischio che su di noi si avventi la speculazione finanziaria. Sul Colle nessuno lo ammetterà mai, ma qualche timore sussiste.
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La linea del Colle: governo vero o bisogna andare alle elezioni.
Non aveva bisogno di riassumere le proprie comunicazioni al Senato, Giuseppe Conte, né la replica del leader del Carroccio o gli altri interventi in aula. Il presidente della Repubblica aveva seguito la seduta in diretta tv, sommando le parole pronunciateeil body language dei protagonisti, comprendendo già tutto da quel mix rivelatore: un premier come sempre molto stilè, ma orgogliosamente acuminato nella sua requisitoria; un Di Maio aggrondato e, anzi, pietrificato; un Salvini che scuoteva testa e mani per ispirare la claque delle truppe leghiste. Il risultato del confronto era chiarissimo, per Sergio Mattarella: quello del capo del governo è stato il passo d’addio di chi salutava un’esperienza personale, intonando, al tempo stesso, il de profundis del governo gialloverde. Così, ha accolto l’inquilino di Palazzo Chigi, presentatosi dimissionario al Quirinale all’ora di cena, con un «ho visto tutto… grazie per l’impegno profuso, auguri» e pochi altri convenevoli. È andata come immaginava, insomma, la resa dei conti tra gli azionisti dell’esecutivo populista-sovranista che avrebbe dovuto inaugurare la «legislatura del cambiamento» e che ha invece regnato appena 18 mesi. Un esito, e un congedo, ufficializzati in serata dal segretario generale, Ugo Zampetti, che riferiva l’invito presidenziale a Conte per «curare il disbrigo degli affari correnti». Da adesso tocca a Mattarella guidare l’uscita dalla crisi. Comincerà a farlo fin da oggi, aprendo sul Colle un rapido giro di consultazioni, sentendo in un paio di giorni il suo predecessore Giorgio Napolitano, i presidenti di Senato e Camera e le delegazioni delle forze politiche. Un consulto delicato, anche perché nello smarrimento generale tutti ora dichiarano di affidarsi a lui, «arbitro saggio, serio e imparziale». Definizioni ricorrenti, nelle quali c’è però un errore di fondo per questo capo dello Stato. Infatti, la responsabilità di trovare uno sbocco alternativo al voto d’autunno, indicando nuove maggioranzeeintese politiche, spetterà ai partiti e soltanto ad essi. Certo, Mattarella preferirebbe una soluzione di nuova stabilità alrebus delle urne, se non altro perché c’è da mettere in sicurezza l’economia nazionale alla vigilia di scadenze decisive, che richiederebbero scelte fortemente politiche. Ma non orienterà in alcun modo gli attori della partita. Perciò, naufragata la possibilità di una riedizione del governo tra 5 Stelle e Lega, che si sono messi fuori gioco da soli, non gli resta che verificare il perimetro — cioè i numeri — dell’ipotetica alleanza prospettata (con diverse variabili, compresa la «formazione Ursula» vagheggiata da Prodi) tra democratici e grillini. Potrebbe essere l’unica carta per non sciogliere le Camere.Epotrebbe prendere corpo, sia pure in forma ancora piuttosto vaga, nelle prossime ore. Probabilmente ai potenziali partner giallorossi sarebbe necessario qualche giorno di decantazione e di approfondimenti, se davvero volessero esplorare questa strada, per mettereafuoco un contratto di programma e relative strategie. Il capo dello Stato concederà un supplemento temporale per i negoziati, purché gli venga esplicitamente chiesto. Ma non sarebbe questione di settimane, per lui, quanto di giorni. Trascorsi i quali non potrà che far scattare il tutti a casa, rassegnandosi al voto. Al quale non potrebbe portarci questo esecutivo dimissionario, ma un governo di garanzia elettorale insediato personalmente da Quirinale. Una mossa obbligata, che non ci sarebbe neppur bisogno di spiegare. Non a caso Matteo Salvini, ministro dell’Interno (che per prassi dovrebbe custodire la macchina elettorale), si candida a premier. Per di più minacciando già di convocare le piazze se nascesse un nuovo governo. Assurdo immaginare che resti al Viminale.
Marzio Breda sul Corriere a pagina 6.
Matteo Renzi in Aula. Dal suo scranno del Senato parla da leader e benedice un governo istituzionale, che salvi il Paese e faccia la manovra. Scagliando un dardo velenoso al leader del suo partito, con quell’accusa di «connivenza» con Salvini per andare al voto a ottobre, impedendo la formazione di un nuovo esecutivo. Si premura pure, Renzi, di chiarire che lui non ne farà parte per tenersi le mani libere e nemmeno Lotti e la Boschi del suo «giglio magico».
Stampa a pagina 6.
EDITORIALI E OPINIONI
Il rischio di allungare i tempi. I fautori di un rapido sbocco della crisi, grazie a un capovolgimento delle alleanze in Parlamento, con al primo posto la volontà della maggioranza dei parlamentari di evitare le elezioni e quella dei partiti più in difficoltà di impedire la vittoria nelle urne di Salvini, l’avevano fatta troppo facile.
Marcello Sorgi sulla Stampa. More
Da ieri sono più in salita, sia la strada del ribaltone 5 stelle-Pd vagheggiato in questi giorni d’attesa della consacrazione parlamentare della crisi, sia quella di un Conte-bis che lo stesso presidente del Consiglio dimissionario ha lasciato intuire al termine del suo intervento al Senato, durissimo con Salvini ma contenente le linee essenziali del programma di un nuovo governo, a cominciare da una robusta iniezione di ambientalismo ed ecologismo occhieggiante a sinistra. E non solo per i toni esagerati e per i giudizi pesanti che tutti i protagonisti di questo complicato passaggio si sono scambiati, avendo cura – vedi soprattutto Salvini, nella veste del maggiore imputato della rottura, che ha ritirato la mozione di sfiducia – di accompagnarli con qualche apertura, spiragli di interlocuzione tattica quasi obbligatori all’inizio di una trattativa complessa. Conte contro Salvini e la Lega, quindi. E Salvini contro Conte e Di Maio. E Renzi contro tutti, ma deciso a portare avanti il suo progetto di intesa con i 5 stelle. E Zingaretti contro Renzi e Conte. Come si possa arrivare, partendo da queste posizioni, a comporre una nuova maggioranza e un nuovo governo, è difficile dire. Il compito del Presidente della Repubblica, che comincia oggi le consultazioni, si presenta assai arduo. E i fautori di un rapido sbocco della crisi, grazie a un capovolgimento delle alleanze in Parlamento, con al primo posto la volontà della maggioranza dei parlamentari di evitare le elezioni e quella dei partiti più in difficoltà di impedire la vittoria nelle urne di Salvini, l’avevano fatta troppo facile. È vero che siamo solo all’inizio. Le vere strategie, e le ipotesi subordinate, fondamentali in questo genere di negoziati, verranno fuori nel chiuso dello studio alla Vetrata del Quirinale. Dove, ad esempio, è prevedibile che il Capitano leghista si presenterà con un volto più dimesso, come suol fare sovente in privato, rivolgendosi al Capo dello Stato, magari con parole diverse, così: io avrò anche sbagliato ad aprire la crisi, sebbene abbia detto in Parlamento che rifarei tutto quel che ho fatto. Ma basta questo per mandare all’opposizione il primo partito del Paese, uscito dalle Europee con il 34 per cento e accreditato nei sondaggi di arrivare al 40? E un simile atteggiamento avrà anche il leader del Pd: mi è perfettamente chiaro cosa ha spinto Renzi a fare la sua proposta, spiegherà a Mattarella, ma il segretario del partito sono io. E senza un accordo chiaro, di medio termine e sorretto da una larga maggioranza (la famosa “formula Ursula”, cara a Prodi, comprensiva di Forza Italia), in quest’avventura non mi ci metto. Salvini e Zingaretti, insomma, chiederanno al Quirinale di essere garantiti. E il Capo dello Stato, nel delineare il quadro politico che uscirà dalle consultazioni, prima di assumere l’iniziativa anche di questo dovrà tener conto. Per evitare che, come l’anno scorso, la crisi prenda tempi interminabili in attesa che ad esempio maturi un nuovo accordo giallo-verde. Ma anche che si indirizzi verso un andamento frettoloso, con un ribaltone che aprirebbe nel Paese una mezza guerra civile. Inoltre Mattarella dovrà annotare le incompatibilità già maturate prima ancora dell’apertura della crisi. Pur non potendo escludere del tutto un rammendo tra 5 stelle e Lega, infatti, immaginare Conte e Salvini di nuovo insieme nello stesso governo è impossibile. E allo stesso modo, pensare a un governo Pd-5 stelle guidato dallo stesso Conte e magari senza Di Maio, non esiste. Poi c’è la questione Renzi: dentro o no? Lui s’è chiamato fuori, perché ha altri progetti politici per la testa, ma Zingaretti il nome dell’ex-premier lo userà, per non lasciargli mano libera e per rendere più corposa e difficile la trattativa con i pentastellati, per i quali ingoiare il rospo non è facile, e un incubo l’idea di Salvini che tutti i giorni dall’opposizione gridi contro il “governo Renzi-Boschi-Lotti”. Tra il dire e il fare, al dunque, c’è di mezzo il mare. In condizioni normali e nel regime proporzionale in cui siamo riprecipitati, il Quirinale valuterebbe l’ipotesi di proporre un “governo di scopo”, “elettorale” o “di decantazione”, come si chiamavano ai vecchi tempi, per approvare la legge di stabilità e evitare l’aumento dell’Iva. Ma si sa, qui di normale non c’è rimasto più niente.
Il sentiero stretto. Il premier che i capi di Cinque Stelle e Lega avevano designato e presentato come mero esecutore del loro trionfale e velleitario contratto del cambiamento, alla fine esce a testa alta. E ridimensiona i presunti «padroni» della maggioranza giallo-verde. Conte potrebbe diventare uno dei candidati naturali a guidarlo. Ma qui si entra nella terra incognita di una crisi dai contorni inediti. Alle diffidenze tra un partito e l’altro si sommano i contrasti all’interno di ogni forza politica. Il rischio di tenere l’Italia in sospeso mentre si affastellano le decisioni da prendere è quello che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, vuole evitare.
Massimo Franco sul Corriere.More
La crisi è aperta. Ma sarà necessario qualche giorno, se non qualche settimana, per capire come si chiuderà: se con elezioni anticipate entro l’autunno, accompagnate da un esecutivo di garanzia; oppure con un rilancio della legislatura su nuove basi, in termini di alleanze e di programma. L’unica cosa altamente improbabile sembra una riedizione del governo Movimento Cinque Stelle-Lega guidato da Giuseppe Conte. Nonostante le manovre disperatamente tattiche con le quali gli orfani della maggioranza giallo-verde cercano di farla sopravvivere. La durezza inaspettata e il rigore usati ieri dal presidente del Consiglio nei confronti del suo vice e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, uniti a un paio di bacchettate nei confronti dello stesso grillino Luigi Di Maio, sono il testamento di una persona che voleva uscire da Palazzo Chigi con dignità. Bisogna dare atto a Conte di esserci ampiamente riuscito, togliendosi non un paio ma un mucchietto di sassolini dalle scarpe. Il premier che i capi di Cinque Stelle e Lega avevano designato e presentato come mero esecutore del loro trionfale e velleitario contratto del cambiamento, alla fine esce a testa alta. E ridimensiona i presunti «padroni» della maggioranza giallo-verde. Faceva impressione osservare ai banchi del governo, seduto accantoaConte, un Salvini nervoso, inquieto, e alla fine quasi annichilito mentre il premier, impassibile, demoliva i suoi comportamenti da vicepremier e da titolare del Viminale. Lo ha accusato di avere esposto l’Italia alla speculazione finanziaria provocando a freddo una crisi in piena estate solo per il proprio tornaconto elettorale. Ha passato in rassegna le assenze dal Parlamento quando si trattava di parlare dei collegamenti Lega-Russia; le consultazioni parallele con le parti sociali al ministero dell’Interno; gli sconfinamenti nelle competenze di altri ministri; il sabotaggio di fatto delle trattative con la Commissione europea: tutto subordinato alle sue mire su Palazzo Chigi tramite blitz elettorale. Con malizia, si dovrebbe pensare che se il prossimo governo prendesse forma intorno a un patto con ambizioni di legislatura tra M5S e Pd, con le «comunicazioni» di ieri in Senato Conte potrebbe diventare uno dei candidati naturali a guidarlo. Ma qui si entra nella terra incognita di una crisi dai contorni inediti. Alle diffidenze tra un partito e l’altro si sommano i contrasti all’interno di ogni forza politica. Il rischio di tenere l’Italia in sospeso mentre si affastellano le decisioni da prendere è quello che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, vuole evitare. Per questo, dopo le dimissioni presentategli ieri sera da Conte, ha intenzione di capire quanto prima quali sono le indicazioni dalle quali partire, senza ulteriori rinvii e perdite di tempo. Le opzioni rimangono due: o un nuovo governo che segni una netta discontinuità rispetto all’attuale, e cerchi di arrivare fino alle elezioni del prossimo capo dello Stato, nel 2022; o un esecutivo che prenda atto dell’impossibilità di trovare in Parlamento una maggioranza duratura, e dunque porti quanto prima alle urne. Ipotesi intermedie, come quella di un governo che dovrebbe preparare l’eventuale accordo M5S-Pd, non esistono. Prolungherebbero solo la precarietà e l’opacità dei rapporti, senza assicurare un esito positivo e senza scongiurare tensioni sociali crescenti. La sensazione è che la stragrande maggioranza di deputati e senatori non voglia la fine della legislatura. Ma potrebbe non bastare. La cautela che i protagonisti stanno mostrando è dunque quasi obbligata. Conferma la consapevolezza di una situazione tuttora in bilico. La discontinuità invocata dal Pd di Nicola Zingaretti lascia indovinare una fondata diffidenza nei confronti di Cinque Stelle e Lega; e in parallelo la consapevolezza del segretario di avere un controllo relativo sui gruppi parlamentari plasmati dal renzismo. I piani scissionistici dell’ex premier gettano un’ombra pesante sulla prospettiva di un’alleanza duratura tra Pd e M5S. Gli attacchi che i Dem hanno intensificato contro Conte sembrano fatti per scongiurare la sua permanenza a Palazzo Chigi in nome della rottura con la Lega; e per pretendere dal Movimento il «mea culpa» per quattordici mesi di «contratto». Ma è difficile che la discontinuità possa arrivare a questo punto. Eppure, il sentiero è stretto sia per i grillini, sia per il Pd. Se restano lontani, diventeranno alleati involontari e impotenti del progetto salviniano di elezioni subito. E se si alleeranno senza convinzione, potrebbero favorire una vittoria della Lega ancora più netta all’inizio del 2020.
La partita del 2022 per gestire l’operazione Colle. L’idea che attraversa il Parlamento è che si possa riproporre a distanza di anni lo «schema Ciampi», il cui percorso politico rimase sempre dentro il perimetro delle istituzioni: da Banca d’Italia a Palazzo Chigi, fino al Quirinale. Che poi è il vero oggetto della contesa di questa crisi. Perché in ballo non c’è (tanto) il governo ma chi eleggerà il prossimo capo dello Stato.
Francesco Verderami sul Corriere. More
La maggioranza dei senatori lascia Palazzo Madama con la convinzione che Pd e M5S abbiano già l’accordo. È come se tutto fosse già fatto, tutto scontato. Ma la realtà si incarica di confutare una facile scommessa. Perché da una parte c’è l’intenzione del Quirinale di non dilatare i tempi della crisi, dall’altra c’è l’esigenza del Pd di non costruire soluzioni improvvisate «con un altro premier per caso». In mezzo c’è il rischio che la toppa politica si riveli peggiore del buco. Dunque servirà del tempo per quanto il tempo stringa, e serviranno — secondo le previsioni dei dirigenti dem — «almeno un paio di giri di consultazioni e un paio di settimane» per verificare la possibilità di formare un nuovo governo. Di Maio e Zingaretti, per esempio, dovranno finalmente incontrarsi, siccome non basteranno più gli sherpa a tenere i contatti, visto che finora Grillo e Casaleggio si sono negati persino al telefono. Fare un governo solo per farlo, sarebbe fare il gioco di Salvini, consentirgli di trasformare la sconfitta vissuta ieri nel Palazzo in una successiva vittoria nel Paese. Nel Pd soprattutto si avverte la preoccupazione di chi ritiene che non siano solo in ballo le sorti del partito «ma del sistema», e che per superare questo tornante sia necessaria a Palazzo Chigi «una personalità capace di affrontare la complessità dei problemi italiani connessi a loro volta alla fragilità del sistema europeo». Tradotto dal politichese, dall’analisi finisce per emergere il profilo di «Draghi, il cui nome da solo vale cento punti di spread. Il problema è verificare se i grillini reggerebbero un simile nome». Allora si capisce come mai il Pd abbia bisogno di tempo, anche perché quel nome potrebbe essere pronunciato «solo se fosse una soluzione, non un’ipotesi. E solo se si verificasse una chiara condizione di praticabilità». E il nodo della «praticabilità» non si limiterebbe alla reazione dei 5 Stelle, ma — secondo la tesi di autorevoli dirigenti dem — riguarderebbe anche l’impatto su «un Paese che alle Europee ha votato in larga misura per i populisti» e su «certi settori della sinistra dove alberga ancora una certa ritrosia». Tuttavia, se «al nome si giunge attraverso l’analisi» e se l’analisi della situazione è che «in gioco c’è il sistema», le altre ipotesi darebbero l’idea di «un ripiego», e alcune sarebbero «impraticabili»: come il Conte-bis. I grillini sfruttano la sopravvenuta notorietà del premier dimissionario, sono pronti a lanciarlo come proprio candidato nel caso si scivolasse verso il voto, che è una prospettiva ancora in campo. Il Pd studia le loro mosse, teme che in caso di elezioni lo scontro Conte-Salvini possa bipolarizzare la sfida, utile a far dimenticare la disastrosa gestione gialloverde e ad oscurare gli altri partiti. Perciò il Nazareno è guardingo, per questo c’è bisogno di tempo. Ed è così che si torna allo schema originario: o si arriva a un governo di legislatura o si va alle urne. Per evitarle non basterebbe un «contratto alla tedesca», sarebbe «indispensabile» una personalità capace di gestirlo. Nelle scorse settimane il nome di Draghi veniva citato solo dai maggiorenti dei partiti, nei conciliaboli riservati, da ieri ha preso a circolare anche nei capannelli dei senatori presenti al dibattito a Palazzo Madama, e in modo bipartisan. In fondo era a Draghi che siriferiva giusto un mese fa Renzi, quando sosteneva che «all’Italia servirebbe la guida di una personalità di statura internazionale», è a Draghi che con regolarità si appella lo stesso Berlusconi, ed è sempre stato Draghi lo spauracchio dei sovranisti. L’idea che attraversa il Parlamento è che si possa riproporre a distanza di anni lo «schema Ciampi», il cui percorso politico rimase sempre dentro il perimetro delle istituzioni: da Banca d’Italia a Palazzo Chigi, fino al Quirinale. Che poi è il vero oggetto della contesa di questa crisi. Perché in ballo non c’è (tanto) il governo ma chi eleggerà il prossimo capo dello Stato.
Crisi, tempi stretti soluzione lontana. Ieri il Senato poteva vivere una memorabile giornata di vita parlamentare e invece ne ha vissuto una abbastanza mediocre. L’epilogo del governo del cambiamento doveva essere l’occasione per una riflessione corale intorno ai quattordici mesi dell’esperienza populista e invece ognuno ha recitato la sua parte secondo schemi prevedibili e con scarsa passione civile. Il premier aveva promesso di aprire la crisi in Parlamento e lo ha fatto, ma il suo discorso è stato una resa dei conti con Salvini, caricato di tutte le accuse che Conte gli aveva risparmiato fino a ieri.
Stefano Folli su Repubblica.More
Ieri il Senato poteva vivere una memorabile giornata di vita parlamentare e invece ne ha vissuto una abbastanza mediocre. L’epilogo del governo del cambiamento doveva essere l’occasione per una riflessione corale intorno ai quattordici mesi dell’esperienza populista — un doppio populismo, come è noto — fino al collasso traumatico. Una pagina a dir poco controversa che resterà comunque nella storia del paese, soprattutto perché pochi credono che il populismo si dissolverà in pochi mesi per il solo fatto di vedere Salvini all’opposizione. Purtroppo a Palazzo Madama ognuno ha recitato la sua parte secondo schemi prevedibili e con scarsa passione civile. Il premier aveva promesso di aprire la crisi in Parlamento e lo ha fatto: gliene va dato atto. Ma il suo discorso è stato per metà dedicato a una resa dei conti con Salvini, caricato di tutte le accuse che Conte gli aveva risparmiato fino a ieri, e per l’altra metà volto ad adombrare una sopravvivenza “al servizio del Paese”, magari alla testa di un esecutivo “bis” fondato sulla nuova alleanza Pd-5S. Naturalmente da oggi l’intera vicenda politica è nelle mani del presidente della Repubblica, per cui le ambizioni e le speranze del premier dimissionario e dei suoi sostenitori a Cinque Stelle sono appese a un filo di fumo. È ovvio che per Grillo, Di Maio e gli altri riuscire a cambiare alleato mantenendo lo stesso presidente del Consiglio equivarrebbe a un trionfo, date le circostanze. Ma per lo stesso motivo c’è da dubitare che il Pd, pur nella cacofonia delle voci, possa mai accettarlo: quindi il premier non è assolto, non gli si perdonano i lunghi silenzi e la connivenza con un ministro dell’Interno che all’improvviso, e solo a crisi aperta, viene dipinto come responsabile di ogni nefandezza. Anche da questo si capisce che il rovesciamento della maggioranza, del tutto legittimo in una democrazia parlamentare, presenta straordinarie difficoltà politiche. Nessuno crede che l’operazione andrà in porto facilmente. Nel Pd si avverte crescente freddezza di fronte alla prospettiva di un abbraccio con i Cinque Stelle. Al punto che Renzi, di nuovo al centro della scena e oratore non del tutto rappresentativo della sua parte politica, ha detto: «Se Salvini vincerà e si andrà a votare, lo dovremo all’accordo di una parte importante del Pd». Frase clamorosa da cui traspare la critica feroce a uno Zingaretti non solo messo all’angolo, ma addirittura accusato di intelligenza con l’avversario. Quando invece, se si tornerà al voto, sarà per l’astrusità di un disegno alternativo che non persuade del tutto né il centrosinistra (riserve sono venute anche da Emma Bonino) né in fondo il movimento grillino nella sua interezza. Questo spiega perché Salvini, al termine di un intervento impacciato, ripetitivo e dai toni più adatti alla campagna elettorale che a un dibattito in Parlamento, abbia sentito il bisogno di tendere la mano ai 5S, dicendosi disposto a un’intesa di breve durata (manovra di bilancio e riforme) prima di votare. L’operazione appare oggi inverosimile e l’uscita sembra concepita pensando più che altro agli elettori grillini a cui si offre un amo. Tuttavia se la crisi si aggroviglia, nonostante la regia del Quirinale, tutte le bizzarrie torneranno in campo. Ecco perché i tempi dettati da Mattarella saranno brevi, forse molto brevi. E i diversivi non saranno ammessi.
Il ballo delle anime perse. È un’anima persa Giuseppe Conte, dal quale ci si aspettava un discorso finalmente all’altezza del ruolo, che trasformasse il vacuo “avvocato del popolo” in un vero “uomo di Stato”. E invece non è stato così, e per offrirsi senza un serio disegno politico a un bis purchessia il premier uscente ha pattinato sulle miserie di questo “anno bellissimo”, raccontandolo per quello che non è stato.
Massimo Giannini su Repubblica. More
Finisce qui. Il “governo del cambiamento” doveva rivoltare l’Italia “come un calzino” e aprire il Parlamento “come una scatoletta di tonno”, e invece va a casa così, in un pomeriggio d’agosto qualsiasi. Senza dignità e senza qualità. Nell’inutile spargimento di recriminazioni tardive e invocazioni blasfeme. Tra rosari e Marie Immacolate, miserie umane e furbate dorotee. Tra un altro trimestre di crescita zero e un’altra nave di disperati bloccata a un braccio di mare da Lampedusa. Finisce con il capolavoro al contrario di Salvini, l’infallibile Capitan Mitraglia, l’Uomo che non doveva chiedere mai e che invece ha sbagliato i tempi e i modi della crisi, e in un colpo solo è riuscito, nell’ordine, a uccidere il governo, a suicidare la Lega, a rianimare Di Maio e a resuscitare il Pd. “Parlamentarizzare” la crisi, come si è detto fin dall’inizio, era un atto dovuto. Sancire solennemente e pubblicamente, di fronte al Senato, la rottura del ridicolo contratto tra privati siglato un anno fa dagli azzeccarbugli lega-stellati era un passaggio necessario. Ma in Parlamento vagano ormai solo anime perse. È un’anima persa Giuseppe Conte, dal quale ci si aspettava un discorso finalmente all’altezza del ruolo, che trasformasse il vacuo “avvocato del popolo” in un vero “uomo di Stato”. E invece non è stato così, e per offrirsi senza un serio disegno politico a un bis purchessia il premier uscente ha pattinato sulle miserie di questo “anno bellissimo”, raccontandolo per quello che non è stato. Momentaneamente ridisceso da Marte, Conte si è accorto quattordici mesi dopo che Salvini non è Churchill e forse neanche De Gaulle. Solo adesso ha trovato il coraggio di dirgli in faccia tutto quello che in 445 giorni di umiliante convivenza gli ha invece lasciato fare serenamente. Le norme anti-migranti e la scarsa “cultura delle regole”, la “grancassa mediatica” e la “foga comunicativa”, la fuga sulle vicende russe e persino l’abuso dei “simboli religiosi”. Oggi il Matteo Furioso che “invoca le piazze e chiede pieni poteri” lo preoccupa: ma dov’era, l’ineffabile Sor Contento di Palazzo Chigi, mentre Salvini sulla Ruspa Illiberale spianava lui e Di Maio con le leggi del neo-sovranismo criminogeno, dalla circolare sui prefetti-sceriffi alla nuova legittima difesa, dalla direttiva sulle Ong ai due decreti sicurezza? È giusto chiedere al padre-padrone della Lega un’assunzione di responsabilità rispetto alla crisi. Ma è ancora più giusto che chi ha guidato il Paese insieme a lui per un anno, ed ora gli rimprovera in ritardo gli eccessi ideologici da ultradestra, compia un’analoga assunzione di responsabilità rispetto al governo. Tanto più se ora si immagina candidato a presiederne un altro, stavolta con un alleato di centrosinistra. Un’ipotesi che, a questo punto, sembra davvero marziana. Ma è un’anima persa anche Salvini, che ha miseramente fallito proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto spiegare con parole forti e chiare le ragioni di un’eutanasia politica che era nelle cose, già all’atto di nascita di un governo insensato e innervato solo da una comune venatura sfascio-populista. Il beach-leader è stato penoso nei toni e nei contenuti, dimostrando una volta di più che il suo posto non è il Parlamento ma il Papeete. Tra madonne e fate turchine, ha riciclato agli eletti il solito ammuffito teorema dei troppi “signor no” (i ministri pentasellati che hanno fatto saltare il governo) e rifilato agli elettori una sua implicita Italexit (una manovra-monstre da 50 miliardi che farebbe saltare il bilancio). Nient’altro: solo bullismo a buon mercato, senza sbocco né costrutto. Salvini ora rischia tutto. Ha perso il Viminale, e questa è comunque una buona notizia per gli italiani, e può perdere anche le elezioni anticipate. Non è affatto scontato che le otterrà. Ed anche se le ottenesse, ci arriverebbe comunque ammaccato dal caos nel quale ha precipitato il Paese e braccato dalle inchieste giudiziarie dalle quali non riesce ad uscire. Resta un’anima persa anche Di Maio, nonostante Salvini gli abbia regalato l’alibi del “tradimento”. Non può essere una rimpatriata a Casa Grillo a rimettere insieme i cocci di un Movimento che in un solo anno ha perso tutto: la testa, il cuore e sei milioni di voti. Non può essere un’assemblea di condominio nella villa di un comico, a suggellare la “svolta” di una forza politica che chiude un’esperienza di governo con quello che solo oggi si rivela un “cuginetto di Orban” e pretende di aprirne un’altra con quello che solo ieri era il “partito di Bibbiano”. Come se Lega e Pd fossero intercambiabili, esecrabili e/o riabilitabili secondo la convenienza del momento. Come se questa inversione di marcia non implicasse un ripensamento totale dell’identità e dei valori che devono giustificarla, e dunque un cambiamento radicale della missione politica e dei gruppi dirigenti che devono incarnarla. Queste non sono “semplificazioni organizzative”: sono solo mistificazioni democratiche che un vero, grande partito di massa non si può piu permettere. Può sembrare un paradosso, ma in questa folle estate italiana l’unico che finora ha forse salvato la faccia, restando fermo mentre la giostra girava e impazziva, è Zingaretti. Ha subito l’incredibile sterzata movimentista di Renzi, ma ha sopportato anche a costo di apparire ancora una volta troppo arrendevole. Non si è precipitato al capezzale del Colosso Gialloverde morente e non ha benedetto Il Frankenstein Giallorosso nascente. E adesso può aspettare, senza bruciarsi, le mosse del Quirinale. L’unico porto sicuro, nello sciagurato Paese che li ha ormai chiusi tutti.
Chi ha paura di Conte. Il presidente del Consiglio stava crescendo troppo per lasciargli altro campo libero da fiore all’occhiello del M5S. È lo stesso timore che anima Zingaretti e Renzi, divisi su tutto fuorché sull’ostilità a Conte, tanto comprensibile per ragioni di bottega quanto miope per gli interessi dell’Italia.
Marco Travaglio sul Fatto. More
Rivedendo la nostra copertina sulla sfida all’Ok Corral e parafrasando Clint Eastwood, possiamo tranquillamente dire che quando un pistola incontra un uomo col fucile, il pistola è un uomo morto. Ieri Conte ha sottoposto Salvini al trattamento dell’asfaltatura completa, aiutato dall’ennesimo harakiri mediatico del Cazzaro Verde che si è piazzato al suo fianco sperando di spaventarlo e poi riducendosi a fargli le faccette: solo che era seduto sotto, in posizione di minorità rispetto al premier in piedi che lo prendeva a sberle dall’alto al basso, con una lezione di politica, democrazia, diritto parlamentare e costituzionale, ma anche di dignità e di stile allo scolaretto bullo e somaro. Il quale ha raddoppiato l’autogol parlando subito dopo e rendendo ancor più evidente l’abisso morale, intellettuale e dialettico che lo separa dal premier, con un discorso sgangherato, senza capo né coda: doveva almeno spiegare la crisi più pazza del mondo, invece se n’è scordato o non sapeva che dire. Meglio sbaciucchiare rosari e sacri cuori, fra gli applausi dei leghisti più pii, tipo Calderoli che si sposò col rito celtico davanti al druido. Il confronto ravvicinato fra quei due modelli politico-antropologici crea, agli occhi degl’italiani, un nuovo bipolarismo tutto nel campo “populista”. Conte, a dispetto della doppia propaganda leghista e sinistrista, non è uomo dell’establishment né del vecchio centrosinistra. È l’interprete più apprezzato di un populismo-sovranismo dal volto umano che ottiene risultati in Italia e in Europa, diversamente da quello parolaio, inconcludente e dannoso delle destre. Perciò, oltreché per capitalizzare i sondaggi e liberarsi delle indagini, Salvini ha rovesciato il governo: Conte stava crescendo troppo per lasciargli altro campo libero da fiore all’occhiello del M5S. È lo stesso timore che anima Zingaretti e Renzi, divisi su tutto fuorché sull’ostilità a Conte, tanto comprensibile per ragioni di bottega quanto miope per gli interessi de ll’Italia: se mai nascesse un governo M5S-Pd, l’unica speranza di renderlo popolare sarebbe di affidarlo all’“avvocato del popolo”. Ieri è bastato sentirlo parlare, in un dibattito parlamentare di livello infimo, per instillare in tutti una domanda spontanea: ma perché uno così deve dimettersi? E perché non lo rincorrono tutti per affidargli il nuovo governo? Se non per convinzione, almeno per convenienza, essendo Conte da mesi l’unico leader che batte Salvini nei sondaggi. Figurarsi dopo ieri. Ora il Cazzaro è al punto più basso della sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui.
Fenomenologia del salvinismo democratico che preferisce il Truce. Ex comunisti di destra, terzisti e bella gente. Idiosincrasie, ubbie politiche, qualche ragione e molti errori. L’unica domanda che conta: ha senso dare il vantaggione al Truce? Ci vorrebbe, da parte loro, una autoanalisi e una presa di coscienza su uno schietto dilemma politico: gliele diamo le elezioni risanatrici e glieli diamo i pieni poteri, sì o no?
Giuliano Ferrara sul Foglio. More
Provo a essere serio, serioso, noioso, dunque autorevole. La fenomenologia di Salvini, il Truce, l’ha scritta benissimo Giuseppe De Filippi qui lunedì. Resta da definire la fenomenologia del salvinismo democratico: gente insospettabile (non parlo dei tonti e dei vili) preferisce il Truce al potere, in circostanze emergenziali da lui scelte, piuttosto che il Truce fuori dal Viminale e all’opposizione di un qualsiasi governo e di una maggioranza fondata sul minimo comune denominatore della sua umiliazione politica. Infatti è chiaro che la scelta di fronte a cui si trova una persona sensata di parte democratica e liberale, oggi, è di stabilire quale sia il male minore. L’8 agosto, al culmine di una marcetta autoritaria torsonudista e razzistoide, il truce ha sfiduciato il contratto con i grillozzi e ha chiesto immediate elezioni per passare all’incasso e attribuirsi pieni poteri. Concedergli questo vantaggio di tempi e di posizione, piegando la schiena al suo Diktat, o negarglielo, questo è il problema. Non è che ci siano altri problemi. La legittimità di elezioni anticipate, ovvia. L’aggiramento delle clausole di salvagardia sull’Iva, ovvio. La legittimità teorica di una diversa maggioranza composta dal primo partito e dal secondo partito usciti dalle urne del 4 marzo, ovvia. Il contorsionismo da guappo di cartone del would be dictator che fa retromarcia sulla marcia, salvo nuova giravolta per ridare la voce al popolo, coglionando gli elezionisti in coro un giorno sì e l’altro no, altra legittima ovvietà. Ovvio anche che il Pd trarrebbe qualche vantaggio residuale, roba buona per gli apparati, da una sconfitta ottenuta con presunto onore, passando forse sul cadavere elettorale dei grillozzi. E c’è chi pensa che il Pd dovrebbe attenersi all’idea di un governicchio transitorio per preparare le elezioni, mascherando convergenze impossibili (la posizione di Umberto Ranieri, qui, ieri) o puntare al pasticcio di un governo di legislatura detto Ursula, con un programma “dettagliatissimo”, evidentemente irrealizzabile (Prodi o è intontito o ci fa): vabbè, sono proposte legittime ma non ragionevoli, perché queste sì offrono al Truce la prateria della polemica contro un governo tecnico alla Monti, e in più sono incompatibili con lo stato effettivo delle truppe grillozze, nemiche strategiche ma alleate potenziali contro il nemico principale (rileggersi la storia degli Orazi e Curiazi).
Ma c’è sopra tutto il problema unico, quello del vantaggione. Per negarglielo, il vantaggione, occorre convergere con gli ex alleati buggerati dal Truce, verso i quali esiste una avversione antropologica, politica, sociale e, come dice Calenda, di valori. La cosa “fa senso”, cioè repelle, visto che qui si disse e si conferma che certi figuri vanno combattuti per quel che sono più ancora che per quel che fanno (non si accettano lezioni di antigrillismo da gentucola che lo ha votato e preparato con la polemica anticasta figlia del terzismo). Ma la cosa “fa senso” a nche intendendo il senso come senso comune, come significato, al di là degli umori: il male minore è togliere con ogni mezzo lecito il Truce dal Viminale, dove ha ricoperto il doppio ruolo abusivo e contrario alla costituzione materiale democratica di questo paese, capo della forza e caporione di fazione, in pieno conflitto di interessi, altro che il Cav. E’ un passo elementare semplice, decisivo, specie se accompagnato dalla sua messa in minoranza e dallo sforzo di isolarlo da Berlusconi e dalla stessa Lega amministrativista e di governo seria. Perché dunque esiste un’area salvinista democratica che questa evidenza la trascura o non la comprende affatto? Come è composta? Quali sono le sue ragioni folli? Gli ex comunisti della destra riformista o migliorista guidano nel Pd il gruppone salvinista democratico. Vedono nel Truce one of us, perché è implicato con il suo partito e i suoi uomini nelle affaires, e l’ex comunista, quorum ego, ammira di più il politico che si sporca le mani nel segno dell’effettualità che il politico ipocrita dell’onestà-tà-tà. Vedono nel Truce un produttivista, chissà perché, e un riformatore fiscale, chissà perché, insomma gli offrono un anticipo di simpatia sottolineato dalla convergenza sulle grandi infrastrutture e dall’idea di un blocco sociale-impenditoriale-popolare e perfino sindacale di amici del pil, chissà perché, per non parlare del mito amministrativista e regionalista della Lega. Gli altri gli (ci) hanno tagliato i vitalizi, il Truce non lo avrebbe mai fatto di suo. Sulle politiche per l’immigrazione i destri ex Pci sono naturalmente dalla sua parte, come quei sindaci comunisti francesi delle periferie che cominciarono a pestare sui neri e gli abbronzati e le loro case ben prima che il lepenismo attecchisse e li rapisse, baracca e burattini: detestano l’esibizionismo umanitario, e questo, che è un sentimento genuino, li acceca davanti al razzismo disumano, che è peggio. Il giustizialismo autentico e belluino dei gognanti grillozzi li fa inorridire, ne sono stati vittime e preferiscono, a ogni costo, perfino la minaccia dei pieni poteri, scelgono un teorico e un pratico della giustiziabilità dei deboli e delle zingaracce accoppiata all’impunità per chi governa il sistema (49 milioni, Tribunale dei ministri per la Diciotti). Del crocifisso non sanno che farsene, non sono passati per l’ateo-devozione, ma usato come portachiavi nei comizi ne comprendono il significato bassomachiavellico. Il berlusconismo degli anni passati è stato da un lato pop e tendenza Veronica (e quello si fece giustamente renziano e nazarenico) ma anche, dall’altra parte dello spartiacque, serioso e destrorso e strettamente aziendalista, e questo berlusconismo si incontra bene con la staffetta in cui al posto di Renzi c’è il Truce. Ecco. Quanto ai liberali, terzisti e altra bella gente. Qui prevale uno spirito antirenziano di establishment. Furono trattati male, senza riguardi, da quel cattolico margheritico tracotante, di successo, americanizzante, uno che non sentiva i direttori dei giornali, uno che nella sua ansia di disintermediazione non parlava né con i sindacati né con la Confindustria, e se la giocava in solitario con miti imprenditoriali dell’innovazione cosiddetta e Marchionne. Conta anche il revisionismo storico benemerito, la polemica con l’antifasci – smo all’insegna dell’antiantifascismo. Il Truce si comporta da fascista di balera, ma non bisogna dirlo perché non vogliamo più sentire i cori di “Bella ciao” e ascoltare lezioncine stantie che in nome della battaglia contro l’autoritarismo, il razzismo e il piatto e sciatto mussolinismo torsonudista, rifanno dell’antifasci – smo una pietra di paragone (qui c’è anche la concorrenza tra Corriere terzista e Repubblica). Decisiva anche l’avversione comprensibile verso l’assistenzialismo clientelare e sudista dei grillozzi, e certi modi antipartito e antisistema che un liberale perbene non può sopportare quando nascano da spinte anarchiche. Contro la casta ma con le élite è il loro incauto slogan interiore. Anche Croce pensò per un lungo momento che Mussolini avrebbe rimesso le cose a posto, e pazienza per le squadracce e il progetto autoritario che ai suoi occhi si vedeva e non si vedeva. Insomma, nella fenomenologia del salvinismo democratico si affollano ragioni buone e cattive, comprensibili e meno comprensibili, ma radicate e serie. Per questo ci vorrebbe una autoanalisi, una presa di coscienza, e una scelta formulata non sulle ubbie, sulle idiosincrasie, sulle premesse ideologiche, ma su uno schietto dilemma politico: gliele diamo le elezioni risanatrici e glieli diamo i pieni poteri, sì o no?
Caro Matteo, che pasticcio ci hai combinato. Diavolo di un Salvini. Da un anno le chiediamo di staccare la spina al governo con Di Maio, ma mai più immaginavamo che lo avrebbe fatto in questo modo e soprattutto con questi (probabili) esiti.
Alessandro Sallusti sul Giornale.More
La bella notizia è che questo governo è ufficialmente finito. Ma la giornata di ieri ce ne ha offerte altre due. La prima: Conte, parlando al Senato, ha sbattuto con violenza la porta in faccia a Salvini («è mosso da interessi personali, irresponsabile, imprudente, opportunista, maldestro») decretando la fine dell’alleanza presente e futura con la Lega. La seconda: Conte, nella sua «comunicazione» ha fecondato l’embrione di un nuovo governo tra Cinque Stelle e Pd e si è candidato, con un discorso programmatico più da premier entrante che uscente, a guidarlo – con eccesso di ambizione – lui stesso. Dopo aver ascoltato la replica di Renzi, direi che la pratica è ben avviata. Le elezioni, quindi, si allontanano e si avvicina un governo di sinistra-sinistra (Cinque Stelle-Pd). Per ora, in attesa del lavoro di Mattarella, parliamo di «tendenze», ma se il buongiorno si vede dal mattino non siamo messi bene. Diavolo di un Salvini. Da un anno le chiediamo di staccare la spina al governo con Di Maio, ma mai più immaginavamo che lo avrebbe fatto in questo modo e soprattutto con questi (probabili) esiti. Affidare il Paese a un partito, i 5 Stelle, che ha portato l’Italia in recessione (oltre che dimezzato i suoi consensi in dodici mesi) e al partito, il Pd, che ha clamorosamente perso le ultime elezioni, è un controsenso, oltre che cosa ingiusta e folle. Due debolezze non potranno mai fare una forza, se non quella di aggrapparsi alle poltrone per più tempo possibile. Non sappiamo quali siano i margini di manovra del presidente Mattarella per evitare di replicare il disastro del contratto gialloverde cambiando semplicemente il verde con il rosso. È vero che la politica si regge sui numeri, ma i numeri del Paese virtuale (il Parlamento, dove Pd e M5s sono maggioranza) non possono valere più di quelli del Paese reale che da anni premiano a ogni elezione, sempre più chiaramente e stabilmente, il centrodestra a trazione leghista. Io spero ancora che Mattarella non permetta a un leader fallito e commissariato dai suoi (Di Maio) e a un premier cacciato dagli italiani e dal suo partito (Renzi) di riprendere il potere attraverso giochi di palazzo. Un modo ci deve essere. A me vengono in mente le elezioni, ma se qualcuno ha idee migliori, si accomodi.
Così la crisi al buio terrorizza il Palazzo: tutti sono a rischio. Ieri al Senato Salvini non ha dato il meglio di sé e il timore di non avere le elezioni, di non essere più al riparo nel governo e, magari, di dover subire un governo che nasce per emarginarlo con una nuova legge elettorale proporzionale, lo ha costretto a subire oltre agli insulti di Conte anche una porta in faccia dai grillini.
Augusto Minzolini sul Giornale. More
A volte la paura tira fuori il coraggio. Nel giorno del giudizio Giuseppe Conte ha sfoderato gli artigli. Il suo «j’accuse» contro Matteo Salvini (non gli ha risparmiato neppure l’«affaire russo», agitando, di fatto, un drappo rosso per aizzare i magistrati), pronunciato con il ministro dell’Interno seduto accanto, gli ha conquistato la simpatia degli ex nemici piddini: forse non sarà lui il prossimo premier, ma si è iscritto di diritto nella rosa dei papabili. «Fantastico – il commento del suo portavoce, Rocco Casalino – sembrava Forlani. Un coniglio mannaro». Altre volte, invece, la paura fa brutti scherzi. Ieri al Senato Salvini non ha dato il meglio di sé e il timore di non avere le elezioni, di non essere più al riparo nel governo e, magari, di dover subire un governo che nasce per emarginarlo con una nuova legge elettorale proporzionale, lo ha costretto a subire oltre agli insulti di Conte anche una porta in faccia dai grillini quando ha tentato di riaprire la strada ad un esecutivo gialloverde per ridurre i parlamentari, fare una legge di bilancio e andare alle urne: più che una proposta, una serie di convulsioni. Tant’è che il leghista Gianmarco Centinaio si è sorbito una battuta al vetriolo di Matteo Renzi in mezzo al transatlantico di Palazzo Madama: «Ma che avete fatto? Vi siete capottati nel parcheggio!». E ancora: la paura di scansare i guai si sposa con la speranza di chi è nei guai. Così Pierluigi Castagnetti, amico di lunga data di un Mattarella per ora attento a non pestare troppo i piedi ai sovranisti, volge al pessimismo sul governo nascituro: «Io vorrei una legge elettorale proporzionale, ma per approvarla ci vuole un governo. Ed è difficile. Troppe le distanze tra il Pd e i grillini. Poco il tempo a disposizione per ridurle». Un ragionamento che fa rima con l’ultima speranza di Salvini: «Non hanno possibilità di mettere in piedi un governo ad agosto, a meno che non l’avessero già pronto». C’è un sentimento che muove i fili in questa paradossale crisi di governo: appunto, la paura. «Il momento – confida Pierferdinando Casini – è dominato dalle paure di tanti. Addirittura penso che sotto sotto il Cav faccia gli scongiuri per avere un altro governo e non il voto». La paura pervade l’intero Parlamento. «Almeno l’80% dei deputati e dei senatori – spiega il sottosegretario grillino Vito Crimi – non vuole le elezioni. Elezioni che comunque non si terrebbero prima di marzo: basta farsi due conti – e Mattarella li avrà fatti – per scoprire che si rischierebbe l’esercizio provvisorio. Ci sono i timori di chi rifugge il voto e di chi, invece, lo vorrebbe perché gli risolverebbe un sacco di problemi. Zingaretti, ad esempio, vorrebbe le urne. Pensa che la campagna elettorale contro Salvini darebbe una ragione sociale a questo Pd. Pensa un po’. Solo che è un calcolo sbagliato. Eppure avrebbe pure lui tutto da guadagnare da una nuova legge elettorale proporzionale: una legge che bisognerebbe fare in silenzio. Una legge che terrorizza Salvini. Per evitare una simile prospettiva sarebbe pronto anche ad accettare l’umiliazione di tornare con noi, lasciando addirittura ad uno di noi il Viminale». Già, i tormenti di Zingaretti che andranno in scena nella direzione del Pd di oggi, sono uno dei rebus di questa crisi. Tutti ne sono a conoscenza: c’è chi confida che sia solo tattica, convinto che alla fine il segretario sia pronto a dire «sì» al governo con i grillini; e chi, invece, sostiene che vorrebbe evitarlo perché qualcuno nella sua cerchia lo giudica scabroso. Così Renzi, vero motore del partito «anti-voto», per evitare scherzi nel suo intervento al Senato ha messo i dilemmi di Zingaretti sotto i riflettori: «Spero che qualcuno del nostro schieramento non aiuti Salvini in questa irresponsabile rincorsa alle urne». Poi ha spiegato i rischi che il segretario correrebbe ad impuntarsi in favore delle elezioni: «Zingaretti dovrebbe spiegare perché è andato alle elezioni per perderle e per perdere poi anche l’Umbria, l’Emilia. Sarebbe davvero difficile spiegare una mossa del genere, la “ratio” di chi corre verso la sconfitta. Anche perché le cose si stanno mettendo per il meglio. Non credo che si possa arrivare ad un Conte bis, ma l’ex premier potrebbe andare in Europa. Mentre per il governo i nomi seri sono Cantone, Giovannini e qualcun altro». Divisioni nel Pd, ma anche tra i grillini. Del resto come potrebbe un grillino come Gianluigi Paragone, di origini leghiste, essere contento di un’alleanza con il Pd. «Un governo grillini e Pd? – sospira – Alla fine lo faranno. Tutti hanno paura di votare. Io, invece, alle elezioni ci andrei, ma naturalmente non mi ricandiderei. Tornerei alla professione». Anche sull’altro versante, quello di chi agogna al voto e immagina un nuovo governo come un’agonia, regna la paura. Le speranze sono riposte proprio sui vari Zingaretti, o sui vari Paragone. «Come gira il vento – confida Lorenzo Fontana, uno degli esponenti più vicini a Salvini – si vedrà solo tra due giorni. Loro non hanno molto tempo e c’è chi si oppone a questo epilogo sia nel Pd, sia tra i 5 stelle». Eppoi c’è chi punta, avendoli visti da vicino, sull’imperizia dei grillini. «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare» è il proverbio in cui si rifugia il sottosegretario all’Economia, Massimo Garavaglia. «E c’è bisogno – aggiunge – di due che sappiano lavorare. Ma con i grillini dove cavolo vanno…!». Paure, timori, speranze per una «crisi» di governo che, a cose fatte, ora non vorrebbe aver aperto nessuno. Salvini si mangia le dita. I suoi sono disorientati. E i dubbi e i timori per il futuro si leggono tutti sul viso stralunato di Giancarlo Giorgetti, che siede proprio sotto Conte, mentre il premier strapazza Salvini: alla fine del discorso Salvini ignora Conte, mentre Giorgetti gli stringe la mano. Il numero due della Lega è interdetto, ancora si domanda come tutto questo sia potuto accadere. E a chi gli pone la fatidica domanda: perché Salvini ha tentato l’azzardo di Ferragosto? Risponde con un’espressione che è un poema, accompagnata solo da due parole laconiche: «Che volete che vi dica? Chi lo sa? Chiedetelo a lui». Una domanda che resta senza risposta e rimane un enigma. Solo che alla fine tanti destini sono in ballo in quella che Renzi ha ribattezzato «la crisi più pazza del mondo». Una commedia poco seria, ma che rischia di trasformarsi per molti in dramma. «Niente paura!» è il sarcasmo di Stefania Craxi: «Visto che la politica non c’è più un buffone vale l’altro!».
Zingaretti-Di Maio. La trattativa è partita. No del Pd al bis del premier e il nodo Renzi. Telefonata tra i leader e prima intesa: serve un accordo di legislatura. Il 5S: “Puoi darmi garanzie su Matteo?” La risposta: “No”. Il timore che l’ex premier faccia la scissione per pesare di più nel nuovo governo. Oggi la direzione dem. More
«Ma voi siete sicuri che se facciamo partire un governo politico di legislatura, poi Renzi non lo faccia cadere tra due o cinque mesi?». La domanda è di Luigi Di Maio a Nicola Zingaretti, almeno a sentire il racconto di chi ha assistito al primo contatto diretto tra i due. E con sincerità, Zingaretti non prova a rassicurarlo, anzi. «Non possiamo dare alcuna garanzia su cosa potrà fare Renzi».
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«Penso che possiamo ripartire solo da Conte. Anche perché il Movimento, e la mia leadership, possono reggere soltanto con lui a Palazzo Chigi». Pausa breve, replica gelida del dem: «Non posso accettare un bis di chi è stato presidente del Consiglio del governo gialloverde». Non siamo neanche alla prima puntata della crisi, tutto può ancora succedere e molto può ancora cambiare. E i due protagonisti della trattativa prendono posizione ai blocchi partenza. Hanno convinzioni divergenti e un obiettivo in comune: dare il colpo di grazia a Salvini. Al telefono – non è il primo contatto di questi giorni, ma ovviamente il più importante – decidono di partire da ciò che può unire. «Se facciamo questo governo – sostiene Di Maio – deve durare tre anni». Zingaretti è d’accordo: «È la condizione che pongo per sedermi al tavolo». Sanno bene entrambi che 36 mesi di vita segnano il confine da superare per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica.
Repubblica pagina 5.
Il paletti del partito del voto. C’è un gioco di sponda tra Pd e Quirinale per costringere il M5s alla resa immediata. Le condizioni di Zingaretti per far partire il nuovo governo, la battaglia in vista della direzione. Lorenzo Fontana conserva un residuo di speranza: “Tutto si decide nei prossimi due giorni. Pd e M5s hanno poco tempo per trovare l’intesa”. More
Accanto al ministro degli Affari europei, passa il collega leghista dell’Agricoltura, Gian Marco Centinaio: “Cosa succederà? Chiedetelo al Pd”. Solo che il Pd, come spesso capita, segue logiche tutte sue: e così, mentre si certifica la crisi del governo gialloverde, mentre Giuseppe Conte tronca qualsiasi possibile ritorno di fiamma tra Lega e M5s, i democratici s’accapigliano su una frase da inserire, oppure no, nel documento che domani la direzione del partito dovrà approvare. Perché c’è chi, tra le truppe renziane e non solo, vorrebbe assegnare al segretario Nicola Zingaretti e ai due capigruppo un mandato abbastanza indefinito in vista della sua salita al Quirinale, e chi invece pretende che ci sia una “radicale discontinuità” – eccolo, il passaggio incriminato – come condizione necessaria per aprire una trattativa che porti ad un eventuale governo demogrillino.
E certo Zingaretti, e ancor più di lui il presidente Paolo Gentiloni, mostrano una ferrea irremovibilità. “Se qualcuno pensa che basti cambiare i nostri ministri con quelli della Lega, si sbaglia di grosso”, conferma Antonio Misiani, responsabile economico del Pd. E però, dietro questa apparente fermezza, traspare in controluce la voglia di farlo nascere, il nuovo governo, solo però tenendo il coltello dalla parte del manico. Utilizzare, cioè, lo spauracchio del voto, che per i grillini sarebbe “un suicidio” – parola di un ministro del M5s – come arma di ricatto per costringere Luigi Di Maio a cedere senza condizioni. Che poi, a detta di chi frequenta il Quirinale, è un po’ la stessa strategia che anche Sergio Mattarella ha in mente: paventare il ritorno immediato alle urne per scongiurare il rischio di tatticismi esasperati. “E’ complicata”, dice Pier Luigi Castagnetti, amico del capo dello stato, quando gli si chiede dell’intesa tra Pd e M5s: ma nel dirlo si frega le mani, quasi a volere dare l’idea delle trattative frenetiche in corso e che vivranno domani, nella direzione del Pd, un momento decisivo. Zingaretti vuole un mandato chiaro. Andrà al Colle, con Andrea Marcucci e Graziano Delrio, per spiegare a Mattarella “il minimo sindacale” che il Pd chiede per accettare la responsabilità di governo. La prima richiesta sembra già esaudita, ed è lo scalpo di Giuseppe Conte. E basta sentire Luigi Zanda per capirlo: “Ho apprezzato a tal punto le critiche del premier a Salvini – dice il tesoriere del Pd, subito dopo la requisitoria dell’“avvocato del popolo” contro il Capitano – che quasi mi è sorto il dubbio che non fosse lo stesso premier che ha guidato questo governo per un anno e più”. Ed è un’anticipazione quasi perfetta del post che di lì a poco Zingaretti consegnerà ai social. E oltre al premier – per il quale si parla di un futuribile incarico da commissario europeo – bisognerà pretendere anche un ridimensionamento degli incarichi di Di Maio, che di certo non potrà fare il vicepremier né il doppio ministro. E neppure la riscrittura di un “contratto” è negli auspici di Zingaretti, che pretende invece una “ampia maggioranza parlamentare”. Sembra il preludio a un allargamento a Forza Italia che complicherebbe tutto, a meno che non si formi una pattuglia di responsabili azzurri. Condizioni troppo pesanti? “Spero che il Pd lavori per far nascere il nuovo governo – dice il renziano Davide Faraone – e non per dimostrare che farlo nascere è impossibile”. Timore legittimo, certo, che non tiene però conto della paura che dilaga nel M5s, mista all’ansia di scalata di chi al giro precedente è rimasto escluso dalla spartizione delle poltrone. “Cambiare i nostri ministri? Mi sembra una richiesta ragionevole, che di fatto noi stessi avevamo avanzato mesi fa”, dice il senatore Enzo Presutto. Giovanni Currò, deputato vicino a Stefano Buffagni, aggiunge che “un ricambio sarà salutare, visto che dal 32 siamo passati al 17 per cento”. Insomma, “si sdraieranno”, scommettono i ministri leghisti: “Si sdraieranno come hanno in fondo sempre fatto con noi”. E se non lo faranno, a Zingaretti andrà comunque bene. “Perché a quel punto il No lo diranno i grillini”, afferma Valeria Fedeli. E allora, Renzi o non Renzi, “il voto sarà inevitabile”.
In casa Cinquestelle. La strategia di Di Maio: ripartire da me e Conte. Ma il Movimento sbanda. Nel M5S resta forte la spinta a un accordo con i dem E c’è anche chi loda l’intervento dell’ex leader pd. Corriere pagina 6. Luigi pensa al passo indietro pur di confermare il premier “Non ci può essere alternativa” Pressing dei grillini: il leader lascerebbe il governo come scalpo al Pd Messaggio a Conte di Von der Leyen. L’M5S spera nella sponda europea. Stampa pagina 7.
In casa Lega. Salvini grida al complotto. Ed è pessimista sulle urne. Ai suoi: c’è il10% di possibilità di votare. Giorgetti: dibattito interno? Da noi decide il capo. Corriere a pagina 7.
Il flop di Salvini agita la Lega. Può perdere subito il Viminale. L’estrema giravolta del ministro dell’Interno: il ritiro della mozione di sfiducia, a dimissioni di Conte già annunciate. La stoccata di Giorgetti: “Ha deciso tutto lui, da noi non c’è democrazia”. Repubblica a pagina 8.
Salvini: l’Europa voleva sabotare la manovra. I peones scettici: “Matteo consigliato male”. La decisione di rompere dopo lo scandalo dell’incontro al Metropol. Ma nel partito cresce la delusione. Stampa a pagina 8.
Harakiri di un leader Salvini come Berlusconi e Renzi: arrivato all’apice è diventato nemico di se stesso. In pochi giorni il leader leghista ha sbagliato tutte le mosse. Come, prima di lui, quei capi che hanno confuso alto consenso e delirio di onnipotenza. Nel 2009 il Cavaliere a Onna aprì alle opposizioni. Due giorni dopo era da Noemi Letizia. Il 40% e poi la caduta del referendum per il Pd. Europee e poi Papeete per l’altro Matteo. Filippo Ceccarelli su Repubblica a pagina 9.
Social. Si studia la controffensiva sul web. Matteo pronto a scatenare la “Bestia”. «Salvini non si discute», dicono in tanti. Ora prima di portare la gente in piazza per protestare, scenderà in campo la “Bestia”, la macchina social di Salvini che sta già scaldando i motori. «Movimento 5 Stelle e Partito democratico cadranno prima nella rete, poi nei palazzi», la convinzione. E Morisi, l’uomo della comunicazione sul web della Lega, già pianifica la battaglia: «Nessuna spallata, ma gli elettori del Movimento 5 stelle e del Pd non ci staranno a questo inciucio». Messaggero a pagina 6.
Centrodestra. Forza Italia chiederà le elezioni. «Salvini? Ci ha vendicato Conte». Berlusconi cerca l’unità della coalizione. Anche la Meloni spinge per le urne anticipate. Messaggero a pagina 8.
Rosari. Spadaro: “Quei rosari strappati alla devozione per pura propaganda”. Il direttore di Civiltà Cattolica: “Mi ha colpito l’espressione di Conte sull’incoscienza religiosa. San Giovanni Paolo II parlava di sana laicità”. Rosy Bindi. “Salvini profana i simboli religiosi Adesso con i 5S serve discontinuità”. Il presidente Conte ha tenuto un discorso condivisibile nella critica al suo vice leghista ma non ha rinnegato nulla della sua azione di governo. Anzi.
L’altro Matteo si è ripreso la scena. “Niente ministeri”. A me sembra naturale che nessuno di noi entri al governo. Non parlo per Boschi o Lotti ma se mi chiedono un consiglio dico di restare fuori. Matteo Pucciarelli su Repubblica. More
In cima ai suoi desideri ci sarebbero Raffaele Cantone, o anche un Franco Gabrielli ministro. Personalità sulle quali investire per un futuro staccato dal Pd. Ma non è quello il punto: «Se si conosce bene l’uomo — racconta un ex membro del suo governo — si sa che per lui è fondamentale stare al centro dell’attenzione. E questo sta avvenendo. Se nasce un nuovo governo, oggettivamente è grazie anche al suo attivismo. Controlla ancora i gruppi e che si vada avanti è fondamentale perché gli garantisce possibilità organizzative e anche economiche, non so, penso alla sua scuola di politica per giovani no?». La scissione, o la costituzione di gruppi parlamentari diversi al Pd, non è all’ordine del giorno. Racconta un altro senatore dem che i sondaggi commissionati dallo stesso Renzi non siano stati positivi. Il “fattore R” pesa ancora, ma in negativo. E allora meglio restare nel partito, dare una mano alla formazione del governo e mettere anche stavolta la zampata nell’elezione del presidente della Repubblica. Non solo, però. Nel frattempo Renzi e i suoi lavoreranno ad una nuova legge elettorale di stampo fortemente proporzionale. Perché sarebbe quella a garantire ad un suo movimento la centralità a cui mira il senatore fiorentino.
Un anno di governo. Il dibattito in Senato ha messo a nudo l’insanabile distanza tra leghisti e grillini I ripetuti scontri nella maggioranza in altri tempi avrebbero subito aperto la crisi Litigi, polemiche e insulti Un anno gialloverde vissuto pericolosamente. Stampa pagina 9.
Il governo aveva approvato un decreto per garantire la continuità produttiva in alcune fabbriche Ma il provvedimento non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Dalla Whirlpool all’ex Ilva, lavoratori abbandonati. Dal presidio della fabbrica di lavatrici un appello a Mattarella. Repubblica pagina 11.
Il dibattito in Senato ha messo a nudo l’insanabile distanza tra leghisti e grillini I ripetuti scontri nella maggioranza in altri tempi avrebbero subito aperto la crisi Litigi, polemiche e insulti Un anno gialloverde vissuto pericolosamente. Stampa a pagina 10.
Sui giornali nel mondo. Evidenziati gli attacchi di Conte al vicepremier, definito “irresponsabile” Il New York Times: è stato il governo più nazionalista e disfunzionale “La fine dei populisti” L’Italia in prima pagina sulla stampa straniera. Stampa pagina 10.
Open Arms. Il procuratore di Agrigento, Patronaggio, arriva in elicottero e decide dopo un’ispezione con alcuni medici sulla nave umanitaria. Il governo spagnolo aveva fatto salpare un’imbarcazione militare per prendere e trasportare a Maiorca chi era rimasto a bordo Open Arms sequestrata dalla Procura. Sbarcati a Lampedusa tutti i migranti. Intanto dall’inizio di agosto arrivati 648 fantasmi. Ieri la finanza ha intercettato un veliero: 69 a bordo. Stampa a pagina 11.
Il capo missione dell’altra nave in attesa: “Tocca a noi, l’Europa smetta di ignorarci”. Da 12 giorni siamo in stand by dopo aver salvato 350 persone. A bordo non c’è ancora emergenza ma non potremo resistere all’infinito. Repubblica a pagina 12.
Mimmo Lucano. L’esilio e il padre malato. Giustizia, non pietà. Diritti, non concessioni. «Anche se mio padre non dovesse farcela, non chiederò di tornare a Riace». In quell’appartamento prestato di Caulonia che abita da ottobre ma non riesce ancora a chiamare casa, ostaggio di un provvedimento di esilio che gli impedisce persino di assistere il padre 93enne e malato, Mimmo Lucano non cede. Mentre in migliaia si mobilitano perché possa tornare in paese, lui ripete: «Non voglio carità». Della petizione lanciata dal Comitato 11 Giugno per invocare «un gesto umanitario» del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha saputo nulla fino a quando Facebook si è riempito di messaggi di solidarietà. Né immaginava che potesse avere tanto sostegno. In 24 ore l’hanno firmata in 25mila e appelli a sostenerla sono arrivati dai soggetti più diversi, dal vignettista Vauro Senesi al direttore di Civiltà Cattolica Antonio Spadaro, da don Tonio Dell’Olio di Libera a Beppe Giulietti della Fnsi. Repubblica a pagina 18. More
«Camorristi, mafiosi, politici corrotti, evasori ai domiciliari o in libertà totale e in alcuni casi sui banchi del Parlamento, mentre Lucano non può nemmeno stringere la mano del padre», ha twittato l’attore Beppe Fiorello. «Demolire la Riace di Lucano è stato per l’Italia un punto di non ritorno. Ora però uniamoci e chiediamo che sia consentito a Mimmo Lucano di salutare suo padre», è l’appello di Roberto Saviano. «Mi ha scritto anche Zingaretti, con tutto il caos che c’è al Senato — dice stupito l’ex sindaco — Ma io la richiesta non la faccio». Per naturale riservatezza, per dignità, per paura di strumentalizzazioni. L’ha imposto agli avvocati e lo ha ripetuto al Comitato 11 Giugno. «Ecco perché non glielo abbiamo detto, ci avrebbe fermato — dice uno dei promotori, Sasà Albanese — Abbiamo creato questo gruppo non solo per sostenere Mimmo, ma anche per salvarlo da se stesso». Fra i promotori ci sono amici, compagni di lotte e percorso politico, gente che lo conosce da sempre. Sanno che Mimì è tanto spavaldo nel rivendicare diritti di altri, quanto restio a chiedere per sé. C’erano quando, lontano dai palchi e dagli eventi pubblici, Lucano era solo un figlio in ansia per il padre anziano e da cui deve stare lontano. Hanno condiviso la condizione quasi fisicamente dolorosa di chi, per anni, doveva solo ascoltare i rumori dell’appartamento di sotto per stare tranquillo e adesso deve chiamare i fratelli per chiedere: «Come sta papà?». Erano con lui quando il padre, per giorni, è stato ricoverato a Locri. E soprattutto quando gli ha dovuto dire: «Ora che ti dimettono non potrò venirti a trovare a casa». A impedirlo è un’ordinanza del Tribunale del riesame, che benché la Cassazione abbia demolito le accuse nei confronti dell’ex sindaco di Riace e il processo a suo carico sia iniziato, ha confermato il suo esilio. Con il suo peso politico potrebbe indurre altri a commettere i medesimi reati, sostengono i giudici, e adesso toccherà nuovamente alla Cassazione stabilire se è vero. «Una mostruosità giuridica — tuona il Comitato — non ci sono le condizioni per negare a Mimmo un diritto costituzionale». Lucano non ha più poteri, non è stato eletto e della sua lista solo Maria Spanò è entrata in consiglio, e battaglia contro l’amministrazione che sembra aver fretta di cancellare anche il ricordo del “borgo dell’accoglienza”. Il sindaco Trifoli ha persino ritirato il patrocinio alle manifestazioni che ancora tessono il filo del “modello Riace” e «contro la propaganda fuori programma» ha invocato l’intervento della Digos. Curvo sul suo bastone, con i grandi occhiali e i capelli bianchi tirati all’indietro, finché ha potuto Roberto Lucano non si è perso neanche uno di quegli eventi. «Proprio lui, che all’inizio non mi ha neanche votato», mormora Lucano. Seduto ai tavolini del bar di Alessio o in piazza fra gente arrivata da tutta Italia, il padre di Mimmo ha continuato a tenere la trincea del sogno possibile di quel figlio esiliato «che la giustizia spero mi restituisca». Confinato a Caulonia, a pochi chilometri di curve dal borgo, l’ex sindaco lo ha saputo da amici e sostenitori. Li incontra regolarmente nel bar che è diventato il suo quartier generale, dove al mattino “scrocca” i giornali «e mi fanno restare senza neanche prendere un caffè». Poi torna in quell’appartamento prestato, rimasto spoglio e provvisorio. Un pasto veloce, un po’ di tv. In cucina, la tovaglia di plastica che copre il tavolo porta i segni di riunioni più che di incontri conviviali. A rompere la routine gli incontri e le manifestazioni cui Lucano continua a partecipare per testimoniare che un’altra politica è possibile. «Ma questa è un’estate che estate non è — mormora — per me l’unica stagione ormai è quella dell’esilio».
Tremonti sull’Iva. Quella clausola di salvaguardia imposta dall’Europa nel 2011. Tutto cominciò con la crisi delle grandi banche tedesche e francesi. Giulio Tremonti scrive al Sole. Ho letto sul sito del Sole 24 Ore l’articolo di Dario Aquaro e Cristiano Dell’Oste pubblicato nei giorni scorsi in materia di “clausole Iva… un prologo che risale all’estate del 2011. More
Prologo, clausole Iva? Dopo otto anni è forse il caso di fare chiarezza su quanto è stato nella primavera, poi nell’estate, infine nell’autunno del 2011: a) nelle Considerazioni finali della Banca d’Italia dette dal governatore Draghi il 31 maggio del 2011 era scritto tra l’altro quanto segue: «La gestione del pubblico bilancio è stata prudente… le correzioni necessarie in Italia sono inferiori a quelle necessarie negli altri Paesi dell’Unione europea». Ancora più positivo fu il giudizio espresso in giugno dal Consiglio europeo; b) dato che i conti pubblici di un grande Paese non possono variare in negativo e addirittura drammaticamente in pochi giorni, è ragionevole porsi qualche domanda su quanto è stato il 5 di agosto quando Bce/Banca d’Italia hanno inviato al Governo della Repubblica italiana una lettera contenente la richiesta ultimativa di fortissime “correzioni” di bilancio pena – in caso di risposta non tempestiva (entro l’8 di agosto) – la minaccia di mandare in default il debito pubblico italiano. In uno scenario normale sono i Governi che non devono minacciare la Banca centrale, nel caso era la Banca centrale che violando ogni regola minacciava un Governo! c) quale la ragione di tutto questo? Era una ragione che torna a essere drammaticamente evidente in questi giorni: la strutturale risalente e permanente crisi delle grandi banche tedesche (e francesi). Allora la crisi era sui crediti verso la Grecia. L’avere iniettato allora 200 miliardi di “aiuti europei” per le perdite sulla Grecia non è stato evidentemente sufficiente (c’erano già anche a latere i derivati!); d) nella primavera del 2011 fu ipotizzato l’utilizzo del Fondo salva Stati (suggerito dall’Italia nel 2008) per salvare non solo gli Stati ma anche le banche. Il Governo italiano pose la condizione che il contributo al Fondo in caso di utilizzo per salvataggi bancari non fosse calcolato in base al Pil (come giusto per la funzione salva Stati) ma calcolato sul rischio bancario: Germania e Francia erano a rischio sulla Grecia per 200 miliardi, l’Italia per 20! e) la soluzione proposta all’Italia determinò reazioni negative fortissime non solo perché aumentava esponenzialmente l’onere a carico dei pubblici bilanci tedesco e francese ma anche perché evidenziava l’effettiva origine della crisi che non era tanto connessa alle finanze pubbliche avendo piuttosto causa in una profonda crisi del sistema bancario, crisi che non si voleva assolutamente evidenziare (e che ancora a lungo e per le stesse ragioni ancora si tende a nascondere); f) è in quanto sopra che si trova l’origine prima degli sberleffi recitati in televisione da una coppia di leader europei in conferenza stampa, quanto dal parallelo altrimenti ingiustificato scatenarsi degli spread contro l’Italia; g) per evitare il default minacciato con la lettera del 5 agosto il Governo della Repubblica italiana emanò il Decreto di Ferragosto. La stampa internazionale lo definì «perfect». In realtà, dato tutto quanto sopra, il Decreto non fu comunque sufficiente per bloccare la pressione politica necessaria per forzare l’Italia verso l’ipotesi di un abnorme finanziamento del Fondo salva banche! La “clausola di salvaguardia” non è stata dunque un’invenzione italiana, ma una imposizione europea. Tuttavia con una specifica, una differenza tra quanto è stato nell’agosto del 2011 e quanto è poi avvenuto negli otto anni successivi; h) nella formulazione iniziale (agosto-settembre 2008) l’adempimento alla clausola-imposizione era assolutamente programmatico e generico e comunque subordinato all’ipotesi del non raggiungimento di altri e vasti obiettivi di bilancio.
Alla larga nel testo si ipotizzava infatti nel caso denegato di un insufficiente raggiungimento di questi obiettivi una “possibile rimodulazione delle tax expenditures o delle aliquote delle imposte indirette incluse le accise o l’Iva”; i) nell’ottobre-novembre del 2011 il Governo entrò in crisi interrompendo la sua azione di finanza pubblica. È solo con il primo Decreto del Governo Monti che appare la clausola Iva come è poi stata iterata nei lunghi otto anni successivi. Una serie di clausole vincolanti e cifrate per importi e date. È del resto poi forse il caso di ricordare che oltre ad avere importato dall’Europa e montata in loco una clausola Iva di tipo imperativo, come da allora così ancora, uno dei primi atti del Governo Monti fu quello per cui il Governo italiano consentì il calcolo del contributo italiano al Fondo salva banche non in base al rischio, ma in base al Pil così che la crisi rispetto alla quale l’Italia era totalmente estranea (si rileggano le citate Considerazioni finali) fu prima addebitata all’Italia come se si trattasse di una crisi della finanza pubblica italiana per poi essere – per beffa – messa sul conto dell’Italia gravandola – in aggiunta alle clausole – per un importo assolutamente spropositato.
Savona contro Draghi. L’idea di Savona: patto Roma-Bruxelles e poi debito targato Ue. Al Meeting di Rimini attacco a Draghi: «L’Europa e la Bce impreparate alla crisi 2011». La Banca centrale europea è intervenuta in ritardo dopo la crisi del 2008 e con strumenti non risolutivi. L’attacco all’istituto di Francoforte arriva da Paolo Savona, presidente Consob ed ex ministro degli Affari economici del governo gialloverde, in occasione del Meeting di Rimini. More
Per Savona, l’Unione europea e la Bce «erano impreparate alla crisi» e Mario Draghi, a capo della Bce dal primo novembre 2011, non si è mosso abbastanza tempestivamente. «Questa è la mia critica, non sono contro l’Europa ma (le istituzioni, ndr) non sono state dotate degli strumenti giusti», ha aggiunto, sottolineando che le istituzioni Ue sono «incomplete», con «una banca centrale che ha il potere di intervenire sulla speculazione ma non nel modo in cui ha fatto Draghi». Infatti, per Savona, il problema è che la Bce quando «interviene sul debito pubblico italiano che ne ha bisogno, perché è oggetto di speculazione, poi interviene anche su quello tedesco che non ne ha bisogno» e in questo modo «gli interventi della banca centrale calmierano ma non risolvono». Questo non vuole dire, ha precisato Savona, che l’Italia debba abbandonare l’Ue. Anzi, secondo il presidente della Commissione che vigila sulla Borsa, il nostro Paese deve fare «un accordo serio con l’Ue» e garantire «in via definitiva» che «non vogliamo uscire dall’Unione e non vogliamo uscire dall’euro». Un impegno del genere dovrebbe essere fatto per ottenere la possibilità di fare una legge di Bilancio che non sia vincolata ai parametri imposti dagli accordi di Maastricht del 1992, in cambio di una «intera riprogrammazione del bilancio dello Stato». Per Savona, l’Italia deve cambiare paradigma, deve stabilire «quali rischi lo Stato copre e a chi li copre: non si può dare sanità gratis a chi è in grado di pagarsela». In pratica, l’Italia deve fare un nuovo patto con i cittadini: bisogna far capire che «se io oggi ti do assistenza aggiuntiva e per farlo devo ridurre gli investimenti, io sto peggiorando le condizioni della crescita e del lavoro». Una azione di questo tipo, tuttavia, avrebbe bisogno anche di un intervento di Bruxelles. A fronte della revisione del bilancio, con l’obiettivo di liberare risorse per gli investimenti, l’Europa dovrebbe mettere in campo degli strumenti di debito comune. Va «attuata la creazione di un sistema di debito europeo, che non è l’eurobond ma creare una attività sicura che fermi il deflusso dei fondi dall’Europa verso gli Stati Uniti», ha detto Savona. «Se si crea questo titolo che fa parte di un programma completo e il ricavato di questi titoli viene dato a Paesi come l’Italia che per uno o due anni non emettono debito, questi strumenti possono cessare le pressioni verso lo spread italiano, che può anche azzerarsi e, se l’Italia attua un programma credibile, noi risparmiamo 30 miliardi subito che possiamo investire in infrastrutture», ha concluso.
Apple vs Netflix. L’amministratore delegato Cook punta a generare 50 miliardi di ricavi entro nel 2020 grazie ai servizi televisivi in streaming Apple lancia la sfida a Netflix e Amazon “Investiremo sei miliardi per la Tv+. Stampa a pagina 20.
Aumenti. L’Osservatorio sulle comunicazioni Agcom ha fatto i conti sui principali rincari degli ultimi 10 anni Al terzo posto la tassa per i rifiuti con una stangata del 26%, scendono solo le tariffe telefoniche Bollette, il record degli aumenti va all’acqua e all’elettricità.
Istat: i dati positivi riguardano solo le esportazioni e l’occupazione. Anche l’Istat comincia a vedere nero. “Ora l’Italia rischia la stagnazione”. Il presidente Blangiardo: l’industria frena, un problema la popolazione sempre più anziana.
Dazi. La guerra dei dazi creerà tensioni al G7 di Biarritz Trump cerca di evitare la caduta “Allo studio il taglio delle tasse”.
Isis. Fra Iraq e Siria ancora attivi 18mila militanti. In soli 6 mesi 139 attacchi Washington suona l’allarme “L’Isis sta rialzando la testa”.
L’Isis sta rialzando la testa in Iraq e in Siria. Non è in condizione di ricostruire il Califfato, ma combatte per destabilizzare i due paesi e minaccia l’Occidente col terrorismo. More
L’allarme viene da un rapporto realizzato dall’Inspector General degli Stati Uniti per il Congresso. Al massimo della sua forza, il Califfato era arrivato a controllare un territorio grande come la Gran Bretagna, gestendo la vita di circa 12 milioni di persone. Il mese scorso il presidente Trump aveva detto di averlo eliminato al cento per cento, avviando il ritiro: al momento gli Usa hanno 5.200 soldati in Iraq e meno di mille in Siria. La realtà però è diversa, secondo le valutazione dello stesso governo americano. L’Isis ha ancora circa 18.000 militanti nei due paesi, nascosti soprattutto nelle zone rurali. Si tratta soprattutto di cellule dormienti che lanciano attacchi terroristici, imboscate, omicidi mirati e rapimenti, ma conservano anche l’operatività per condurre attentati in Occidente. Stampa a pagina 13.
Russia Turchia Siria. Soldati russi al fianco di Assad. Bombe sui turchi in Siria. Soldati russi e turchi sono vicinissimi nella battaglia di Idlib che ha preso nelle ultime 48 ore un’improvvisa accelerata. Ma non sono dalla stessa parte. Le forze speciali di Vladimir Putin hanno un ruolo decisivo negli assalti notturni che hanno frantumato le linee di difesa dei ribelli a Sud della provincia siriana, e permesso ai governativi di accerchiare ed espugnare Khan Sheikhoun, una delle loro roccaforti meglio fortificate. I militari turchi, arrivati nell’autunno del 2018 per sorvegliare una zona cuscinetto ormai in pezzi, sono finiti intrappolati, e ora Mosca e Ankara cercano una soluzione per tirarli fuori senza incidenti, e senza far perdere la faccia a Erdogan. L’intervento in prima persona dell’esercito russo è stato rivendicato lunedì da Putin, nel suo colloquio con Emmanuel Macron. E ribadito ieri dal ministro degli Esteri Serghei Lavrov: «I nostri uomini sono schierati sul terreno», ha spiegato. E ha aggiunto: «La Turchia è stata informata in anticipo dell’imminente attacco contro gli jihadisti. Ha avuto tutto il tempo per prevenire ogni incidente». Stampa pagina 13
Russia e Cina: i missili Usa sono un rischio per la sicurezza.
Seppellito il trattato antimissili «Inf», il rischio di una nuova corsa agli armamenti si fa sempre più concreto. Gli Stati Uniti non hanno aspettato molto per sfidare Russia e Cina. Domenica scorsa, cioè neanche tre settimane dopo che Putin e Trump hanno fatto carta straccia dell’accordo, gli Usa hanno testato un nuovo siluro a media gittata: un’arma fino a poco tempo fa proibita dal trattato che 32 anni fa contribuì a mettere fine a decenni di Guerra Fredda. La mossa della Casa Bianca è stata accolta con aspre critiche sia da Mosca sia da Pechino. «Avrà gravi ripercussioni sulla sicurezza regionale e internazionale». Stampa a pagina 14.
Da G7 a G8. Sarebbe meglio avere nuovamente il G8. Per il presidente Usa, Donald Trump, la Russia dovrebbe rientrare nel club dei Grandi della Terra, ricreando il G8. Sarebbe «molto più appropriato» aggiungere la Russia al G7, ha affermato l’inquilino della Casa Bianca, che si è detto favorevole a sostenere una proposta in tal senso. Per Trump, il presidente Putin è stato estromesso dal G8 da Obama perché «lo aveva superato in astuzia», ma la cacciata di Mosca è avvenuta come risposta all’invasione russa della Crimea.
Hong Kong, la governatrice Lam: cortei pacifici, ora si può dialogare. Tensioni con la Cina, sparito al confine con Shenzhen un impiegato del consolato britannico. Stampa a pagina 14. More
Archiviata la prova della piazza, con «la protesta delle mascherine» che domenica ha riempito Victoria Park e l’intero quartiere di Causeway Bay scongiurando l’escalation violenta, Hong Kong riparte dalla politica su un sentiero promettente in casa ma insidioso sul piano dei rapporti con la madrepatria. Di buon auspicio è l’apertura della governatrice Carrie Lam che, dopo una prolungata latitanza, è tornata a farsi sentire ieri felicitandosi per il sit-in pacifico di due giorni fa ed eleggendolo a punto di partenza per un dialogo «a questo punto possibile» a cui lei stessa starebbe già lavorando, così come starebbe già lavorando la task force dell’Independent Police Compaints Council incaricata di verificare le denunce degli ultimi mesi. Coincidenza o no, nelle stesse ore il quotidiano «South China Morning Post» pubblicava il monito del capo dell’Ipcc, Anthony Neoh, secondo cui «l’unica via possibile per uscire dalla crisi è quella politica». Se dal fronte interno arrivano segnali positivi, su quello dei rapporti con Pechino la tensione è massima, come prova l’insistenza dei media cinesi sulle «oltraggiose interferenze americane» e su una protesta assimilabile per potenziale destabilizzante al terrorismo.
Brexit, Merkel stoppa Johnson “L’accordo non si tocca”. Se Boris Johnson sperava di arrivare a Berlino questo pomeriggio da Angela Merkel, con in mano una mezza promessa di far ripartire i negoziati sulla Brexit, dovrà riporre nel cassetto sogni e piani. More
La cancelliera, che ieri si trovava in Islanda con i leader dei paesi nordici, gli ha recapitato un messaggio molto perentorio, ribadendo che il trattato per l’uscita britannica dalla Ue non si tocca. Johnson qualche spiraglio potrebbe coglierlo sul fronte del cosiddetto «backstop irlandese», il meccanismo automatico per evitare la nascita di un confine fisico fra Eire e Nord Irlanda. «La Ue è pronta a pensare a soluzioni pratiche» dei problemi posti da Londra, ha detto la cancelliera. La Commissione Europea dà «il benvenuto all’impegno britannico per un divorzio ordinato, che è nel migliore interesse sia dell’Ue che del Regno Unito», sottolineando però che «non è stata proposta una soluzione legale per evitare frontiere fisiche sull’isola di Irlanda». Stampa a pagina 19.