Retromarcia su Roma. Salvini in difficoltà tenta di non far morire il governo gialloverde e non far nascere quello giallorosso. La Bce riarma il bazooka. La Open Arms è sempre al largo di Lampedusa, ma è intervenuta la magistratura con l’accusa si sequestro di persona. È morto Felice Gimondi, ultimo mito del ciclismo epico. Funerali per Nadia Toffa – ieri – e per Diabolix – prossimi giorni – al Divino Amore. Ma solo per cento persone. La mamma incinta che stava andando all’ospedale a partorire e fatta scendere dall’autobus perché senza biglietto ce l’ha fatta lo stesso. Mentre andare in giro a torso nudo ad Agropoli costa 250 euro. Trump vuole comprare la Groelandia. Ma la Danimarca non vende.
Retromarcia su Roma. Salvini in panne: ritrattare o rischiare l’opposizione? Martedì la decisione: in Senato Conte chiederà la fiducia Lega in subbuglio. Tra Matteo e Giorgetti nessun contatto. Inversione dei ruoli tra i quasi ex alleati: adesso sono i 5 Stelle a dettare la linea. In pochi giorni gli equilibri si sono capovolti. E Matteo gioca in difesa.
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Salvini apre e congela la sfiducia. Il M5S frena ma tratta su due tavoli. Le difficoltà sulla via del voto e i rischi di un’intesa Pd-M5S spingono il leader leghista a tentare una distensione (Sole p.5).
Retromarcia su Roma. Salvini in panne: ritrattare o rischiare l’opposizione? Martedì la decisione: in Senato Conte chiederà la fiducia Lega in subbuglio. Tra Matteo e Giorgetti nessun contatto. Inversione dei ruoli tra i quasi ex alleati: adesso sono i 5 Stelle a dettare la linea. In pochi giorni gli equilibri si sono capovolti. E Matteo gioca in difesa (Giornale p.3).
Prove di pace con i 5Stelle. Le ipotesi di un Conte bis o di un governo guidato da Di Maio. Il leader della Lega teme l’accordo tra grillini e Pd e congela la sfiducia al premier: “Pronti a votare il taglio dei parlamentari”. Ma Giorgetti è contrario a rinnovare l’intesa (Repubblica p.2).
Salvini s’è pentito e propone premier Di Maio. Che dice no. D’incanto il Carroccio non è più tanto sicuro di volere la crisi: “Sfiducia a Conte? Non è detto”. M5S gioca d’attesa: “Vediamo che succede in Parlamento… (Fatto p.2).
Lega spiazzata dal leader. «No alla retromarcia». Ma la sfiducia è congelata (Messaggero p.4).
Il capitano nel pantano. Salvini va a Canossa, Di Maio lo snobba. L’ira dei colonnelli lumbàrd: “Matteo, ora un governo Giorgetti o Casellati” (Foglio in prima).
Salvini, che errore fidarsi degli arci-nemici Pd e grillini. Vicepremier gabbato: Renzi gli aveva garantito che si sarebbe votato, Zingaretti ha mandato avanti Prodi, Grillo ha aperto alla sinistra e Conte ha fatto melina (Libero p.2).
Gli errori di Matteo. I dieci passi falsi di Matteo: tempi, peso delle Camere e regali agli avversari. Mario Ajello sul Messaggero. More
Lei non può immaginare quanto io non sia irremovibile nelle mie idee». Se Matteo Salvini parlasse con le battute di Ennio Flaiano, potrebbe dire questo di se stesso. La girandola delle parole – dal voglio «pieni poteri» a «il mio telefono è sempre acceso» – è il corrispettivo dei passi falsi del Cosiddetto Capitano, che sono 10. E hanno portato per ora a questo: il capo leghista è senza governo e senza elezioni. Magari è tutto recuperabile, ma i 10 sbagli sono un macigno non facile da smaltire e che complica, non solo per Salvini, l’andamento della crisi.
IL RUOLO DELLE CAMERE Il vicepremier ha sottovalutato la funzione del Parlamento in un Repubblica parlamentare. Dove in ultima istanza tocca all’aula – e in quella del Senato il fino ad allora invincibile Matteo è stato sconfitto sul calendario – esprimersi. A riprova che non è vero che il governo opprime e sopprime il ruolo del Parlamento.
LA FORZA DEL BOSTIK Non ha valutato fino in fondo Salvini quanto sia estrema e disperata la voglia di deputati e senatori di non andare a casa. Eppure, proprio lui ha usato l’immagine del bostik, l’altro giorno nel discorso a PalazzoMadama, e avrebbe dovuto sapere che la super-colla non si squaglia di fronte a chi con il 17 per cento dei voti (il 37 il Carroccio lo ha solo nei sondaggi) vorrebbe che l’83 per cento del Parlamento si auto-eliminasse.
LO SBAGLIO DEL CUNCTATOR Non ha sfruttato la disponibilità del presidente Mattarella a dare le elezioni nel momento in cui le avrebbe probabilmente ottenute. Ossia nei tempi utili a mettere a riparo la manovra economica. Non ha calcolato Salvini, nel suo temporeggiare, che ci sarebbe stato l’imbuto d’autunno. E la sovrapposizione tra legge di bilancio e urne è diventata l’arma politica di tutti gli altri per incartare Matteo che ha fatto il cunctator.
EURO-MIOPIA E’ mancato un esame attento, quello che forse avrebbe dovuto consigliare prudenza, sul cambiamento della fisionomia di Conte. Il quale ha saputo inserirsi nel gioco europeo, entrando nella partita sull’elezione della presidente von der Leyen, e così si è rafforzato.
IL CALCOLO MANCATO SUI DEM Ha creduto che il Pd fosse solo Zingaretti. E non ha calcolato che Renzi potesse infilarsi nella partita e proporsi come uno sparigliatore pericoloso. Insomma, oltre a Berlusconi che ora pretende da lui 50 posti sicuri in lista e 4 ministri se mai si farà il governo di centrodestra, Salvini ha resuscitato l’altro Matteo. Il capo leghista aveva o immaginava di avere un accordo con il segretario del Pd per votare, Renzi ha scombinato i piani e Salvini è rimasto di sasso. Prendendosi anche le critiche di Giorgia Meloni.
L’ANTIPASTO SNOBBATO Poteva prevedere, prima di scatenare l’affondo, che sarebbe scattato il patto tra Pd e Cinque stelle, in quanto era stato anticipato e diventato operativo tra a Strasburgo e Bruxelles con il voto congiunto per la van der Leyen. L’«inciucio» dei grillini con il progressismo e il popolarismo europeisti e con quelli che il Carroccio considera i «poteri forti della tecnocrazia» continentale è una delle ragioni che ha spinto Salvini allo spericolato strappo con Conte. Precludendosi tra l’altro la possibilità di far diventare un leghista commissario Ue.
I REGALI NON SI FANNO Matteo ha resuscitato i Cinque stelle (e gli ha addirittura aperto due forni: oltre a quello di via Bellerio, quello del Nazareno) e la bomba elettorale è scoppiata nelle mani di chi l’ha lanciata più che sulla testa di chi ne era il bersaglio. Ora M5S potrebbe fare quel governone o governissimo che Salvini chiama «lo sciagurato patto della mangiatoia e dell’invasione» (di clandestini). E se questo esecutivo in fieri diventasse una cosa seria e durevole, per la Lega potrebbe non bastare la retorica del Palazzo contro il popolo.
LA TRAPPOLA DEI SONDAGGI Guai a credere che possa bastare la spinta dei sondaggi e quella del Papeete per vincere una partita politica. E che le dirette social e il loro successo, declinante secondo i dati più recenti, possano ero sostituire la fatica dell’impegno quotidiano degli incontri e delle telefonate – anche se «il mio telefono è sempre acceso» – con gli altri leader e con tutti quegli esponenti del mondo istituzionale che, nella gestione e soluzione di una crisi di governo, conta molto di più della gente che applaude e che grida «non mollare» e «vai avanti».
IL SOLIPSISMO Non ha rotto subito dopo le Europee – o anche prima come gli dicevano Giorgetti e gli faceva capire il mondo produttivo del Nord e la Lega modello Zaia – quando Salvini era davvero sulla cresta dell’onda e non c’erano l’affanno della legge finanziaria incombente e neppure la vicenda dei rubli.
LA STORIA SERVE Matteo studiava storia all’università ma poi ha abbandonato e se l’è dimenticata. Quando Badoglio abbandonò Mussolini (quello vero), Togliatti appoggiò il suo governo. Quindi doveva immaginare Salvini che il Pd non avrebbe fatto troppo le pulci a Conte, a Di Maio, alla Trenta e a Toninelli. Anzi, no questo punto numero 10 non vale. Perché quella era politica vera in una fase tragica della storia, mentre qui sembra di stare alla sagra estiva del dilettantismo e al grottesco al potere. Anzi alla consolle.
Mario Ajello sul Messaggero a pagina 5.
Tempi sbagliati e dietrofront. Così il Capitano si è incartato. Il leader ha fatto una serie di errori: dal no al voto dopo le Europee, alla certezza che il premier si sarebbe dimesso. Paolo Bracalini sul Giornale. More
In politica passare da leader infallibili a incapaci che non ne azzeccano una è un attimo, chiedere informazioni a Matteo Renzi. Dopo anni sulla cresta dell’onda con i consensi passati dal 4% al 34%, anche per Matteo Salvini sembra arrivato il momento critico. I suoi consiglieri iniziano a prendere le distanze dalle ultime mosse del segretario, segno che il mito del capo invincibile si è sciolto al sole agostano. Le probabilità che esca con le osse rotte dalla crisi da lui stesso scatenata sono aumentate. È ormai chiaro che Salvini, dopo aver infilato una successo dietro l’altro, dall’8 agosto scorso – giorno in cui ha aperto la crisi di governo – le ha invece sbagliate tutte o quasi. Primo errore, ha sottovalutato l’attaccamento al potere di Giuseppe Conte, dando per scontato che il professore – catapultato da una cattedra universitaria a Palazzo Chigi quasi per caso – avrebbe accettato senza colpo ferire la sua richiesta di dimettersi da Palazzo Chigi, agevolando così la corsa verso le elezioni. Sbagliato. Dopo un anno e mezzo a capo del governo, invitato ai summit mondiali alla pari di Trump e Putin, Conte non è più l’oscuro notaio del patto tra Salvini e Di Maio, ma si crede veramente il presidente del Consiglio italiano. In più è un avvocato, quindi di cavilli e regolamenti ci campa, ed è proprio nella gabbia di paletti costituzionali e parlamentari che ha intrappolato Salvini. Secondo errore, trattare i Cinque Stelle come un partito che vale la metà della Lega. Fatto vero forse fuori dal Parlamento, ma non nei numeri di Camera e Senato fermi al marzo 2018, quando il M5s era il primo partito italiano. Infatti il gruppo parlamentare M5s è il più numeroso, e nel pallottoliere di una crisi di governo sono soltanto quelli i numeri che contano. E questo ci porta al terzo errore. Aver sottovalutato la capacità del Pd di cambiare radicalmente posizione sui grillini pur di cogliere l’incredibile opportunità di passare nella maggioranza di governo e magari starci per tutta la legislatura. E, allo stesso modo, la capacità di Di Maio e soci di rimangiarsi anni di insulti e guerre a Renzi&Boschi pur di evitare lo scioglimento delle Camere, l’addio al lignaggio ministeriale e un’elezione per loro molto complicata. L’equazione tolgo la fiducia a Conte così si vota, si è rivelata sbagliata. L’altro errore tattico gliel’ha rinfacciato Giancarlo Giorgetti. Non è quello di aver rotto con i grillini, ma di averlo fatto troppo tardi nel momento sbagliato. Secondo il più ascoltato consigliere di Salvini, la spina andava staccata subito dopo le Europee, quando era chiaro che i rapporti di forza tra Lega e M5s si erano completamente ribaltati. In più non ci sarebbe stato l’alibi della scadenza imminente della finanziria e si sarebbe aperta la finestra del voto in modo più semplice. Il ministro invece ha aspettato, passando le successive settimane a litigare con i grillini ma smentendo a ripetizione l’intenzione di voler rompere il contratto con i Cinque Stelle. Fino a cambiare repentinamente linea ad agosto, dopo aver «scoperto» che il M5s è No-Tav. Un fatto che sapevano anche le pietre della val di Susa. Altro errore, non aver ritirato la delegazione di ministri leghisti. Operazione che gli avrebbe garantito due cose poter rivendicare davanti al popolo di aver rinunciato alle «poltrone»; ma soprattutto avrebbe tagliato le gambe al governo Conte costringendolo a presentarsi dimissionario al Quirinale. Ennesima superficialità riguarda anche Mattarella. Salvini pensava che il capo dello Stato si sarebbe limitato a prendere atto della sue decisione di chiudere con i grillini per andare al voto? La mossa di dire ok al taglio dei parlamentari ma poi subito al voto» (tra l’altro dopo aver detto che era solo un alibi per allungare i tempi), non ha fatto altro che irritare il Quirinale per la forzatura. L’ultimo e più tragico errore, però, sarebbe quello di fare una seconda svolta e tornare da Di Maio. A quel punto oltre a perdere la possibilità delle elezioni, la Lega rischierebbe di perdere la faccia.
Paolo Bracalini sul Giornale a pagina 4.
Ma il Pd ha fatto i conti? Per contenere il deficit senza aumentare l’Iva vanno recuperati 30 miliardi, per questo Salvini ha mollato. Il Pd ha fatto i conti? L’eredità del governo gialloverde ha ipotecato qualsiasi manovra. Luciano Capone sul Foglio. More
Roma. Anche se in questi giorni sta mostrando pentimenti e ripensamenti, Matteo Salvini ha deciso di staccare la spina al governo gialloverde non il giorno della votazione sulla Tav, ma quello precedente. Il 6 agosto ha incontrato, per la seconda volta, al Viminale le parti sociali per discutere l’imposta – zione della prossima legge di Bilancio e le oltre 40 delegazioni hanno fatto al leader della Lega tre tipi di richieste: interventi a favore delle rispettive categorie, non toccare le tax expenditures che riguardano i propri associati ed evitare di sfasciare i conti pubblici. Si tratta di un triangolo inconciliabile, perché composto da spinte contraddittorie che ne impediscono la chiusura. Da quell’incontro, dopo aver lanciato dichiarazioni incendiarie contro il ministro dell’Economia Giovanni Tria, Salvini si è reso conto che si stava per imbarcare in una manovra in cui, inevitabilmente, avrebbe scontentato qualcuno: non è possibile mantenere le promesse elettorali (flat tax), senza aumentare l’Iva (clausole di salvaguardia), senza tagliare la spesa (o le tax expenditures) o senza aumentare a dismisure il deficit (procedura d’infrazione). Così ha fatto un passo indietro e ha rilanciato: o elezioni subito (così la Lega passa all’incasso nel momento di maggior consenso nei sondaggi) oppure la manovra la fa un altro governo (che dovrà assumersi il costo politico di scelte impopolari). I numeri lasciati in eredità dal governo gialloverde sono impietosi. Prima di qualsiasi intervento aggiuntivo, per rispettare i saldi di bilancio che hanno evitato la procedura d’infrazione, bisogna trovare 23 miliardi per disattivare l’au – mento dell’Iva e 4 miliardi di spese indifferibili (missioni militari, contratti del pubblico impiego e altre spese), per un totale di 27 miliardi. A questo va aggiunto il mancato gettito dovuto alla minore crescita. Il Def prevede una crescita nominale del 2,8 per cento – più del doppio rispetto al 2019 (1,2 per cento) – dovuta per lo 0,8 per cento da crescita reale e per il 2 per cento dal deflatore del pil (inflazione). Entrambe le componenti sono sovrastimate. Storicamente nelle previsioni il deflatore viene gonfiato per far tornare i numeri e poi si sgonfia a consuntivo. Ma anche la crescita allo 0,8 per cento è un miraggio, visto che ad esempio secondo l’Upb sarà la metà e considerato il deterioramento del quadro europeo e internazionale. Un punto in meno di pil nominale, una previsione ottimistica, vuol dire 7 miliardi di minori entrate. Per mantenere il deficit all’1,8 servono circa 35 miliardi. E’ vero che in caso di peggioramento del ciclo economico la Commissione concede flessibilità, perché guarda al cosiddetto deficit strutturale, ma ciò implica che se anche l’Europa si accontentasse di una politica fiscale neutra bisogna recuperare quasi 30 miliardi attraverso maggiori entrate o minori spese. Un governo Pd-M5s che nascesse con l’obiettivo – già annunciato – di evitare l’aumento dell’Iva si troverebbe, molto probabilmente, di fronte a scelte molto difficili: attivare solo parzialmente le cosiddette clausole di salvaguardia e quindi non riuscire a rispettare la promessa; tagliare seriamente la spesa pubblica a partire dal Rdc e quota 100 (un suicidio per il M5s, che smentirebbe le sue politiche); aumentare altre imposte – ad esempio sulla casa – per evitare l’aumento dell’Iva (un suicidio per il Pd, che metterebbe nuove vere tasse al posto di quelle virtuali messe da Salvini). E’ vero che un nuovo esecutivo Pd-M5s potrebbe ottenere maggiori aperture dall’Europa, ma quest’anno mancheranno all’appello anche 18 miliardi di privatizzazioni messi a bilancio dal governo Conte. E il debito pubblico si metterà da subito su una pericolosa traiettoria crescente, aggravato dal pil stagnante. L’Europa potrà forse chiudere un occhio, come spesso ha fatto, ma non entrambi. Chi si appresta a stringere un patto su queste basi per fermare Salvini farebbe meglio a tenerli aperti per fare bene i conti.
Luciano Capone sul Foglio a pagina 3.
Nessuna illusione sui conti. Non esiste alcun «tesoretto». Sulla legge di Bilancio c’è già un’ipoteca di 27 miliardi. Insufficienti i risparmi da Quota 100 e sussidio di Stato. Antonio Signorini sul Giornale. More
Chiunque vada al governo non avrà vita facile. Matteo Renzi nella intervista ferragostana a Repubblica, tra le altre cose, si è detto certo che l’Italia in giallo-rosso, o comunque un esecutivo alternativo senza la Lega di Matteo Salvini, in Europa riuscirà a strappare più flessibilità sui conti grazie all’appoggio di Francia e Spagna e guadagnerà «spazi di manovra». Peccato che questi spazi non esistano e che il colore del governo su questi temi, dalle parti di Bruxelles pesi solo marginalmente. Sulla prossima legge di Bilancio pesa già un’ipoteca da 27 miliardi. Sono i 23,1 che serviranno a disinnescare le clausole di salvaguardia che prevedono l’aumento dell’Iva più altre spese inevitabili. Nei giorni scorsi è circolata, per l’ennesima volta, la speranza che dai conti dell’anno in corso spunti un tesoretto per il 2020. In particolare, le entrate extra provenienti dalla fatturazione elettronica e i risparmi da Quota 100 e reddito di cittadinanza. Una dote che potrebbe arrivare a sei miliardi di euro. Se un eventuale nuovo governo volesse poi procedere sulla strada tracciata dal ministro dell’Economia Giovanni Tria (ed è difficile pensare che faccia altrimenti), sono già allo studio dei tagli alle agevolazioni fiscali, che potrebbero portare 8 miliardi. La somma copre solo in parte la manovra di partenza per il 2020. Se poi la speranza è che l’Europa conceda all’Italia di fare più deficit, il rischio è che i piani degli aspiranti premier e ministri falliscano in breve tempo. Ieri il governatore della Banca centrale finlandese Olli Rehn, membro del board della Bce, ha detto che sono pronte misure di stimolo all’economia già dal mese prossimo. Quindi taglio dei tassi e forse un eventuale nuova edizione del Quantitative easing, l’acquisto da parte della Banca centrale europea di titoli di stato degli stati dell’Euro. Ma nel menu della nuova politica espansiva di Francoforte in realtà non c’è un ritorno a politiche economiche che non tengano conto del rigore. Al contrario, l’obiettivo degli stati membri, secondo Rehn, deve rimanere quello del pareggio di bilancio. Cattive notizie, quindi, per il partito del deficit che è vasto e trasversale, visto che va dall’attuale maggioranza gialloverde a Matteo Renzi, principale fautore di una nuova coalizione formata da democratici e cinque stelle. Il nuovo governo dovrà trovare spazi di bilancio tagliando le spese. E l’andamento dell’economia complicherà le cose. «La crescita del Pil italiano dovrebbe infatti essere pari a zero nel 2019, o addirittura negativa, con effetti negativi su deficit e debito. Di conseguenza, la prossima Legge di Bilancio sarà ancora più difficile da scrivere», ha spiegato ieri Renato Brunetta di Forza Italia. L’unica flessibilità che l’Italia potrebbe ottenere alla luce della situazione politica complicata (sempre che la crisi non rientri) è sul calendario. La prossima tappa è vicina: il 27 settembre il governo dovrà presentare la nota di aggiornamento al Def, quindi le nuove stime di crescita (riviste al ribasso) e il peso in termini di finanze pubbliche delle scelte che saranno incluse nella legge di Bilancio. Poi il 15 ottobre il Documento programmatico di bilancio, infine l’articolato della legge di Bilancio entro il 20 ottobre. Scadenze non perentorie, a differenza dell’impegno a ridurre il deficit e il debito pubblico. Impegni che non hanno colore.
Antonio Signorini sul Giornale a pagina 8.
L’economia in stagnazione deve diventare la vera urgenza. Il commento di Dino Pesole sul Sole. More
In questa surreale crisi di mezza estate, i protagonisti della scena politica paiono aver perso di vista l’elenco urgente e indifferibile delle vere urgenze del paese. Una buona dose di realismo dovrebbe indurre a non replicare gli errori del passato recente e remoto (“mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”, verrebbe da dire citando Tito Livio). Ed eccole le vere urgenze del paese: l’economia in stagnazione, che già prima che Matteo Salvini decidesse di dare la spallata al Governo viaggiava verso lo zero o poco più, la recessione mondiale alle porte nel perverso mix tra la drastica frenata dell’economia tedesca e gli effetti della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina con venti di recessione che lambiscono oltre alla Germania le due superpotenze mondiali e la Gran Bretagna. Tutti fattori che potrebbero erodere ulteriormente i margini di crescita per l’anno in corso e gli anni a venire. E vi è da mettere nel conto la reazione dei mercati. Già perché l’ulteriore (e comunque momentaneo) scudo che la Bce sta mettendo in campo a protezione della nostra economia potrà supplire solo in parte all’assenza di scelte urgenti di politica economica. Il tutto – come ha sottolineato il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia sulle colonne di questo giornale due giorni fa – mentre gli ordini arretrano nelle grandi regioni del Nord e a Sud si assiste a un continuo aumento dei divari e a un ulteriore deterioramento della situazione economica. Al momento servirebbe il pallottoliere per immaginare come si uscirà dall’impasse. Più che ipotizzare scenari in un crescendo da “prima Repubblica” (non era il “governo del cambiamento”?), dal ritorno al voto a fine ottobre alla riedizione non si sa ancora in quale forma dell’attuale maggioranza, dal governo “ponte” alla nascita di una nuova alleanza Pd-M5S, chi ha a cuore le sorti del paese dovrebbe interrogarsi su come rilanciare l’attività produttiva ora, alla ripresa autunnale, ponendo in cima alle priorità il lavoro e il taglio al cuneo fiscale. Sì certo, occorre evitare l’aumento di tre punti dell’Iva, pronto a scattare dal prossimo anno con il suo ingombrante peso di ben 23,1 miliardi. Si può anche immaginare di farvi fronte anche contrattando con Bruxelles qualche margine aggiuntivo di flessibilità, ma per questo occorre un Governo nella pienezza delle sue funzioni, credibile e in grado di offrire a Bruxelles, ai partner internazionali, ai mercati e alle agenzie di rating precise garanzie. A partire dall’impegno a ridurre il debito pubblico anche attraverso un piano graduale e realistico di dismissioni. Nessuno pensa a una riedizione delle politiche di austerità, a manovre restrittive di finanza pubblica che avrebbero come effetto quello di deprimere ulteriormente il ciclo economico. Il vero problema è come agire sul denominatore, sul Pil, riconquistando quel bene prezioso che si chiama fiducia. E questo è compito primario della politica, di una politica che guardi all’interesse generale, al futuro del paese e non alla volontà(anch’essa momentanea e sfuggente) di lucrare consensi nell’immediato. Quella in atto è una crisi che molti osservatori faticano a decifrare, mentre restano irrisolte e chiedono risposte immediate le innumerevoli crisi aziendali aperte. La verità è che occorre una svolta nella politica economica, e bisogna agire in fretta per porre al centro dell’azione di governo il tema della competitività. Rassegnarsi, per effetto dell’impasse in cui siamo piombati, ad un inarrestabile declino (che già stiamo pagando con la fuga all’estero dei nostri migliori giovani) equivarrebbe a negare che si possa creare un futuro degno di questo nome. Non ce lo possiamo permettere.
Dino Pesole sul Sole a pagina 4.
Gli editoriali. Gli effetti speciali d’estate. Paolo Mieli sul Corriere. Il dono insperato che accende i due forni dei Cinquestelle. Luca Ricolfi sul Messaggero. Quando i muscoli di Salvini si sgonfiano. Gad Lerner su Repubblica. Le ipotesi al buio. Bruno Vespa su Qn. In ogni caso la credibilità è già perduta. Marcello Sorgi sulla Stampa. Un brutto film già visto: oltre alla vergogna porterà guai. Maurizio Belpietro sulla Verità. Soluzioni deboli e alleanze difficili. Stefano Folli su Repubblica. Caro Matteo, meglio ritirare la sfiducia. Vittorio Feltri su Libero.
Paolo Mieli
Con il sistema proporzionale i partiti si presentano alle elezioni l’un contro l’altro ma sanno benissimo che dopo il voto saranno costretti a cercare in Parlamento alleanze di governo con i nemici del giorno prima.
Gad Lerner
In milanese viene detto “ganassa” chi esibisce virtù e muscoli di cui è sprovvisto, esponendosi a indecorosi dietrofront. Possibile che a Matteo Salvini sia bastato sbagliare i tempi della crisi balneare per rivelarsi un ganassa?
Luca Ricolfi
Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Sembravano non esserci alternative. Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu.
Vittorio Feltri
In Emilia e in Romagna si dice saggiamente che l’ora del coglione piglia tutti. Gli uomini sbagliano e quelli che ammettono i propri errori ne dimezzano la gravità. Mi pare quindi che a Salvini convenga riconoscere di aver calpestato una buccia di banana allorché ha deciso di aprire la crisi di governo al buio.
Maurizio Belpietro
Partiti senza voti provano a governare l'Italia in barba agli italiani. Dove possa portare il governo della vergogna è abbastanza evidente. Ora c'è da fare ciò che l'Europa vuole, cioè assecondare tutte le decisioni di Bruxelles, senza alcuna obiezione. Se passa il governo della vergogna, avremo anche il governo dell'invasione. Per la gioia di Renzi, della Boschi e di D'Alema. Un vero tuffo nel passato.
Bruno Vespa
Il lettore si aspetta che gli si faccia un po’ di luce nella selva oscurissima della politica italiana. Ma anche Virgilio stavolta si muove su un terreno mai esplorato della storia repubblicana. Nel ’39, quando Stalin si spartì con Hitler la Polonia, Churchill disse che le intenzioni dell’Urss erano un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Anche noi.
Paolo Mieli. Con il sistema proporzionale i partiti si presentano alle elezioni l’un contro l’altro ma sanno benissimo che dopo il voto saranno costretti a cercare in Parlamento alleanze di governo con i nemici del giorno prima. More
Niente paura. Gli effetti speciali che hanno allietato l’estate politica di questo 2019 sono nient’altro che imprevisti dovuti al passaggio da un sistema elettorale maggioritario (qui da noi temperato) ad un (pur corretto) proporzionale. Con il sistema proporzionale, com’è noto, i partiti si presentano alle elezioni l’un contro l’altro assumendo il volto dell’arme; ma sanno benissimo che dopo il voto saranno costretti a cercare in Parlamento alleanze di governo con i nemici del giorno prima. Se tale alleanza la troveranno, in virtù della disponibilità di qualcuno di questi ex nemici, nulla vieta che qualcuno di loro, poco tempo dopo, decida di fare un giro di valzer con un altro ex nemico. Dopodiché il soggetto iniziale potrebbe persino tornare a ballare con il partner precedente. Per «chiamare» la fine delle danze si deve poter disporre della maggioranza in almeno una delle due camere, cosicché nessun’altro possa dar vita a un nuovo esecutivo. Matteo Salvini ha avuto con sé in qualche momento questa maggioranza? Mai. Il suo è stato un calcolo sorprendentemente sbagliato che ha indotto in errore i suoi e quasi tutti gli osservatori esterni. I quali osservatori ritenevano che Salvini facesse affidamento su qualche complice esterno al centrodestra. Ma questo complice non si è visto. E così l’estate salviniana iniziata con canti e balli sulle spiagge si avvia a una conclusione assai più mesta.
Con il protagonista che sembra adesso chiedere l’autorizzazione a tornare sui propri passi. E può accadere persino che la ottenga. Il che però non renderebbe meno triste il finale di questa storia. Ci vorrà tempo prima che si capisca per quale motivo Salvini si sia lanciato nell’avventura dell’8 agosto. Avventura che non è stata quella relativa all’apertura della crisi ma, prim’ancora, l’aver fatto credere che avesse la possibilità di ottenere le elezioni anticipate. Da chi? Il leader leghista si sarà pur accorto del fatto che, nonostanteisondaggi lo incoraggiassero, in metà del Paese montava contro di lui un’avversione sempre più radicale. Poteva costatare come ormai fossero usciti allo scopertoisuoi incontrovertibili legami con la Russia di Putin. Sapeva che all’interno dell’attuale Parlamento avrebbe potuto contare esclusivamente sulla lealtà di Fratelli d’Italia e che la disponibilità nei suoi confronti di Forza Italia era assai dubbia. Anzi c’è il sospetto che i seguaci di Berlusconi si siano schierati in suo sostegno soltanto quando sono stati sicuri che la partita era persa in partenza. Adesso è addirittura possibile che una parte dei parlamentari di Forza Italia (quasi tutti, forse) si disponga a sostegno di un eventuale esecutivo grillodem. E comunque, anche nel caso Berlusconi fosse stato davvero convintoasostenere la corsa di Salvini verso le elezioni anticipate, i numeri per assecondare in Parlamento questa iniziativa non c’erano. Sono riconducibili agli effetti del proporzionale anche le molteplici giravolte del M5S. In campagna elettorale avevano detto che non era importante annunciare con chi, in caso di successo, avrebbero eventualmente governato. Un anno fa scelsero Salvini. A fine maggio 2019, la catastrofe alle elezioni europee. Poi la crisi. Adesso si sono aggrappati al salvagente che è stato loro lanciato da Matteo Renzi. A questo punto non è più impensabile che restino al governo — con Zingaretti o con ilredivivo Salvini — perl’intera legislatura. E persino che si riprendano elettoralmente, aiutati oltreché da coloro che sono rimasti sempre fedeli, dalle correnti maggiormente impegnate della magistratura. Ma anche da un fino a ieri imprevedibile entusiasmo da parte di molti ex antipatizzanti, dal rispetto dell’establishment del Paese e forse anche di quello europeo. Si può dire che, grazie all’innesto di Giuseppe Conte, siano entrati a far parte, con annesso coro di laudatores, della più collaudata tradizione partitica italiana. Il vero successo è quello del Pd che potrebbe tornare al governo —oquantomeno, ciò che più gli preme, nell’area governativa — in virtù di uno spettacolare dispiegamento tattico. Da tempo il Pd si è disabituato alla conquista del potere per via elettorale. In compenso i suoi dirigenti sono diventati maestri in quel gioco parlamentare che consente di rientrare sempre nella cabina di comando sfruttando le debolezze o le incapacità altrui. Dopo la sconfitta del 4 marzo 2018, il partito si è diviso nella «stupida polemica» (la definizione è di Adriano Sofri) tra coloro che — con la missione di sbarrare il passo alla Lega — volevano subito appoggiare un esecutivo dei Cinque Stelle e gli altri, la maggioranza, che sostenevano la non praticabilità di tale opzione, quantomeno nell’attuale legislatura. Appena però è scoccata l’ora della crisi di governo, Carlo Calenda si è trovato solo a sostenere quella che fino a qualche minuto prima era stata la posizione unanime del vertice del partito. Ora può darsi che Calenda sia un ingenuo e che non si renda conto d’ essere diventato un’inconsapevole pedina nelle mani di Salvini, ma davvero colpisce la compattezza nella giravolta di tutti gli altri, l’assenza nell’intera sinistra di una pur piccola area del dubbio. E colpisce soprattutto che il segretario Nicola Zingaretti, non abbia avvertito l’esigenza di spiegare in modo non semplicistico perché, nel volgere di poche ore, avrebbe cambiato idea. Difficile immaginare non sapesse prima dell’8 agosto che, nel caso di una crisi di governo e di elezioni anticipate, avrebbe dovuto affrontare l’onda leghista. E allora perché non dire mesi fa che, pur di evitare le elezioni, sarebbe stato disponibile ad abbracciare il M5S? Se avesse tenuto il punto sul sì alle elezioni, Zingaretti avrebbe potuto proporre al Movimento 5 Stelle un fronte elettorale antileghista o quantomeno un accordo di desistenza. Ma il segretario del Pd sembra aver (certo inconsapevolmente) introiettato quel modo di pensare per il quale da almeno due decenni la sinistra italiana ha perso fiducia nella propria capacità di affrontare le elezioni e preferisce di gran lunga il gioco parlamentare. Tant’è che anche nel caso di ribaltoni o simili quando li ha orditi la destra si ponevano l’obiettivo di giungere al voto in tempi ravvicinati (2008); nel caso in cui li ha fatti la sinistra, si proponevano esplicitamente il prolungamento della legislatura. Con governi dalle più svariate denominazioni. Dicevamo all’inizio che questo genere di problemi è generato in massima parte dal proporzionale proprio perché tale sistema induce ad alleanze innaturali tra partiti che si sono presentati agli elettori nei panni di irriducibili avversari. Fu così anche nella Prima Repubblica, ma i recinti della Guerra fredda — che tenevano fuori dall’area della legittimità comunisti (inizialmente anche socialisti) ed ex fascisti — consentirono competizioni un po’ meno dilanianti. La dose di caos in più è tipica dei momenti in cui si passa dal maggioritario al proporzionale. Ad esempio il 16 novembre del 1919 quando, appunto, si ebbe questo cambiamento di metodo elettorale e, a sorpresa, vinsero due partiti «antisistema», socialisti e popolari, che ottennero addirittura la maggioranza dei seggi parlamentari (256 su 508). I popolari, che di seggi ne avevano conquistati 100, si lasciarono progressivamente integrare, ma le ripercussioni di quel marasma furono tali che — anche per le complicazioni del primo dopoguerra — non fu mai conquistata una reale stabilità. E, dopo pochi anni, ci pensò un terzo partito «antisistema», quello fascista, a eliminare il proporzionale. Per poi abolire anche le libere elezioni.
Paolo Mieli sul Corriere in prima.
Gad Lerner. In milanese viene detto “ganassa” chi esibisce virtù e muscoli di cui è sprovvisto, esponendosi a indecorosi dietrofront. Possibile che a Matteo Salvini sia bastato sbagliare i tempi della crisi balneare per rivelarsi un ganassa? More
In milanese viene detto “ganassa” chi esibisce virtù e muscoli di cui è sprovvisto, esponendosi a indecorosi dietrofront. Possibile che a Matteo Salvini sia bastato sbagliare i tempi della crisi balneare — ormai glielo rimproverano anche i leghisti, a cominciare dall’astuto Giorgetti — per rivelarsi un ganassa? Quasi che il profilo forzuto con cui era riuscito a imporsi sulla ribalta mondiale, contenesse in sé il germe di un’insospettabile fragilità? L’estremismo politico spesso si nutre del carattere impulsivo dei suoi leader. Velocità, decisionismo, spregiudicatezza tattica, sono le loro armi a doppio taglio: in caso di fallimento, si ritorcono contro. Così, il repentino passaggio dal proclama di Pescara («Chiedo agli italiani pieni poteri, senza palle al piede») al balbettio di Castel Volturno («Mai detto di voler staccare la spina al governo»), ha rivelato in Salvini una vertigine d’insicurezza che nessuna macchina propagandistica sarebbe in grado di mascherare.
L’abbiamo intuito perfino nel modificarsi della gestualità e della postura dell’uomo autoconvocatosi in una notte di mezza estate alla conquista del potere: il passaggio dalla tracotanza rivestita d’ironia, a improvvisi singulti di commozione. Già martedì scorso, a Palazzo Madama, un Salvini più teso del solito aveva fatto ricorso all’espediente della dissimulazione. Provocava sull’abbronzatura dei senatori, mirava all’innocua scaramuccia delle interruzioni, ma si guardava bene dal pronunciare la parola “dimissioni”. Neanche un cenno sull’annunciatissima mozione di sfiducia al governo Conte. Un equilibrismo mirante a uscire dall’angolo in cui si era cacciato da solo. Celebrato dal fido tecnocrate degli algoritmi salviniani, Luca Morisi, in un tweet che suonava a involontario sfottò e che vale la pena di riportare per intero, con la sua messe di punti esclamativi e interrogativi: «Avete ascoltato l’intervento del Capitano al Senato??? Magistrale, unico, eclatante: un fuoriclasse assoluto! Questo è un leader!!!». Sia ben chiaro, non stiamo parlando di un fenomeno da baraccone, e anzi le folle che acclamano Salvini sono un dato di realtà certificato dai risultati elettorali. Se in Italia un partito a vocazione sovranista e illiberale ha potuto decuplicare i suoi consensi in un paio d’anni, con un’improvvisa accelerazione del corso della storia, è anche perché Salvini ha saputo cogliere l’attimo, intestandosi il malessere popolare e l’incarognirsi del dibattito pubblico. Probabilmente neanche lui credeva di poter riscuotere un così trionfale consenso, ma bisogna riconoscere che c’era del metodo nel suo attivismo. La mossa avventata che oggi lo mette in difficoltà ha origine proprio nella sua perseveranza di ventriloquo dei malumori popolari. Una perseveranza che l’ha sempre premiato quando faceva ricorso alla sfrontatezza e all’aggressività verbale. Col duplice profitto di galvanizzare i sostenitori e di intimidire gli avversari. Senza peraltro che mai nessuno gli chiedesse seriamente di renderne conto. Tutto procedeva per il meglio. Gli era bastato arrivare terzo alle elezioni del 2018, per ergersi a portavoce minaccioso di una forza scaturita dal basso. Fino a ottenere non solo la nomina a vicepremier, ma soprattutto l’accesso alla postazione per lui più vantaggiosa: il Viminale, (mal)inteso come comando delle forze di polizia, sinonimo di ordine e disciplina. Non è un caso se giovedì scorso a Castel Volturno – fingendo di dimenticare di essersi candidato a premier – Salvini ha confidato: «Spero di restare ministro dell’Interno a lungo». Sogna forse di riunificare la guida del governo e quella dell’ordine pubblico? Di certo ha evidenziato che perdere il Viminale sarebbe per lui oggi quasi insopportabile. Proprio questo sta rivelandosi il suo tallone d’Achille: teme che gli costerebbe caro rinunciare al Viminale come palcoscenico delle sue esibizioni di forza. Dall’alto di quella delicatissima istituzione, di cui ha voluto impossessarsi simbolicamente con la carnevalata delle divise, non solo ha scatenato la campagna dei porti chiusi ai migranti, applaudito dai tifosi della “cattiveria necessaria”. Ha voluto anche dimostrare che la funzione di ministro dell’Interno non mitigava affatto la pulsione estremistica per cui continuava ad essere premiato. Per non deludere il suo pubblico ha perfino rinforzato il sistematico ricorso al turpiloquio genitale contro ogni genere di avversario. Così abbiamo assistito al fiorire dei suoi «mi sono rotto le palle», apprezzati come fossero certificati di genuinità popolare. Fino al più recente oltraggio rivolto ai parlamentari in ferie: «Deputati e senatori alzino il culo!». Per quarantott’ore almeno, Salvini ci ha fatto vivere la sensazione che la crisi di sistema potesse degenerare drammaticamente. Chi arriva ad apostrofare con questi toni i rappresentanti dei cittadini, per poi invocare – attraverso un plebiscito elettorale – i pieni poteri, dovrebbe sapere che sta assumendosi un rischio fatale. La storia insegna che quel disprezzo per i parlamentari proclamato da leader estremisti ha costituito la premessa di più di un’avventura autoritaria. Chi brandisce quella minaccia mette nel conto l’eventualità di un tracollo istituzionale, dichiara di essere pronto a cimentarsi in una prova di forza, se non addirittura in una contrapposizione violenta nelle piazze. Ma a questo punto, per fortuna, il ganassa Salvini si è rivelato tale. Poco importa se nel caso di Salvini si sia trattato di fifa piuttosto che di senso di responsabilità. Fatto sta che il vicepremier, con il viso contratto in un inedito rossore davanti alle telecamere, ha cambiato atteggiamento. Tanto che i suoi ex partner pentastellati, dopo un disorientamento iniziale, lo hanno percepito, si sono emancipati da quattordici mesi di subalternità, e hanno cominciato a infilzarlo. Il mansueto Giuseppe Conte l’ha accusato di slealtà e ansia di potere, giungendo a definire ossessiva la sua riduzione del tema immigrazione alla formula “porti chiusi”. Un affronto cui Salvini ha reagito con la formula tipica del ganassa che finge di essere pronto a menar le mani: «Me lo dica in faccia!». Tanto non ci crede più nessuno. Se n’è accorto anche Luigi Di Maio, violentando la sintassi da par suo: «Quindi è inutile che ora sbraita». Il Salvini pentito che tiene il telefono sempre acceso e continua a chiamare “amico” l’altro vicepremier, «anche se lui non vuole», sarà l’esito ultimo di una sbandata ferragostana? Di certo l’ammiratore nostrano di Putin ha rivelato quanto spuntate fossero le sue armi quando si è messo a elencare per nome e cognome, di fronte al Senato, i sostenitori della spallata decisiva cui fingeva di accingersi: ha potuto citare solo poche figure minori dell’associazionismo imprenditoriale. Il suo esercito leghista è parso sfaldarsi perfino nella realtà virtuale dei social. Matteo Salvini e Luca Morisi sono troppo giovani per ricordare il protagonista della pubblicità dell’Acqua Recoaro nei Carosello di mezzo secolo fa. Anche lui era un Capitano, il mitico Capitan Trinchetto. Si vantava di imprese mirabolanti, le sparava grosse, finché un coro liniziava a canzonarlo col ritornello: “Cala, cala Trinchetto!”. L’estate di Salvini inaugurata al Papeete con “Fratelli d’Italia” in versione dance, potrebbe chiudersi così, più modestamente, con un sano “Cala Trinchetto”.
Gad Lerner su Repubblica in prima.
Luca Ricolfi. Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Sembravano non esserci alternative. Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. More
Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Questa certezza, condivisa dalla stragrande maggioranza degli osservatori (me compreso), si basava su una credenza che si è improvvisamente rivelata errata: e cioè che, non essendovi in Parlamento alternative all’attuale governo, Salvini avesse il coltello dalla parte del manico. Era lui, e soltanto lui, che poteva decidere se far proseguire la legislatura o interromperla. E in entrambi i casi ne avrebbe avuto un vantaggio: andando al voto avrebbe raddoppiato i consensi, restando al governo avrebbe potuto dettare le condizioni all’alleato Cinque Stelle, timoroso di andare al voto e dimezzare i consensi. Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. Non possiamo sapere se riuscirà ad accordarsi su un programma e a formare un governo, ma sappiamo che l’eventualità è all’ordine del giorno. E’ persino possibile che il nuovo governo duri fino al 2023, e che sia quindi questo Parlamento ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica. Dunque Salvini è all’angolo. La situazione, che sembrava rosea per lui, si è fatta repentinamente nera.
Perché se facesse cadere il governo, i Cinque Stelle potrebbero rispondere alleandosi con il Pd. Mentre se rinunciasse a sfiduciare Conte, a parte la figuraccia, si verrebbe a trovare nella classica situazione dell’anatra zoppa: nelle nuove condizioni sarebbero i Cinque Stelle ad avere il coltello dalla parte del manico. Situazione curiosa. E’ come se fosse resuscitato Bettino Craxi, ma con il triplo dei voti. Che cos’è, infatti, la condotta di Di Maio, se non la riedizione dell’eterna politica dei due forni? Allora Craxi poteva, a seconda del contesto, scegliere fra Dc e Pci, ora DiMaio non sembra farsi alcun problema a passare dall’alleanza (pardon: “contratto”) con la Lega a un possibile contratto con il Pd,magari grazie ai buoni uffici dell’estrema sinistra, che su diversi punti (politica economica e regole europee in particolare) è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd. Come è stato possibile tutto questo? E per di più in meno di una settimana? Da qualche giorno, molti stanno notando che Salvini ha clamorosamente sbagliato i tempi: se voleva andare al voto, doveva farlo subito dopo le Europee, e comunque non in agosto, con la spada di Damocle di una sovrapposizione – a novembre – fra Legge di Bilancio e procedure di insediamento del nuovo governo. Alla luce di quel che sta capitando, e soprattutto del modo istantaneo in cui si è delineato l’asse Pd-Cinque Stelle, mi sto convincendo invece che lo spettacolo cui assistiamo in questi giorni lo avremmo avuto comunque, anche se Salvini avesse sfiduciato Conte uno o due mesi fa. E sto pensando che chi, come me, guarda la politica dall’esterno, attribuendole ancora qualche sia pur debole, circoscritto e remoto movente ideale, ha clamorosamente sottovalutato un fattore cruciale: l’attaccamento al seggio dei parlamentari, una forza formidabile che li rende disponibili ad astrusi “ripensamenti” politici non appena se ne presenti la convenienza. Non saprei spiegare altrimenti quello che oggi sconcerta tanti elettori. E cioè che i parlamentari renziani, che ingenuamente ci eravamo abituati a percepire come la garanzia che in questa legislatura non avremmo visto un’alleanza Pd-Cinque Stelle, ora si mostrino pronti a rinnegare le scelte fatte fin qui (a partire dall’opposizione alla demagogica riforma che riduce il numero di parlamentari) pur di evitare il voto e la perdita del seggio, che sanno a rischio con il neo-segretario Zingaretti. E che, specularmente e con il medesimo scopo di non perdere i seggi conquistati, il Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto quadrato a difesa di Salvini sul caso Diciotti, ora – di fronte al caso della nave Open Arms – capovolga le sue posizioni sulla politica migratoria, pur di attaccare il ministro dell’Interno, passato nella categoria dei nemici. Alla fine, quel che resta di tutta questa vicenda è l’amarezza per il modo spudorato e ipocrita con cui questi cambi di linea politica ci vengono raccontati, sempre invocando la responsabilità, il senso delle Istituzioni, il bene del Paese, la volontà del popolo, i pericoli per la democrazia. La realtà, purtroppo, è molto più semplice del racconto che i politici tentano di cucirle addosso: Salvini al voto ci vuole andare perché pensa di raddoppiare i seggi, Di Maio e Renzi, perfetti eredi del trasformismo ottocentesco, al voto non ci vogliono andare perché di seggi ne perderebbero troppi.
Luca Ricolfi sul Messaggero in prima.
Marcello Sorgi. La cosa più allarmante di questa crisi non è che potrebbe rinascere un governo giunto ormai da tempo a un punto morto. Piuttosto che i leader che lo compongono, e anche quelli del Pd che si preparavano a farne uno opposto insieme ai 5 stelle, nel giro di pochissimo tempo si sono giocati, oltre alla rispettiva fiducia di ciascuno nell’altro, tutta la credibilità che avevano di fronte agli elettori. Si sono detti capaci di rimangiarsi tutto ciò che avevano detto e ripetuto. Lo hanno fatto e rifatto, e sono pronti a farlo ancora. In un Paese in cui una metà dei cittadini non va più a votare perché non si fida più dei politici, e l’altra metà si reca alle urne con fatica crescente, tutto ciò è gravissimo. Ma anche di questo, ai nostri, non frega proprio nulla. More
Sarebbe la vittoria del Generale Agosto – in questo caso del Ferragosto – che già tante crisi aveva risolto in passato, in nome delle vacanze e delle famiglie degli onorevoli da salvare. Se davvero Salvini facesse marcia indietro, come sembra, e ieri i rumors in questo senso si sono fatti più forti, nel giro di una decina di giorni avremmo assistito a una sorta di trasformismo perfetto. Nel senso che tutti i leader coinvolti in questa soap opera della fine, e poi della resurrezione, del governo giallo-verde, avrebbero smentito se stessi. Dopo Grillo, Di Maio e Renzi che, dimenticando gli insulti scambiatisi per anni, lanciavano un’alleanza Pd-5 stelle, dopo Zingaretti che rinunciava alle elezioni in nome di un governo di legislatura, ecco anche il Capitano pronto a tornare sui suoi passi. In nome di cosa, dopo che il premier Conte lo ha accusato di “sleale collaborazione” multipla, sul delicato tema dei migranti, non si sa. Ma appunto, se tutti possono dire tutto e il contrario di tutto, senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze, ci sta anche che Salvini ritiri la mozione di sfiducia, facendo spallucce. Niente, abbiamo scherzato. E vaglielo a dire ai leghisti del Nord che avevano invocato la rottura per la presa in giro sulle autonomista, agli imprenditori che subito si erano schierati, agli aspiranti deputati e senatori già in fila per essere messi in lista, in una tornata in cui i sondaggi attribuivano al Carroccio la possibilità di fare il pieno di voti e di eletti. Vero è che da qualche giorno il corpaccione della Lega aveva cominciato a mugugnare anche contro un capo assoluto come Salvini, di fronte all’ipotesi di ritrovarsi, non ai nastri di partenza di una nuova corsa elettorale, ma semplicemente all’opposizione. E di un governo, debole quanto si vuole, ma deciso a restare in carica il più a lungo possibile, pur di far sgonfiare la bolla salvinista (e sovranista). Se però il leader ha cambiato idea, sapendo di perderci la faccia come e più del suo insieme ex e rinnovato alleato Di Maio, ci dev’essere qualcosa di più sostanzioso. La sensazione, ad esempio, che la nascitura alleanza giallo-rossa avrebbe superato tutte le sue contraddizioni in nome di una spartizione di potere e poltrone perfino più sostanziosa e veloce da quella praticata dai due vicepremier in questi quattordici mesi. A cominciare, ovviamente dalla Rai, dov’era già pronto il ribaltone nelle reti e nei tg, e dalle prossime elezioni regionali, dall’Umbria all’Emilia, dove il Pd e i 5 stelle avrebbero trovato il modo di presentarsi alleati per dar filo da torcere alla Lega arrembante e al centrodestra vincente in tutte le elezioni locali di quest’ultimo anno e mezzo. La fine della cuccagna, per parlare alla Salvini. Naturalmente, se davvero andrà a finire così, ci sarebbe da porsi qualche domanda. Che ne sarà, per dire, di quel mezzo migliaio di immigrati che Salvini continua a voler lasciare in mezzo al mare e la ministra della Difesa Trenta ha voluto far scortare verso un porto italiano dalle navi della Marina militare? E della Tav, che è stata all’origine della crisi? E di Toninelli, il ministro sfiduciato dal Senato? Di Maio e i 5 stelle, in materia, si metteranno il cuore in pace? E il ministro dell’Ambiente Costa ritirerà le accuse all’alleato leghista per il giro in moto d’acqua della polizia di Salvini junior? E il taglio dei parlamentari, già in calendario il prossimo 22 alla Camera per l’approvazione definitiva, andrà in porto anche se finirebbe con il bloccare per un annetto le elezioni anticipate invocate dal ministro dell’Interno? Sono tutte questioni aperte, al netto delle accuse e degli epiteti volati da una parte all’altra della trincea giallo-verde. Si può star certi, tuttavia, che né queste né altre domande troveranno risposta, nell’eventuale chiarimento che dovrebbe cancellare la crisi e riportare armonia tra gli alleati. Per come sono andate le cose fin qui, d’altra parte, le risposte non servirebbero a niente. Nessuno ci crederebbe. La cosa più allarmante di questa crisi, infatti, non è che potrebbe rinascere un governo giunto ormai da tempo a un punto morto. Piuttosto che i leader che lo compongono, e anche quelli del Pd che si preparavano a farne uno opposto insieme ai 5 stelle, nel giro di pochissimo tempo si sono giocati, oltre alla rispettiva fiducia di ciascuno nell’altro, tutta la credibilità che avevano di fronte agli elettori. Si sono detti capaci di rimangiarsi tutto ciò che avevano detto e ripetuto. Lo hanno fatto e rifatto, e sono pronti a farlo ancora. In un Paese in cui una metà dei cittadini non va più a votare perché non si fida più dei politici, e l’altra metà si reca alle urne con fatica crescente, tutto ciò è gravissimo. Ma anche di questo, ai nostri, non frega proprio nulla.
Marcello Sorgi sulla Stampa a pagina 23.
Stefano Folli. Nessuno ha in mano le carte decisive. Non chi (Delrio) propone un “patto alla tedesca” ai 5S: occorrerebbero un paio di mesi di negoziato, se fosse una cosa seria. Non chi si accontenterebbe di un governo senza respiro, pur di rinviare le elezioni. Mattarella, sembra di capire, non intende accettare soluzioni furbesche, assemblate senza coerenza. Ecco perché è rischioso dare per fatta un’alleanza Pd-5S che è tutta da costruire. E quindi un governo elettorale per gestire il voto in ottobre è ancora uno scenario verosimile. More
Allo stato delle cose, l’unica notizia è una non-notizia: a tre giorni dall’intervento al Senato del presidente del Consiglio, martedì 20, nessuno si è dimesso. Nonostante una crisi d’agosto dichiarata con clamore sui mezzi d’informazione, tutti sono ancora ai loro posti. In primo luogo, l’autore dello sconquasso, Matteo Salvini: per ragioni tattiche si è tenuto il ministero dell’Interno e ha lasciato nei loro uffici l’intera delegazione leghista al governo. Ieri un esponente del vecchio Carroccio, Roberto Maroni, ricordava che nel 1994, quando Bossi decise di sgambettare il primo Berlusconi, ritirò subito i ministri della Lega conservando il solo Viminale in funzione di “garanzia” (il ministro era lo stesso Maroni). Una mossa ovvia nel codice politico di un tempo. Oggi si arriva al dibattito a Palazzo Madama con il vice-premier Salvini che nega, nonostante l’evidenza, di aver mai voluto “staccare la spina all’esecutivo” e bada a non perdere il ministero perché lì è il cuore del suo residuo potere. Residuo, appunto: negli ultimi giorni il personaggio è stato ridimensionato proprio nel rapporto con l’opinione pubblica, la sua arma migliore. Naturalmente non si è dimesso nemmeno il premier, nonostante che del suo governo siano rimaste le macerie. Conte vuole dare un profilo parlamentare alla crisi e si presume che andrà al Quirinale la sera di martedì, senza attendere che il Senato si esprima con un voto. Dopodiché il rebus sarà affare di Mattarella. Colpisce che non ci siano vere trattative in corso. Solo ipotesi che corrono sul web e manovre d’assaggio, forse diversivi per coprire il vuoto. È il caso dell’indiscrezione, resa nota da questo giornale, circa un’offerta di Salvini a Di Maio perché assuma lui la presidenza del Consiglio al posto di Conte indicato nella Commissione von der Leyen. Sembra più che altro una mossa per tenere sotto pressione i Cinque Stelle (che hanno smentito) e verificare quanto è seria la tentazione di un loro accordo con il Pd. Di sicuro Salvini dà l’idea di uno finito nelle sabbie mobili per eccesso di sicurezza. L’uomo che voleva stravincere oggi è preoccupato di perdere quello che ha. Accetterebbe anche di far rivivere, un po’ aggiustato, il patto Lega-5S. Uno sbocco persino banale, in realtà complicato. Per capirlo è utile tener d’occhio come evolve il caso Open Arms a Lampedusa: è lì che si sta consumando la frattura tra l’ideologia salviniana e il movimento grillino, il cui senso delle istituzioni rimane peraltro opportunistico. Lo dimostra il vessillo del taglio dei parlamentari: una riforma male elaborata e buttata sul tavolo con sprezzo della democrazia rappresentativa, ma che costituisce l’unico ponte tra il M5S e il Pd, almeno nella versione renziana. Quel che è certo, nessuno ha in mano le carte decisive. Non chi (Delrio) propone un “patto alla tedesca” ai 5S: occorrerebbero un paio di mesi di negoziato, se fosse una cosa seria. Non chi si accontenterebbe di un governo senza respiro, pur di rinviare le elezioni. Mattarella, sembra di capire, non intende accettare soluzioni furbesche, assemblate senza coerenza. Ecco perché è rischioso dare per fatta un’alleanza Pd-5S che è tutta da costruire. E quindi un governo elettorale per gestire il voto in ottobre è ancora uno scenario verosimile.
Stefano Folli su Repubblica a pagina 35.
Vittorio Feltri. In Emilia e in Romagna si dice saggiamente che l’ora del coglione piglia tutti. Gli uomini sbagliano e quelli che ammettono i propri errori ne dimezzano la gravità. Mi pare quindi che a Salvini convenga riconoscere di aver calpestato una buccia di banana allorché ha deciso di aprire la crisi di governo al buio. More
In Emilia e in Romagna si dice saggiamente che l’ora del coglione piglia tutti. Gli uomini sbagliano e quelli che ammettono i propri errori ne dimezzano la gravità. Mi pare quindi che a Salvini convenga riconoscere di aver calpestato una buccia di banana allorché ha deciso di aprire la crisi di governo al buio, mandando al diavolo il premier Conte, chiedendone la sfiducia, e i grillini con i quali bene o male ha collaborato per oltre un anno. La topica consiste nel fatto ineluttabile che i pentastellati hanno immediatamente intavolato trattative con il Pd (Renzi e Zingaretti) allo scopo di costituire un esecutivo alternativo a quello attuale. Vero che i progressisti per mesi avevano dichiarato pubblicamente: «Piuttosto che allearci con i grillini ci spariamo».Maerano chiacchiere a cui ilMatteo lombardo aveva ingenuamente creduto. Egli in sostanza ha abboccato e ha lanciato il cuore oltrel’ostacolo supponendo che, essendo impossibile un patto tra M5S e progressisti dei miei stivali, l’unica soluzione fossero le elezioni anticipate che Alberto da Giussano avrebbeaffrontato con le mani in tasca, forte dei sondaggi che lo davano vicino al 40 per cento. Col cavolo. Leindagini demoscopicheannunciano una realtà ma non la riflettono. Ciò che conta sono i numeri in Parlamento: Di Maio ha il 33 per cento dei deputati e dei senatori,mentre Salvini ha solamente il 17. Quest’ultimo pertanto ha perso in partenza. Nel senso che Gigino più gli ex nemici del Pd hanno la maggioranza efregano alla grande la Lega. Non è un problema politico bensì aritmetico. E chi pensa che i partiti siano fedeli agli ideali (di cui sono privi) più che alle poltrone da cui si gestisceil potere sono è un povero pirlacchione. Ecco, Salvini si è comportato, stranamente, da pirlacchione facendosi infinocchiare come un principiante. Dispiace dirlo, visto che lo stimo, però stavolta si èfatto turlupinare dai vecchi lupi della partitocrazia. Ora egli haa disposizione soltanto una carta: rimangiarsi la sfiducia a Conte e continuare a governare coni ciula gialli. Poi si vedrà. L’importante non è andare a votare ad ottobre, a questo punto, bensì non affidareil Paese allagrinfie degliex comunisti del piffero e agli scugnizzi che cadono dalle Stelle filanti.
Vittorio Feltri su Libero in prima.
Maurizio Belpietro. Partiti senza voti provano a governare l’Italia in barba agli italiani. Dove possa portare il governo della vergogna è abbastanza evidente. Ora c’è da fare ciò che l’Europa vuole, cioè assecondare tutte le decisioni di Bruxelles, senza alcuna obiezione. Se passa il governo della vergogna, avremo anche il governo dell’invasione. Per la gioia di Renzi, della Boschi e di D’Alema. Un vero tuffo nel passato. More
Ci mancava solo Massimo D’Alema a far da levatrice al governo della vergogna. Ma l’ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri che andava a braccetto con gli hezbollah, alla fine è arrivato a benedire la nascita di un nuovo esecutivo 5 stelle-Pd. Lo ha fatto ricordando che 24 anni fa un colpo di mano, sotto gli occhi compiaciuti di Oscar Luigi Scalfaro, portò alla nascita del governo di Lamberto Dini, mettendo in un angolo Silvio Berlusconi, che aveva vinto le elezioni del 1994, e aprendo la strada alla successiva vittoria di Romano Prodi. D’Alema fu l’artefice dell’operazione, perché da segretario dei Ds tenne i rapporti con Umberto Bossi, presentando la Lega addirittura come «una costola della sinistra». E sempre lui, da capo dell’ex partito comunista (la svolta di Achille Ochetto è del 1989), propose un ex democristiano ed ex boiardo di Stato come leader della coalizione di sinistra, vincendo poi le elezioni. Perché D’Alema abbia evocato quei primi mesi di 24 anni fa è piuttosto evidente. Anche all’epoca si trattava di far cadere un governo che gli italiani avevano volato contro ogni previsione. La discesa in campo del Cavaliere aveva spiazzato tutti, in particolare la «gioiosa macchina da guerra» del Pds, che dopo la caduta di socialisti e democristiani era convinta di avere la strada spianata. Diversamente da quel che ci aspettava, gli italiani votarono per Berlusconi, per Gianfranco Fini e per Umberto Bossi, facendo vincere una coalizione che sembrava impossibile mettere insieme. Era il periodo in cui Fini era considerato un rifiuto del parlamento, tanto che in Belgio un ministro socialista si rifiutò di stringere la mano a un ex missino come Pinuccio Tatarella, e non un interlocutore migliore di Berlusconi. Dunque, per far cadere il Cavaliere, Scalfaro e i compagni lavorarono su Bossi, assicurandogli che in caso di crisi non ci sarebbero state elezioni. E così fu. Berlusconi cadde, anche perché nel frattempo gli era arrivato il suo primo avviso di garanzia, e l’Italia non tornò alle urne, ma si beccò Lamberto Dini come presidente del Consiglio. Fu un governo ponte, per consentire alla sinistra di riorganizzarsi e di presentare un volto che non spaventasse gli italiani, ma consentisse agli ex comunisti di governare. Fu scelto Prodi e si sa come finì, cioè con la sciagurata negoziazione dell’ingresso nell’euro. Per D’Alema tutto ciò è un merito, per noi l’inizio di una catena di errori e di scelte calate dall’alto, senza il parere degli elettori. Perché non soltanto si decise di far fuori Berlusconi senza passare dalle urne, ma qualche anno dopo a fare la stessa fine fu lo stesso Prodi. Ormai non serviva più, il lavoro sporco lo aveva fatto e le elezioni le aveva vinte. Con il contributo di Fausto Bertinotti fu costretto alle dimissioni e a Palazzo Chigi, per la prima volta nella storia repubblicana, si insediò un ex comunista, ossia lo stesso D’Alema. Un’operazione che per certi versi ricorda molto quella compiuta anni dopo da Matteo Renzi. Anche quest’ultimo, quand’era segretario, giubilò l’ex democristiano Enrico Letta e, proprio come D’Alema, divenne presidente del Consiglio senza che gli italiani lo avessero votato. Sarà per questo che, pur odiandosi, sia Spezzaferro (il soprannome del lìder Maximo risale ai tempi universitari) sia il Rottamatore, oggi sono sulla stessa sponda e sostengono il governo della vergogna? In effetti, in questo D’Alema ha ragione. Fare oggi un governo 5 stelle-Pd serve a non far votare gli italiani, proprio come nel 1995, proprio come un quarto di secolo fa, serve a prendere tempo e a sgonfiare il partito che gode di maggiori consensi, magari, come accadde ai tempi di Berlusconi, con l’aiutino della magistratura. Insomma, l’operazione è la stessa, con la sola differenza che oggi, al posto del Cavaliere, c’è Matteo Salvini. Ma in entrambi i casi, dei partiti senza voti provano a governare l’Italia in barba agli italiani. Dove possa portare il governo della vergogna è abbastanza evidente. Ora c’è da fare ciò che l’Europa vuole, cioè assecondare tutte le decisioni di Bruxelles, senza alcuna obiezione. E i nostri complot- tardi sono pronti. Lo si vede già in questi giorni. Salvini è ancora al Viminale, ma già la linea sui migranti è cambiata e Giuseppe Conte, per salvare la poltrona, dopo aver condiviso la decisione di chiudere i porti, intestandosela perfino davanti alla magistratura, oggi apre all’accoglienza dei clandestini. Quello che ci attende dunque è chiaro. Se passa il governo della vergogna, avremo anche il governo dell’invasione. Per la gioia di Renzi, della Boschi e di D’Alema. Un vero tuffo nel passato.
Maurizio Belpietro sulla Verità in prima.
Bruno Vespa. Il lettore si aspetta che gli si faccia un po’ di luce nella selva oscurissima della politica italiana. Ma anche Virgilio stavolta si muove su un terreno mai esplorato della storia repubblicana. Nel ’39, quando Stalin si spartì con Hitler la Polonia, Churchill disse che le intenzioni dell’Urss erano un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Anche noi. More
Il lettore si aspetta che gli si faccia un po’ di luce nella selva oscurissima della politica italiana. Ma anche Virgilio stavolta si muove su un terreno mai esplorato della storia repubblicana. E poco gli è di conforto il fatto che pure i Virgilio che vivono nel Palazzo – e che dovrebbero saperne molto di più – sono semiciechi come lui. Limitiamoci perciò ad analizzare le diverse ipotesi, sapendo che questo articolo è scritto con l’inchiostro simpatico e può perciò scomparire in qualunque momento.
1. L’ipotesi più fresca, pur se acrobatica, è che Lega e 5 Stelle tornino insieme con Di Maio premier, Salvini vice e ministro dell’Interno, un ruolo ben più rilevante dei leghisti nel governo e Giuseppe Conte commissario a Bruxelles. Cosa, pare, a lui assai gradita anche per tornare in giro tra cinque anni in posizione più autorevole: si guardi a Mario Monti, che fu designato commissario da Berlusconi insieme con Emma Bonino. La Lega a questo punto voterebbe la riduzione del numero dei parlamentari: la legge non sarebbe operativa prima dell’estate prossima. Ma i leghisti (al contrario di quanto filtra dal Quirinale) sono convinti che se l’alleanza si rompesse prima si potrebbe andare comunque al voto con i 945 parlamentari attuali (la Lega conferma riservatamente la trattativa, pur con prudenza. I 5 Stelle smentiscono).
2. Questa ipotesi salta. Il 20 agosto Conte si presenta in Senato e pronuncia una durissima requisitoria contro Salvini. Finito l’intervento, sale al Quirinale e si dimette. Se i 5 Stelle hanno raggiunto l’accordo col Pd, Conte potrebbe essere incaricato di formare un nuovo governo. Se l’accordo non ci fosse, il Capo dello Stato avvierebbe le consultazioni e scioglierebbe le Camere consentendo il voto il 27 ottobre o il 3 novembre.
3. Che farebbe il Pd se Di Maio e Salvini non tornassero insieme? Quando ha aperto la crisi, Salvini aveva buoni motivi per contare sulla volontà di Zingaretti di andare al voto. Mai si sarebbe aspettato un accordo Renzi-Grillo. Renzi è un purosangue, galoppa in modo imprevedibile. L’anno scorso ha impedito la nascita del governo Pd- 5 Stelle. Poi ha marcato stretto Zingaretti perché non fosse tentato di riprovarci. Adesso vuole fare lui l’accordo. Perché? Perché Salvini gli ha tagliato la strada che prevedeva lo show down alla Leopolda in ottobre, la probabile scissione e la nascita del nuovo partito centrista pronto per elezioni a primavera. Ora Renzi si trova spiazzato e vuole guadagnare tempo. Sa che alle elezioni la rappresentanza parlamentare dei suoi verrebbe fortemente ridotta. Ma che interesse avrebbe Zingaretti ad assecondarlo, sapendo che Renzi – se e quando gli convenisse – non esiterebbe un istante a mettere in crisi il governo? Sarebbe possibile il ‘contratto di ferro alla tedesca’ invocato ieri da Delrio tra due partiti che la pensano su quasi tutto all’opposto?
4. I 5 Stelle non vogliono andare al voto. Imbarazzati dal vincolo del doppio mandato (che pure verrebbe aggirato), sanno che la rappresentanza parlamentare sarebbe falcidiata. Meglio perciò andare avanti chiunque sia il partner. Nel ’39, quando Stalin si spartì con Hitler la Polonia, Churchill disse che le intenzioni dell’Urss erano un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Anche noi, piano piano, ci siamo arrivati…
Bruno Vespa sul Quotidiano Nazionale in prima.
Lega. L’ora dei tormenti nella Lega. Dopo le ultime mosse del leader. «Perché inseguire Di Maio? Comanda Casaleggio». Promesse, sospetti, depistaggi. Il retroscena di Francesco Verderami sul Corriere (p.6). More
Per evitare l’inciucio tra M5s e Pd era prevedibile il tentativo salviniano di «contro inciucio», ed era scontato che la Lega concentrasse le sue attenzioni su Di Maio, considerato l’anello debole della catena grillina. Perché, come sostiene un autorevole esponente del Carroccio, «in un’alleanza giallo-rossa per Luigi non ci sarebbe tanto spazio al governo».
Ma è solo una manovra di disturbo, un tentativo di sabotare il gioco avverso, un modo per destabilizzare un’ipotesi di accordo ancora da costruire, un espediente per alimentare i sospetti nel capo del Movimento: «Non penserete di varare un governo di legislatura con Zingaretti, vero? I gruppi del Pd li comanda Renzi e lui ha bisogno solo di qualche mese per organizzarsi il suo partito, poi farà saltare il banco. A quel punto si andrà alle elezioni e voi sarete fregati».
Per certi versi è anche il retropensiero del segretario pongono domande al momento prive di risposte. Per esempio, «cosa vuol dire che il 20 agosto vedremo il da farsi, se avevamo presentato una mozione di sfiducia al premier»? «Perché Salvini oggi fa sapere a Di Maio che il suo cellulare è sempre acceso, se fino a ieri voleva votare subito contro Conte al Senato»? E «cosa spiegheremo adesso a quegli imprenditori ai quali avevamo chiesto di esporsi a favore delle elezioni anticipate: che ci va bene anche un rimpasto»?
Il rischio di minare «la credibilità del nostro progetto» è l’accusa più pesante rivolta al segretario, insieme al vociare sempre più insistito contro il suo «cerchio magico», accompagnato dall’interrogativo su chi sia «il vero consigliori di Matteo». I salviniani ovviamente non ci stanno a vedere il Capitano sul banco degli imputati, «perché è ora di finirla con la storia che avrebbe sbagliato i tempi della crisi. La verità è che nessuno aveva previsto la mossa di Renzi, nessuno immaginava che avrebbe teso la mano ai grillini. La sua giravolta ci ha spiazzato».
Ma è un fatto che Salvini non ha colto l’attimo dopo le Europee, e che dopo – raccontano nel Carroccio – si è ritrovato impigliato in alcune scadenze di governo. La più importante è stata il «decreto salva-conti», concordato con l’Europa per evitare la procedura di infrazione. Approvato dal Consiglio dei ministri il primo luglio, è stato convertito in legge il 30 luglio: «In tal senso, Salvini aveva dato precise garanzie a Mattarella, con il quale si era visto riservatamente dopo la visita di Giorgetti al Quirinale». Così viene spiegato il timing della svolta di inizio agosto.
Si vedrà quale sarà il dividendo di questa operazione per il leader del Carroccio, è certo che nella Lega regna un forte scetticismo, «anche perché inseguire Di Maio non ha senso, visto che ora a comandare è Casaleggio. A meno di non riuscire a spaccare il Movimento…». Ecco, il «contro inciucio» di Matteo è la risposta all’inciucio dell’altro Matteo nella «crisi più pazza del mondo», come l’ha definita (divertito) l’ex segretario del Partito democratico. Fino al 20 si andrà avanti così, tra promesse e depistaggi. Come quello di uno dei massimi esponenti del Pd, che l’altro giorno si lamentava per «l’assenza di Berlusconi. Ci fosse stato anche lui a sostenere la nostra operazione…». Ah sì? Allora per chi sta lavorando Gianni Letta?
Il retroscena di Francesco Verderami sul Corriere a pagina 6.
Roberto Calderoli: «Non c’è più margine per tornare indietro. Matteo ha fatto bene, all’80% si va al voto». Intervista sul Corriere (p.6). More
Senatore Roberto Calderoli, non crede che Salvini sia un po’ nervoso negli ultimi giorni, come se si rendesse conto di aver sbagliato mossa?
«Anzitutto, non fa parte del suo carattere. Ma ho constatato tante volte che quello che qualcuno gli contestava come un errore nel breve termine in realtà era una scelta giusta. Salvini ha un fiuto e una capacità di vedere lontano incredibili».
Sicuro che non abbia commesso errori?
«Ha creduto fino in fondo al punto di vista costituzionale».
Dica la verità: era solo una mossa tattica per prendere in contropiede Di Maio.
«No. Salvini ha detto che vuole andare al voto. Di Maio si è detto disponibile a patto di votare prima il taglio dei parlamentari. Bene, di fronte ad un via libera, i 5 Stelle che fanno? Il presidente Fico fissa il voto su quel punto dopo le comunicazioni di Conte…».
Il premier parlerà in Senato il 20 agosto. Cosa si aspetta?
«Ormai mi aspetto di tutto. Ma credo che Conte parlerà in Aula e poi andrà al Quirinale a rassegnare le dimissioni. Quello che succederà dopo è nelle mani del presidente Mattarella».
Quante possibilità ci sono che si vada a votare?
«Dico 70-80 per cento».
Perché è così ottimista?
«Sono in Parlamento da 27 anni e ho visto di tutto. Ma faccio davvero fatica a immaginare Renzi e Di Maio fianco a fianco».
Ci stanno provando.
«Stanno solo cercando un paracadute per tenere il più contratto di governo ma quando ha capito che non c’erano più margini per ottenere risultati ha detto stop. Ha intrapreso la strada più lineare e corretta. Chi si oppone cerca solo di salvare la poltrona. Ma ogni giorno che passa si fa un danno al Paese».
Facciamo un passo indietro. Salvini dice che si possono tagliare i parlamentari e poi andare subito al voto, il Quirinale ha fatto sapere che non è possibile.
«Invece è fattibilissimo. Può essere inopportuno ma non ci sono ostacoli, nemmeno dal possibile la loro poltrona».
È vero che è stato lei a consigliare a Salvini di non dimettersi?
«Salvini decide da solo. Semmai toccava ai 5 Stelle (al premier) prendere atto della fine del rapporto con la Lega e chiudere l’esperienza. Nel momento in cui abbiamo presentato una mozione di sfiducia, che altro c’era da attendere?».
Non poteva farlo Salvini?
«Solo come segnale politico, ma non avrebbe inciso sull’iter della crisi».
Il suo leader non ha sbagliato i tempi della crisi?
«Ha sopportato anche gli insulti più sanguinosi fino a che ha potuto. Poi il rapporto è degenerato».
Lei avrebbe chiuso prima?
«Mah, il primo anno il contratto ha funzionato. Certo, dopo le Europee ha cominciato a ballare tutto».
Salvini dice che ha il telefono sempre acceso. Dietrofront in vista?
«No, non vedo margini».
Roberto Calderoli intervistato da Cesari Zapperi sul Corriere a pagina 6.
Durigon. Il sottosegretario leghista Durigon intervistato da Repubblica: “Con il M5S abbiamo lavorato bene. Non può tornare Renzi”. Sulla sfiducia a Conte decide Salvini. Di sicuro mi pare impervia una alleanza tra il Movimento e i dem. More
«Facciamo decantare un po’ la situazione. Anche perché avevamo lavorato bene per undici mesi…», ragiona Claudio Durigon. Il sottosegretario leghista al Lavoro, un non lontano passato da vicesegretario generale del sindacato di destra Ugl, misura bene le parole. Ma la voglia travolgente di chiudere i ponti coi 5 Stelle per andare subito al voto, espressa per giorni e in tutte le salse da Matteo Salvini, sembra improvvisamente passata. Cosa sta succedendo? Ci state ripensando? «Le decisioni spettano al segretario. La situazione è precipitata da dopo le elezioni Europee però, altrimenti per quasi un anno le cose avevano funzionato. Questo lo ha riconosciuto anche Salvini, che erano state fatte delle cose e bene». E poi la Lega ha preso il 34 per cento e questo ha rotto gli equilibri. «No, il punto è che Salvini ha chiesto più volte nei mesi scorsi, facendo costantemente appelli agli alleati, di smetterla con gli attacchi personali. Poi aggiungendo che bisognava cambiare passo, dire dei sì. E i 5 Stelle non hanno mai ascoltato davvero, gli attacchi sono continuati. Mi stupisce quindi che qualcuno si sia stupito di quanto detto e fatto da Salvini, erano cose che ripeteva da tempo». Ma adesso, a questo punto, cosa vorreste? «Vediamo cosa succede, penso che sicuramente il voto sarebbe la massima espressione della volontà popolare. Oppure si trovano altre strade, nella vita politica succede di tutto». Quindi magari tornate con Luigi Di Maio? «Ripeto, non sono decisioni che spettano a me. Di sicuro mi pare impervia la strada di una alleanza tra Pd e M5S». Ma voi parlamentari e membri del governo non siete destabilizzati da queste continue giravolte dei vertici? «No assolutamente, ho delle idee nette. Come dicevo prima con i colleghi del Movimento abbiamo lavorato bene per diverso tempo, Salvini ha chiesto maggiore convergenza ma alla fine i rapporti si sono lacerati. Trovo pretestuoso però l’atteggiamento di chi cade dal pero, ecco». O questa alleanza va avanti in qualche modo o si torna al voto, insomma. «Questo non lo so, non decido io, faccio una analisi asettica della situazione. Pensare che possano tornare Matteo Renzi o Laura Boldrini mi sembra assurdo, gli stessi che hanno governato fino allo scorso anno e ci hanno lasciato numerosi problemi da risolvere. Un altro governo diverso da questo sarebbe il contrario di tutto, ecco». Con i suoi colleghi del Movimento ha contatti, vi parlate? «Sono stato in vacanza qualche giorno, quindi no, non li ho sentiti». Il 20 quindi cosa fate? Sfiduciate Giuseppe Conte in aula o no? «Per noi decide Salvini».
Claudio Durigon intervistato da Matteo Pucciarelli su Repubblica a pagina 2.
Tentazione Viminale. L’ira del capo Cinquestelle contro il «traditore». La tentazione Viminale. I suoi lo vedono all’Interno: farebbe meglio del leghista. Di Maio aspetta martedì: vedremo chi avrà il coraggio di sfiduciare Conte (Corriere p.3). Lega o Pd, Di Maio al bivio. Il leader 5S non si fida delle offerte di Salvini, sospetta siano solo un diversivo per far saltare il dialogo coi Dem ma è combattuto (Repubblica p.3).
Giorgetti prova a trattare. L’ipotesi Conte come commissario a Bruxelles. I fedelissimi del segretario: “È tutto aperto”. Ma i 5S per ora chiudono. “Di Maio sarà premier”. L’ultima offerta leghista per ricucire coi grillini. Anche diversi forzisti irritati con la Lega: “In caso di voto andiamo da soli” (Stampa p.5). L’altolà di Casaleggio e Grillo: mai più alleati con il Carroccio. I timori di big e parlamentari: «Di loro non possiamo più fidarci». Cresce il fronte del dialogo con i Dem (Messaggero p.2).
Tempo scaduto. Il presidente della Commisisone Affari Costituzionali Giuseppe Brescia, deputato grillino, chiude all’ipotesi di un nuovo accordo giallo-verde. “Ormai è impossibile fare la pace con la Lega. Hanno preso un colpo di sole sbagliando tutto. Con il Pd potremmo trovarci ad esempio sul salario minimo. La Tav? Per noi battaglia persa” (Stampa p.6).
Zingaretti: “Prima voglio vedere la crisi aperta”. Ma i contatti ci sono: Letta e Gentiloni i nomi che girano nel Movimento Da Minniti a Patuanelli: l’ipotesi M5S-dem. Il Pd: no a governi pasticciati di corto respiro. Corre voce che domani arriverà anche la benedizione di Prodi all’accordo (Stampa p.4). Il segretario del Pd adesso teme la figuraccia: “Il governo c’è…” I suoi (ieri Delrio) aprono trattative in pubblico coi 5 Stelle. Il segretario: “Un errore, l’esecutivo gialloverde è ancora lì” (Fatto p.3). E attacca Renzi. Il segretario non ha gradito la fuga in avanti del capogruppo sull’accordo alla tedesca con i 5S. Sull’ex premier: “Mi dava del traditore” (Repubblica p.7). Pd, pressing sul segretario. Ma lui: governo con M5S soltanto se di alto profilo. Cresce il fronte del dialogo, Delrio: contratto scritto, come in Germania. Zingaretti: via tutti gli attuali ministri, condizioni da verificare con il Quirinale (Messaggero p.7).
Il Fatto intervista Minniti. “Salvini ha paura del Metropol. Ora aspettiamo Conte in aula”. Dura accusa alle politiche migratorie del leader leghista e un invito al suo Pd: bisogna far maturare tutta la crisi e poi vediamo. Il gesto di forza compiuto è stato di paura, di una persona in una autentica crisi di nervi. La lettera di Conte è drammatica nei contenuti. Il ministro dell’Interno non ha mai avuto una strategia sui flussi (Fatto p.6).
Il Foglio intervista Carlo Calenda. “Con i grillini il Pd è finito. Elezioni subito o farò un altro partito” “Renzi tradisce i principi liberaldemocratici per tatticismo, gli altri per ideologia. Con Zingaretti non si parlano e i Pd sono due” (Foglio in prima).
Modello tedesco. Tempi troppo stretti e “diversità” il modello tedesco in Italia non va. In Germania ci hanno messo cinque mesi per varare il programma fra Cdu e Spd che, pur avversari, hanno una storia comune
(Messaggero p.7). Christian Petry, responsabile Europa Spd. L’allarme dei socialisti tedeschi: “Un pericolo il voto anticipato La Ue dia una mano all’Italia. Sarebbe spaventoso vedere Salvini al 40%. La politica che predica implica rischi enormi sia in termini economici che sul fronte migratorio (Repubblica p.7). Pd, il dialogo non è peccato. Il commento di Piero Ignazi su Repubblica (p.34).
Conte. «Non torno con Matteo, è sleale». Il premier verso le dimissioni con due alternative: il bis o la Ue. Le ipotesi: potrebbe lasciare martedì oppure due giorni dopo per permettere il via libera al taglio dei parlamentari (Messaggero p.3). Atteso lo show down di Conte al Senato. Elezioni più lontane. Palazzo Chigi fa sapere che «indietro non si torna», ma le incognite sono molte (Sole p.5). Conte non cerca mediazioni, la rottura ormai è insanabile (ma non pensa di candidarsi). L’idea che la «pace» rinvierebbe di pochi mesi la richiesta di urne di Salvini. Il retroscena di Massimo Franco sul Corriere (p.5). More
È singolare, per Giuseppe Conte, ritrovarsi di colpo da assediato a assediante involontario. E soprattutto di dovere questa inedita situazione a chi per mesi si è accreditato e presentato come premier-ombra o in pectore: Matteo Salvini. Comunque vada a finire questa surreale crisi ferragostana, aperta dal vicepremier e ministro dell’Interno con la richiesta perentoria di elezioni e pieni poteri, per il presidente del Consiglio si tratta di una specie di rivincita, seppure amara. Non è ancora chiaro che cosa dirà il 20 agosto in Senato: se davvero potrà gridare «tutta la verità» dei rapporti con la Lega. Ma la stella salviniana sta riemergendo appannata e ammaccata dalle minacce, i proclami in spiaggia e le mezze marce indietro. Forse l’effetto non si vedrà presto nei sondaggi. Di certo si percepisce in alcuni settori dell’opinione pubblica; tra gli alleati, forse ex, del Movimento Cinque Stelle; e, cosa per lui più rischiosa, nelle file del suo Carroccio.
Al punto che qualcuno potrebbe essere tentato di prenderlo in contropiede e cercare le elezioni. Azzardo simmetrico a quello salviniano, perché la sua macchina del consenso rimane formidabile. La sensazione è che a Palazzo Chigi le «comunicazioni» saranno scritte nelle prossime ore, perché non è ancora chiaro se si aprirà una crisi o si assisterà a imprevedibili pasticci dell’ultim’ora.
La possibilità che Conte rimanga alla guida del governo appare esile. La rottura con Salvini è totale, e lo testimonia la lettera aperta che gli ha scritto, infilzandolo sul «suo» tema preferito: l’immigrazione. D’altronde, il presidente del Consiglio non ha mai considerato «i porti chiusi» una politica. L’ha dovuta subire perché, prima e in particolare dopo le Europee di maggio sapeva di essere debole rispetto al leader leghista. Ora che la Lega ha annunciato, anche se non formalizzato, la rottura, si sente più libero di esprimere le sue riserve. Fosse per lui, con Salvini non si dovrebbero più stringere patti, e nemmeno stipulare atipici «contratti» come quello sottoscritto con il vicepremier grillino Luigi Di Maio nel giugno del 2018.
Quanto è successo a ridosso di Ferragosto, col titolare del Viminale tetragono sul voto a ottobre nonostante Conte gli illustrasse, calendario alla mano, le incognite di quell’azzardo, ha posato sul capo del Carroccio una patina di inaffidabilità. Dopo avere prosciugato l’elettorato grillino, e lanciato anatemi contro il «governo dei no», ha rotto la maggioranza a freddo, sbagliando però i tempi e gettando di fatto il Paese nel caos. Il vero ostacolo a una ripresa della collaborazione conflittuale col M5S nasce dal timore che tra qualche mese, intercettando i sondaggi favorevoli, si riaffaccino le brame salviniane: senza più manovre finanziarie e rapporti con l’Europa a fare da argine contro il voto.
È la rottura con Bruxelles che Conte ha sempre considerato come il rischio da scongiurare. Nelle due occasioni, una nel dicembre del 2018, l’altra alcune settimane fa, in cui è riuscito a evitare il commissariamento finanziario dell’Italia da parte della Commissione Ue, il premier ha potuto misurare i danni che le uscite leghiste, più di quelle grilline, possono causare. Nei vertici sono rimbalzate le parole di Salvini sulla Russia nella quale ha detto di sentirsi più a casa che in Europa; e i suoi omaggi ripetuti al trumpismo. Prese di posizione che sabotavano la faticosa trattativa di Conte in raccordo col Quirinale presso le cancellerie continentali; e che sono state registrate come presagi di destabilizzazione in vista della manovra finanziaria; e, nell’immediato, come colpi alla credibilità dell’Italia. Nei giorni scorsi, osservando un Salvini incoronato da decine di selfie, sudato e sorridente in costume sulle spiagge italiane, baciato dai sondaggi e proteso verso le urne, a Palazzo Chigi hanno visto confermato il sospetto di un delirio di onnipotenza: espressione che pare Conte abbia usato più volte negli incontri privati.
La battuta d’arresto ricevuta al Senato, e l’apparizione di una nuova maggioranza, tuttora precaria e embrionale, tra M5S e Partito democratico, hanno però riportato la Lega alla realtà: quella dei rapporti di forza parlamentari e delle procedure costituzionali. E, giorno dopo giorno, il traguardo elettorale si è allontanato come un miraggio sulla spiaggia di Milano Marittima, sottolineando la gestione maldestra dell’ultima fase da parte di Salvini. Adesso lo ammettono anche alcuni dei suoi, seppure a voce non troppo alta, perché non si sa come andrà finire. E Conte, l’assediato che si ritrova nel ruolo di assediante involontario, si prepara a uscire da Palazzo Chigi con l’aria serafica con la quale ci è entrato: come uno apparentemente di passaggio. Per questo è improbabile che, quando ci saranno, si candiderà alle elezioni. Piuttosto, si vede nel bel mezzo del traffico romano con la calma surreale di un Ernesto Calindri che nella vecchia pubblicità del Cynar sedeva a un tavolino sorseggiando l’amaro «contro il logorio della vita moderna».
Massimo Franco sul Corriere a pagina 5.
Gli editoriali 2. Accattonaggio molesto. Marco travaglio sul fatto. Il più grande partito morente. Che torni con Salvini o vada col Pd, per il M5s la pacchia è finita. Champagne. Claudio Cerasa sul Foglio. Fare acqua: “Se avanzo, indietreggiatemi”. Trux e i liberali per il Trux gavettonati. E ora prendete bene la mira. Giuliano Ferrara sul Foglio.
Mattarella rientra dalla Sardegna. E pretende chiarezza sugli sbocchi della crisi. Se alle consultazioni i partiti chiederanno tempo per un’intesa non lo negherà (Corriere p.2). Consultazioni-lampo se Conte si dimette. Il Capo dello Stato vuole evitare forzature parlamentari. Le Camere potrebbero essere sciolte dopo il 23 agosto. Attesa per le mosse dei partiti. Il Quirinale vuole salvaguardare l’economia (Stampa p.6). Mattarella non vuole pasticci ma patti di lunga durata. Il Quirinale non tifa per il ribaltone e alza l’asticella per evitare intese di breve respiro. Se si andrà al voto Salvini non gestirà le elezioni restando all’Interno: più probabile un governo elettorale guidato da Casellati. Il presidente in ferie alla Maddalena sarebbe dovuto tornare a Roma lunedì ma ha anticipato il rientro (Repubblica p.6). Reincarico o Cantone: le carte del Colle Il capo dello Stato valuta tutte le ipotesi e attende le mosse dei partiti (Giornale p.3).
Landini. Repubblica intervista il segretario della Cgil Maurizio Landini: “Basta interessi personali. Serve un governo”. Conte nella lettera a Salvini parla di slealtà e strappi istituzionali. Sta a Mattarella verificare le condizioni per un nuovo esecutivo. Le parole del leader leghista evocano dittature: bisogna difendere la democrazia, la magistratura e la libertà di stampa. Sindacato e sinistra in ritardo nel dialogo con il mondo del lavoro, ma ci sono le condizioni per recuperare. Corpi intermedi essenziali (Repubblica p.8).
Bersani. E Pier Luigi Bersani scrive a Repubblica (p.8): Sia la sinistra che i grillini devono essere pronti a cambiare.
Centrodestra. Banda dei 4 e Partito Mediaset: i due forni di Berlusconi. Forza Italia, il partito è diviso tra chi vuole l’accordo con Salvini e chi rimpiange il Nazareno. Mulè, Ronzulli, Casellati e Bernini (con Ghedini) spingono per la Lega, ma Gianni Letta vigila (Fatto p.4). La rabbia dei berlusconiani: il vicepremier non sta ai patti. Fi: «c’era un accordo elettorale, sì al nostro simbolo e conferma per gli uscenti» (Messaggero p.4). Fi ora teme i giallorossi. Berlusconi preoccupato dal governo Pd-M5s. Il governatore ligure presenta il suo simbolo (Giornale p.7). Berlusconi deluso dal Carroccio. Riapre all’ipotesi governissimo. Azzurri furiosi per le mosse di Salvini, il Cav è convinto che sinistra e pentastellati troveranno facilmente un accordo. Così medita di appoggiare il nuovo esecutivo (Libero p.6).
Il tradimento. Il «tradimento» in politica non porta bene. Da Fini e Alfano a Renzi, tutte le vittime. Di Battista accusa il leader della Lega di avere rotto il patto. E lascia Matteo col cerino in mano. Quando Bossi mollò Berlusconi per mandare Lamberto Dini a Palazzo Chigi. Adesso anche i grillini scoprono la tentazione di «aprire» a Zingaretti. Vittorio Macioce sul Giornale in prima.
Giuramenti di fedeltà eterni per tradirsi meglio e (forse) ritrovarsi dopo mesi d’insulti e minacce. Salvini-Di Maio come un film con Liz Taylor e Richard Burton. Ma anche gli altri non scherzano. Odio e amore, così il tira e molla è diventato forma di governo. La storia italiana segnata da inimicizie epiche, mai viste relazioni così volatili (Stampa p.7).
Open Arms, si muovono i pm: «Sequestro e violenza privata». La Guardia Costiera: sbarco, non c’è impedimento. Scontro sulla salute dei migranti (Corriere p.10). La Guardia costiera si dissocia dal Viminale. “Fate attraccare la nave dei migranti a Lampedusa”. La procura indaga per sequestro di persona. Il comandante: “Si temono episodi di autolesionismo”. Salvini: “Falso, ci prendono in giro” (Repubblica p.10). L’Ue: “Open Arms, situazione insostenibile”. La Procura indaga per sequestro di persona L’inchiesta punta su Salvini, ma il Viminale sfida il Tar: “Emergenza medica? Una balla”. Sei paesi pronti ad accogliere (Stampa p.8). A bordo della Ocean Viking: “Dovrebbero scendere il prima possibile. Non li riporteremo mai in Libia, non è sicuro. Noi seguiamo le leggi internazionali del mare. L’Italia ancora non risponde, ma restiamo in attesa” (Stampa p.8). Rinnegati tutti i porti chiusi. Conte si rifà la verginità per il governo dell’invasione. Il premier che ieri elogiava l’85% di sbarchi in meno adesso attacca “l’ossessione” di Salvini. Il cambio di rotta clamoroso, benedetto dal Colle, serve a convincere i dem (Verità p.2).
Il medico che nega l’emergenza “Gli sbarcati stanno bene al massimo c’è chi ha un’otite”
«Macché gravissimi, i 13 migranti sbarcati dalla Open Arms stanno tutti bene, anche meglio di me», continua a ripetere al telefono il dottore Francesco Cascio, il sei volte deputato di Forza Italia (fra Parlamento e Regione) che oggi fa il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa. È lui il successore di Pietro Bartolo, il medico eroe dell’isola che ha curato migliaia di migranti, diventato eurodeputato del Pd (Repubblica p.10).
Scusi, Cascio, in che senso stanno tutti bene? Il Corpo sanitario dell’Ordine di Malta ha stilato un referto che descrive condizioni gravissime a bordo. «Anche il poliambulatorio che dirigo ha stilato dei referti. Abbiamo riscontrato solo un caso di otite in una ragazza». Sui social qualcuno le dà già del negazionista, Salvini ha invece ritwittato le sue parole. «Non vado da giorni sul web, per adesso sono fuori da tutto». Dunque non li ha visitati lei i 13 migranti sbarcati. «No, perché sono in vacanza con la famiglia. Ho preso un giorno di ferie, lunedì sarò nuovamente al mio posto. Però, mi fido ciecamente dei medici che lavorano con me». Possibile che ci siano dei referti così contrastanti? A bordo era stata segnalata anche una donna affetta da emorragia vaginale. «Mi hanno detto che sul web qualcuno ha scritto: Cascio fa l’occhiolino alla Lega. Ma io parlo con i fatti. Quella donna aveva l’emoglobina a 11,6. Sta davvero meglio di me». Beh, è vero che la politica logora, ma sempre meglio di una traversata su un barcone. Davvero nessuna tentazione di salire a bordo della nave leghista? «Con la politica ho chiuso, fra tante amarezze. Sono decaduto da un seggio all’assemblea regionale siciliana dopo una condanna per corruzione, ma poi la Cassazione mi ha assolto. E nei mesi scorsi sono finito addirittura ai domiciliari per un’altra storia, ma il tribunale del Riesame ha annullato l’ordinanza». I magistrati di Trapani l’accusano di fatto arrivare la notizia di un’indagine al gran maestro di una loggia segreta. «Io non c’entro niente con questa storia. Adesso, faccio solo il dottore a tempo pieno all’Asp di Palermo. E da un anno e tre mesi, ogni 15 giorni, vado a Lampedusa e ci resto per una settimana. Sa quanti pazienti abbiamo d’estate? Sessanta al giorno, e nessuno mai si è lamentato». I suoi collaboratori sono gli stessi che lavoravano con Bartolo? «Qui, sull’isola, i medici ruotano continuamente. E poi Pietro Bartolo è mio amico, ha fatto un gran lavoro, ma se c’è qualcuno che ha beneficiato della questione immigrazione per fare politica è proprio lui». Ma come si fa a ignorare quel referto che parla di venti casi di scabbia a bordo? «C’è davvero la scabbia su quella nave? E allora perché non li fanno sbarcare?». Ecco, perché? «Non mi occupo più di politica. Giuro».
Il superstite in ospedale a Malta (Corriere p.10). Mohammed il sopravvissuto. “Partiti in quindici ho resistito solo io” Il dramma del naufrago recuperato su un gommone. Undici giorni alla deriva: via via che gli altri morivano gettavamo i corpi in mare. L’ultimo, Ismail, mi ha detto: buttiamo via il cellulare e facciamola finita insieme. Ma io volevo vivere (Repubblica p.11).
Ong contestata. Sul molo contestazioni a Riccardo Gatti, capomissione della Ong spagnola. Lampedusa indifferente ai “prigionieri” della nave: “Perché li mandate qui?” Richard Gere: “Questi sono angeli sopravvissuti alla Libia” (Stampa p.9).
De Falco (ex m5s) “Ora i magistrati intervengano con forza pubblica” (Stampa p.9).
Merkel e Sophia. Dopo lo stop a Sophia, Berlino disponibile a una nuova missione militare Ue. La Germania auspica una riedizione dell’operazione europea “Sophia” oltre a “navi statali” che salvino migranti. A dichiararlo la stessa cancelliera Angela Merkel durante un incontro che si è svolto a Berlino (Fatto p.4). Merkel rilancia «Navi di Stato peri salvataggi in mare» Corriere p.10
Editoriali. Quegli uomini bianchi che litigano sul destino dei disperati. I migranti usati per guadagnar punti nella partita della crisi. Il commento di Domenico Quirico sulla Stampa (p.23). Ostaggi della campagna elettorale. I migranti di Open Arms non sbarcano: la gara dell’ipocrisia tra Lega e M5s (Foglio pagina 3). Scenderanno tutti. Mi creda, Salvini, tutta quella sofferenza in più non le serve, non le è utile. E lei ha già perso. Una lettera di Sandro Veronesi al Foglio
Siena. Il Palio di Siena alla Selva per un soffio cade il fantino, il cavallo scosso vince (Messaggero p.15).
Emozioni, brividi e suspense al Palio di Siena dove vince la Selva con il cavallo Remorex “scosso”, ovvero senza il fantino Giovanni Atzeni detto Tittia, caduto a metà corsa per aver urtato in curva un colonnino in pietra. Dopo una lunga rimonta e aver messo alle spalle due rivali, il cavallo della Selva supera all’arrivo anche il Bruco di un frammento di muso. Così accertano i giudici della corsa, bruciando di delusione i contradaioli del Bruco che già stavano reclamando la consegna del “drappellone” dipinto da Milo Manara. Verdetto rovesciato, dunque, e Palio assegnato alla Selva, con clamoroso colpo di scena. È il secondo Palio vinto dal cavallo Remorex, che si afferma come “specialista” dei trionfi da scosso. Così aveva primeggiato per la contrada della Tartuca anche al Palio straordinario dell’ottobre 2018
Repubblica p.27
Bell’Italia. Passeggia a torso nudo 250 euro di multa.
Difficilmente dimenticherà il Ferragosto trascorso ad Agropoli (Salerno). Un turista di mezza età, residente a Napoli, infatti, è il primo a essere incappato nell’ordinanza pro-decoro varata nei giorni scorsi dal sindaco, Adamo Coppola.
Messaggero p.15
“Mia figlia è nata e sta bene ma non multate più in bus una donna con le doglie”
Sentivo forti dolori e ho avuto paura. Non pensavo al biglietto, volevo solo arrivare in ospedale prima possibile
Penso che quel controllore non abbia agito con coscienza Anche a un pubblico ufficiale è richiesta un po’ di sensibilità
Repubblica p.17
Da tutta Italia per salutare Nadia. «Grazie, davi voce ai più deboli» Toffa,folla aifunerali.I pullman dalla Puglia.I colleghi: «Non sopportava l’ingiustizia»
Il prete di Caivano DonPatriciello celebra lamessa «Con leisiamo tutti in debito»
Corriere p.19
Medici. Sos pronto soccorso. Dal Veneto alla Puglia largo ai neolaureati. Anche la Toscana assume non specializzati Alt dei sindacati: così aumenta il precariato (Repubblica p.15). Giochi pericolosi sui medici. Il commento di Daniela Minerva su Repubblica (p.34).
Bce. La Bce risfodera il bazooka: “Interveniamo contro la crisi”. Il governatore della banca finlandese Olli Rehn: “A settembre il Quantitative easing 2 e un nuovo taglio al costo del denaro” (Repubblica p.28). “Occorre non deludere le borse”. Verso 50 miliardi di euro al mese. La riapertura del Qe può essere accompagnata da un taglio sui depositi. Allo studio anche l’acquisto dei crediti bancari e delle quote di fondi. A settembre è importante che la Bce intervenga con un pacchetto significativo. Standard & Poor’s: per l’economia Usa aumentano i rischi di recessione (Stampa p.16). Prove generali d’intervento Bce, i mercati ora ci credono. Milano recupera l’1,51% dopo l’apertura di Olli Rehn a mosse «significative e d’impatto» dell’Eurotower a settembre. Euro di nuovo sotto 1,11 (Sole p.3). L’economista tedesco Guntram Wolff: “Serve una politica fiscale più incisiva” “Nell’Ue tassi d’interesse ancora più negativi. Un bene per la ripresa”. Lagarde con il suo background gestirà bene il processo decisionale sulla politica monetaria. Le azioni della Bce sono molto meno utili di quanto non fossero in passato con i tassi alti (Stampa p.16).
Germania. Germania, se sarà recessione governo pronto a nuovo debito. Le rivelazioni di Spiegel: gli economisti stimano il bisogno di investimenti in oltre 500 miliardi. Merkel e Scholz sarebbero disposti a rinunciare al pareggio di bilancio (Sole p.12). Il paradosso della Germania in crisi che finanzia il suo boia Trump. La locomotiva d’Europa ha bisogno di una revisione ma non riesce a trovare strategia migliore di comprare titoli americani (Foglio p.3). Grosso guaio alla Deutsche Bank. Il fondo americano Cerberus, quarto azionista dell’istituto tedesco, contro il piano per liberarsi dei crediti tossici. L’istituto tedesco detiene in pancia quasi 50mila miliardi di euro in derivati finanziari (Manifesto p.7).
Cina. Cina in frenata più del previsto e non solo per colpa dei dazi Usa. Consumi deboli. Il crollo delle vendite di auto spia di problemi che vanno oltre la guerra commerciale. Un nuovo rapporto di Rhodium Group (Usa): «Dati ufficiali irrealistici» (Sole p.13).
Ex Ilva. Un colpo d’acceleratore per salvare l’ex Ilva. Il decreto Imprese inviato al Colle: possibile la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale già il 19 (Corriere p.28). Assunzioni, ambiente, indotto: le promesse mancate all’ex Ilva. Dopo l’iniziale apertura, il gruppo ha impugnato la revisione delle autorizzazioni. Un anno con i nuovi padroni di ArcelorMittal (Fatto p.15). Ilva, l’immunità andrà avanti a Camere aperte. Sarà un caso, ma nelle stesse ore in cui spunta l’ipotesi di un ricompattamento Lega-M5S, si sblocca (almeno a parole) il caso Ilva. Il Decreto imprese che prevede la reintroduzione di una parziale immunità penale per i manager ArcelorMittal, sarebbe in viaggio da palazzo Chigi al Quirinale per poi approdare in Gazzetta Ufficiale. Il provvedimento, era stato approvato “salvo intese”. Il rinvio della pubblicazione, dicono fonti governative, era solo per non sottrarre un mese di tempo all’esame del Parlamento prossimo alla chiusura estiva. L’improvvisa riapertura delle Camere consentirebbe ora invece la pubblicazione e, dunque, di scongiurare l’addio all’acciaieria minacciato da ArcelorMittal per il 6 settembre, scadenza dell’immunità originaria. I sindacati restano guardinghi e i genitori tarantini con l’incubo dell’inquinamento accusano Di Maio di tradimento. Ma come insegna la crisi politica più pazza del mondo, può ancora succedere di tutto.
Marco Patucchi su Repubblica a pagina 28.
Dazi. I dazi dei quattro cantoni. Usa, Cina, Europa e Russia tutti contro tutti. Una guerra che ora comincia a spaventare pure chi l’ha scatenata. Trump, che ha scatenato la guerra, si sta incartando e comincia a rendersene conto. La nuova ondata di dazi è rinviata a dicembre. Stefanp Cingolani sul Foglio a pagina III.
Banche. Banche, 45 miliardi di utili grazie anche ai tagli al personale. In quattro anni, dal 2017 al 2020, le banche italiane realizzeranno oltre 45 miliardi di utili, grazie anche a un taglio delle spese del personale e a un cost-income (il rapporto tra costi operativi e margine di intermediazione) fra i migliori di Europa. I numeri, elaborati dalla Fabi su dati Bce, Bankitalia e sulla base dei bilanci dei gruppi bancari, sono anticipati dall’Agi. Numeri che dimostrano come il settore creditizio si sia rimesso in piedi, tornando alla redditività e asciugando il numero di dipendenti. Tanto che oggi le banche italiane hanno raggiunto efficienza operativa fra le migliori in Europa, con un costo del lavoro che pesa soltanto per il 30% dei ricavi. Nel dettaglio, nel 2017 e nel 2018, sono già stati realizzati 10 miliardi di utili l’anno, con il miglior risultato dal 2009. Nel 2019 secondo stime Abi si arriverà a 10, 9 miliardi e a 14, 3 miliardi nel 2020. Anche i costi operativi, che comprendono spese generali e spese per il personale, sono diminuiti passando dai 60, 6 miliardi del 2016 a 55, 8 del 2017 (Stampa p.17).
Report choc. General Electric, report choc: «Come Enron». Markopolos, la talpa che scoprì la truffa di Madoff, accusa la società: «Esposta per 38 miliardi di dollari». Il numero uno di Generfal Electric, Culp, contro il moralizzatore: solo speculazione. Il titolo prima crolla poi rimbalza (Messaggero p.17). Il report: le perdite sarebbero superiori a 38miliardi. La società: manipolazione. Harry Markopolos, 62 anni, è l’investigatore che, dopo diversi anni di segnalazioni alla Sec, dimostrò di aver visto giusto sul caso Madoff, il maggior «schema Ponzi» privato della storia finanziaria (Corriere p.29).
Pa. Dagli appalti alla Pa mancano 278 decreti. Provvedimenti attuativi mai varati. C’è anche l’anticipo del Tfr agli statali. Il Reddito ancora senza controlli, buchi su sicurezza e immigrazione. (Messaggero p.9).
La lotta alla mafia non si ferma. Ma certo rallenta un po’. La crisi di governo inceppa la macchina burocratica al punto tale da bloccare un mucchio di provvedimenti che aspettavano solo l’input politico per andare in porto. Sono ben 278 i decreti attuativi da adottare per rendere esecutive le leggi e le riforme dell’esecutivo Conte. Ma ora, senza una guida, i funzionari fanno cadere le penne e i ministeri si fermano. Tanto che, appunto, chissà quando arriveranno i criteri che servono all’Agenzia nazionale per stabilire la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Anche la lotta all’immigrazione clandestina, tanto cara al ministro degli Interni, Matteo Salvini, rischia di incassare una pesante battuta d’arresto. Gli uffici del Viminale e degli Affari Esteri, tanto per fare un esempio, devono ancora stendere l’elenco dei Paesi di origine sicuri sulla base di criteri definiti dalla legge per la valutazione delle domande di protezione internazionale. Una carta senza la quale l’Italia non ha una bussola in materia di accoglienza.
Hong Kong. “Ora abbiamo paura”. Il weekend di lotta nell’Hong Kong divisa. La barriera invisibile tra la città ribelle e gli abitanti filo cinesi. I ricchi temono per gli affari: “Troppi danni dalla protesta”. L’83% degli intervistati si dice disposto a chiudere un occhio sulle reazioni violente della piazza. Il 71% dei cittadini non va orgoglioso della madrepatria, solo l’11% si definisce “cinese”. I “Lennon Wall” sono uno dei simboli della rivolta: pensierini e slogan scritti dai giovanissimi (e non solo) in inglese e cinese: “Vogliamo democrazia, dateci i nostri diritti”. Migliaia di post-it sui muri al grido della libertà. Il presidente si dice “preoccupato”. Trump tenta la mediazione: “Xi parli con i manifestanti. Se il presidente incontrasse direttamente e personalmente i manifestanti, ci sarebbe una conclusione lieta” (Stampa p.2). L’appello criptico del miliardario: «Hong Kong è un melone rotto». Li Ka-shing ha acquistato due pagine di giornale per dire a Pechino: basta violenza sui ribelli (Corriere p.12.
Brexit. Ultima spiaggia Brexit. L’opposizione britannica pensa al ribaltone per fermare il no deal, ma Corbyn rischia di rovinare tutto (Foglio prima). Corbyn si candida a premier. Per evitare la Brexit dura. L’idea del leader labour per rinviare l’addio all’Europa raccoglie più dubbi che consensi
(Repubblica p.22). Il paradosso di Corbyn nel fronte anti No Deal (Corriere pag.9).
LONDRA Dai drammi storici shakespeariani alla caduta di Margaret Thatcher, la politica inglese ha una tradizione lunghissima di congiure fratricide e spietati cambi di leadership: quello che mancava era il lessico — governicchi a termine, inciuci, ribaltoni — della politica italiana. È la fine della serietà britannica di una volta, asfaltata nel conto alla rovescia verso la Brexit (31 ottobre), con il salto del buio del No Deal, l’uscita dall’Unione senza accordi. È l’ora, italianissima, di accordi trasversali, ipotesi di governi a interim, incerte trattative a mezzo stampa. La frangia dei ribelli conservatori ieri si è alleata con i liberaldemocratici: fermare il primo ministro Boris Johnson e «kamikaze della Brexit» e affondare il No Deal con quello che in Italia definiremmo un governo di unità nazionale. Con quale premier a interim, votato da parlamentari disposti a turarsi montanellianamente il naso? L’odiato (dai Tories, e molto poco amato dalla minoranza interna al Labour) Jeremy Corbyn, ormai abituato a fare slalom tra le fazioni della Brexit con instancabile ambiguità? Il sindaco laburista di Londra Sadiq Khan, che nei fatti è rimasto il più strenuo oppositore della Brexit, in serata ha dato l’endorsement a Corbyn dopo che emergeva sempre più concreta l’ipotesi «istituzionale», in corsa i due veterani Harriet Harman (laburista) e Kenneth Clarke (conservatore). Tutto pur di rimpiazzare Boris Johnson incartato sul No Deal come Theresa May prima di lui. Jo Swinson, leader liberaldemocratica, è per un governo a termine di Harman o Clarke, e spera di diventare decisiva: subito i conservatori duri come Iain Duncan Smith gridano al «tradimento». Tutti in realtà temono il voto, che potrebbe magari rafforzare Johnson e spezzare la schiena a ciò che resta del Remain. Peccato che mesi fa, ai Comuni, fosse in discussione un emendamento che avrebbe reso impossibile il No Deal: bastava votare sì. E Corbyn aveva imposto l’astensione ai laburisti.
Matteo Persivale sul Corriere a pagina 9.
Groelandia. Trump vuole comprare la Groenlandia. Il governo: “Grazie, non siamo in vendita”. Il presidente Usa punta ad accaparrarsi le risorse dell’isola danese per superare la Cina nella corsa all’Artico. Il presidente vorrebbe approfittare dei “problemi finanziari” di Copenhagen (Stampa p.11). La Groenlandia non si scioglie davanti ai dollari di Trump. Il presidente Usa rilancia l’idea di comprare l’isola ricca di risorse per scompaginare i piani di Russia e Cina (Fatto p.16). Miniere d’oro, petrolio e basi aeree. Il forziere di ghiaccio che Trump vuole comprare. Enrico Franceschini su Repubblica a pagina 19.
Epstein. L’Fbi scova la stanza segreta di St. James. Caccia all’archivio dei filmini di Epstein. I video sarebbero centinaia e potrebbero raffigurare anche gli ospiti con le ragazze. Confermata la tesi del suicidio per l’ex finanziere amico dei potenti Stampa p.10). «Epstein aveva due vite mi pento di averlo difeso. E io non sono complice». L’autopsia conferma il suicidio. L’avvocato: brillante e bugiardo (Corriere p.11).
Israele e Trump. Su richiesta del leader Usa, Tel Aviv vieta l’ingresso a Tlaib e Omar, componenti dell’ala radicale del partito. Il presidente che ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme e che ha riconosciuto la sovranità d’Israele sulle alture del Golan, è passato all’incasso con una richiesta sconcertante: ha suggerito al governo israeliano di negare il visto a due parlamentari Usa filo-palestinesi. In cambio del suo sostegno incondizionato a Benjamin Netanyahu. Federico Rampini su Repubblica (p.12). Israele, l’errore di Trump. Il commento di Thomas L. Friedman su Repubblica a pagina 35 Lo voglio dire con la massima semplicità e chiarezza: se siete ebrei americani e pensate di votare per Donald Trump perché ritenete che sia filoisraeliano, siete pazzi da legare.
Kashmir. Armi e minacce così muore la valle incantata. La scelta di Modi di cancellare l’autonomia della regione musulmana è il segnale di un’India sempre più estremista e intollerante (Repubblica p.13).
Tutor. Tornano i Tutor. Autostrade vince in Cassazione. I giudici danno ragione al concessionario nella disputa con Craft “Nessuna contraffazione, le due società usano sistemi diversi” (Stampa p.12). La Corte: sui sistemi di controllo non ci fu nessuna violazione del brevetto. A sospendere il servizio Tutor sulle autostrade italiane un anno fa era stata la sentenza di un tribunale. Ora un’altra sentenza, questa volta della Corte di Cassazione, lo ha ripristinato. Così nella guerra dei sistemi informatici, che consentono di punire gli automobilisti che superano i limiti di velocità, a spuntarla è stata Autostrade per l’Italia. Al termine di una lunghissima querelle giuridica, iniziata nel 2006. La Corte di Cassazione ha infatti ritenuto del tutto infondati i motivi per i quali la Corte d’Appello di Roma, il 10 aprile 2018, aveva ritenuto che il sistema di controllo della velocità media, cosiddetto Tutor, violasse le norme relative alla proprietà intellettuale della società Craft e dovesse essere rimosso. In sostanza, la suprema corte ha ritenuto che non si possano «brevettare» le formule matematiche e che il sistema utilizzato da Autostrade per l’Italia fosse diverso da quello della società Craft (Corriere p.17).
Diabolik, intesa con i parenti. I funerali al Divino Amore. La Questura di Roma toglie il veto: il capo ultrà della Lazio potrà avere esequie pubbliche. Il rito giovedì, ma non dovranno esserci più di 100 persone. Cremazione a Prima Porta (Messaggero p.13).
Travolto e ucciso mentre va in bici il pm che incastrò la coppia dell’acido. Attraverso le sue indagini è possibile raccontare la storia della criminalità organizzata in Italia, tra la Sicilia di Cosa Nostra e la Lombardia colonizzata dai clan della ‘ndrangheta. Perchè oltre a essere stato uno dei magistrati di punta della Dda a Milano, dove era in organico già a metà degli anni ‘90, Marcello Musso fu magistrato antimafia a Palermo – prima di tornare nel capoluogo lombardo – e scavò anche nei segreti siciliani, come gli omicidi irrisolti e i casi di “lupara bianca” nella guerra di mafia scatenata negli anni ‘80 dai Corleonesi di Totò Riina. Marcello Musso non amava le vacanze, per questo era rimasto al lavoro nella sua stanza al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano fino a pochi giorni fa. Poi era partito per Agliano, nell’Astigiano, dove vive l’anziana madre 96enne, il fratello, la sorella e i suoi nipoti. E ieri pomeriggio, a pochi metri da casa della madre, sulla strada che collega Costigliole d’Asti ad Agliano, è stato travolto da un’auto, mentre era in bicicletta. Pm tenace e appassionato del suo lavoro, verrà ricordato – oltre per il suo impegno antimafia – per l’indagine su Martina Levato e Alexander Boettcher, la “coppia dell’acido”, per i quali ottenne una dura condanna. In quei giorni stupì tutti presentandosi alla clinica Mangiagalli con un paio di scarpette da regalare al figlio della coppia, appena nato. “Con infinita tenerezza per un lungo cammino”, aveva scritto nel biglietto. «Marcello Musso ci lascia con lo stesso stile con cui ha vissuto, con discrezione e distanza da ogni retorica», lo ha ricordato ieri l’Associazione nazionale magistrati (Repubblica p.27).
Il re del Viminale. Salvini chi? E’ il prefetto Piantedosi l’uomo al vertice del ministero dell’Interno. Storia e ambizioni dell’uomo d’ordine più importante d’Italia (Foglio pagina IV).