Federico Rampini

«I curdi? Mica ci hanno aiutato nella seconda guerra mondiale». Il video dell’ultima uscita di Donald Trump si fonde con le immagini tragiche dal fronte, dalla feroce offensiva militare turca contro quelli che furono alleati preziosi per l’America. Scaricati, abbandonati al loro terribile destino con una battuta surreale. Talmente sconcertante che qualcuno rilancia negli Stati Uniti il tema del 25esimo emendamento. Ovvero: non c’è bisogno di aspettare l’esito dell’impeachment, questo presidente va destituito prima, lo prevede la Costituzione in caso di “incapacità mentale” (è contemplato dal 25esimo emendamento, approvato dopo l’assassinio di John Kennedy, che per alcune ore prima di morire fu incapacitato da un proiettile al cervello). Trump ci ha abituati a un’escalation verbale che ha calpestato e travolto ogni regola. Dal galateo diplomatico alla buona educazione, i suoi tweet hanno trasformato la figura presidenziale, allo statista hanno sostituito l’urlatore da talkshow, l’aggressore esibizionista da reality-tv. Razzismo, sessismo, insulti alla sovranità di altri Stati: tutto lecito. L’insulto ai poveri curdi può sembrare ai limiti della salute mentale (che c’entrano, davvero, con lo sbarco in Normandia?) ma ha una sua logica perversa. Bisogna ricostruire il tortuoso percorso mentale di questo presidente, che è assediato su più fronti e reagisce come una belva ferita. Parlando al telefono con Erdogan nel weekend, Trump gli ha preannunciato il ritiro degli ultimi soldati Usa dalla Siria settentrionale (un piccolo contingente che simbolicamente proteggeva i curdi), e di fatto ha dato via libera all’aggressione militare della Turchia. Il tradimento dei curdi, che erano stati decisivi nella lotta contro l’Isis, ha attirato accuse durissime su Trump. Non solo l’opposizione democratica, ma anche dei repubblicani trumpiani come il senatore Lindsay Graham o la sua ex ambasciatrice all’Onu, e velatamente il Pentagono, hanno denunciato un errore dalle conseguenze incalcolabili. Perché sdogana un massacro e assolve Erdogan cancellando le sue offese alla Nato. Perché può porre le premesse di un rafforzamento nell’area di Assad e dell’Iran, o di una rinascita dell’Isis. Infine il segnale lanciato urbi et orbi, dal Giappone all’Europa, è che quest’America non riconosce amicizie o alleanze, può tradire, calpestare impegni e trattati di mutua difesa. A queste accuse il “delirante” leader della massima superpotenza risponde con una serie di video e tweet che vanno collegati. Affermazioni come queste: “I curdi hanno combattuto al nostro fianco, ma noi li abbiamo strapagati per questo”. “La guerra con l’Isis ormai l’abbiamo vinta”. “Basta con le guerre interminabili e insensate”. Tutto rinvia al contratto originario fra Trump e i suoi elettori. Parte integrante di America First (che si può tradurre con “America numero uno”, ma in realtà sta per “Prima l’America”) è l’idea che gli Stati Uniti debbano concentrarsi sui bisogni della propria popolazione, che sono tanti e a lungo trascurati. Fare il gendarme del mondo non ha dato benefici commisurati ai costi enormi di una presenza “imperiale” nei quattro continenti. Trump perciò vuole mantenere la promessa di chiudere ogni guerra e riportare a casa tutti i soldati, o quasi. In quanto agli alleati, sono fungibili, ciascuno di loro viene valutato in un bilancio dei costi e benefici. È il mondo nel quale bisogna attrezzarsi a sopravvivere: stiamo assistendo alle prove generali di un ritiro dell’America dalla sua leadership – peraltro auspicato a lungo dai suoi tanti detrattori. C’è una coerenza nella follia di Trump, non basta fermarsi alla dimensione clinica.