Marta Serafini

«Fratello, immagina che tuo figlio viva nelle tende sotto le fiamme del sole. E che tua moglie debba battersi per sopravvivere ed evitare che i figli muoiano di fame. E immagina che tua figlia sia costretta ad elemosinare il cibo dagli infedeli….». È fine settembre quando sul canale Telegram Kafel, aperto «per aiutare le famiglie dei mujahideen in Siria», appaiono questi messaggi. I membri — secondo quanto abbiamo potuto constatare — superano i 600, solo per la versione in inglese: sono alcune delle donne e degli uomini dell’Isis prigionieri dei curdi. Oltre 1.500 i più pericolosi, su un totale di 12 mila. Una parte si trova nella prigione di Al Hasakah, un’altra ad Ain Issa (da qui sarebbero scappati domenica in 300). Poi Al Roj, Al Hol. A gestire i loro canali, la propaganda dell’Isis tornata operativa dopo mesi di silenzio. Le condizioni di vita nei campi sono pesanti: poco cibo, poca acqua. Prima dell’estate non sono mancati i decessi infantili per malnutrizione. Il tasso di radicalizzazione è alto. A inizio agosto il tono delle conversazioni in rete è ancora abbastanza contenuto. Le donne postano immagini dei dolci distribuiti dopo Eid, la festa del sacrificio. Poi nei giorni successivi riprendono i lamenti, le fotografie ritraggono i bambini mentre pregano nel campo di Al Hol. «Innocenti in prigione, un’immagine che parla da sola» è il commento. Negli stessi giorni viene scoperto (e chiuso) un account PayPal con cui un gruppo di prigioniere tedesche ha raccolto e 3 mila euro per la fuga. «Non abbiamo cibo e beni di prima necessità», lamentano le sorelle. Contemporaneamente, sempre su Telegram, viene diffusa la lista dei prigionieri di Al Hasakah. Otto screenshot, con centinaia di nomi, scritti in arabo. Dopo la caduta di Baghouz a fine marzo, gli uomini sono stati divisi dalle donne, così come sono stati separati i locali dai foreign fighter, gli stranieri. E mentre gli Stati europei fingevano di non vedere — solo Francia, Belgio e Germania hanno tentato il rimpatrio dei minori — il 16 settembre Al Baghdadi diffonde un audio. Trenta minuti, al termine dei quali nomina anche i prigionieri. «Resistete, verremo a liberavi». Nei giorni successivi la temperatura si alza. Rivolte continue, incendi, una donna viene uccisa, grida e sputi continui contro i curdi. Completamente velate, il dito alzato al cielo, le mogli e le vedove dell’Isis invocano la furia di Allah «Quanto ci vorrà ancora perché ci tirino fuori», si chiedono nei canali criptati. È questione di ore. Il 9 ottobre Erdogan annuncia l’operazione Pace di primavera. È il segnale. La prigionia è finita. Dopo i raid turchi, le immagini mostrano donne velate in strada, libere, con i bambini al seguito. Nelle ore precedenti tutte le chat sono state chiuse. Shut down, silenzio radio. Uno degli ultimi messaggi appare sul canale @saveprisoner con oltre 2.000 iscritti. «Incitiamo le sorelle di Ain Issa a fuggire. Ma non fidatevi di chiunque, solo dei fratelli». Poche righe sotto, il numero di un cellulare con il prefisso siriano. È un contatto di fiducia. Per scappare. Verso la Turchia. Verso casa. Forse anche verso l’Europa.