Ferdinando Giugliano

Dopo otto anni alla guida della Banca Centrale Europea, Mario Draghi lascia l’eurozona più forte di come l’aveva trovata. La Bce ha convinto gli investitori che l’euro è irreversibile, ponendo così fine alla crisi del debito sovrano che aveva travolto l’unione monetaria. Le banche sono molto più solide, e la loro vigilanza è stata spostata dai singoli Stati membri a Francoforte, dove sono meno forti le pressioni da parte degli istituti di credito. C’è ormai un meccanismo collaudato per aiutare i Paesi in difficoltà, che ha portato al rilancio di Irlanda, Portogallo e Spagna dopo gli anni bui dei salvataggi della troika. Christine Lagarde, che dal primo novembre sostituirà Draghi alla guida della Bce, ha però davanti a sé tre sfide molto complesse. Dopo una fase di ripresa, che ha portato il tasso di disoccupazione a scendere dal 12,1% del 2013 al 7,4%, l’eurozona è in una fase di rallentamento, con Germania e Italia sull’orlo della recessione. Gli investitori dubitano che la Bce sia in grado di riportare l’inflazione al suo obbiettivo vicino, ma al di sotto, del 2% nonostante anni di politica monetaria ultra-espansiva. Negli ultimi mesi del suo mandato, Draghi si è molto battuto per convincere Paesi come la Germania e l’Olanda a tagliare le tasse e aumentare gli investimenti per contribuire con la politica di bilancio al rilancio della zona euro. Tuttavia, questi sforzi si sono dimostrati largamente inutili e non è chiaro se Lagarde avrà migliore fortuna. Infine, la costruzione dell’unione monetaria rimane incompleta: manca infatti un bilancio comune dell’eurozona, che possa contribuire ad aiutare quei Paesi che subiscano uno shock isolato senza dover passare attraverso un programma di salvataggio. Anche l’unione bancaria è a metà del guado: non c’è ancora uno schema unico di garanzia dei depositi che assicuri che i conti correnti siano egualmente protetti in Germania come in Italia. Le preoccupazioni sugli strumenti ancora a disposizione della banca centrale sono, da un certo punto di vista, le meno importanti. La Bce ha già dimostrato in passato di poter andare oltre quanto convenzionalmente accettato, per esempio imponendo tassi negativi sui depositi presso la banca centrale. Nonostante le lamentele dei banchieri, non ci sono per ora dati che dimostrino in maniera convincente che i tassi negativi stiano danneggiando l’economia. C’è dunque spazio per tagliarli ancora, soprattutto in presenza di misure di sollievo per le banche, come quelle approvate dalla stessa Bce in settembre. Inoltre, è vero che il quantitative easing ha dei limiti su quante obbligazioni governative di ciascuno Stato possano essere acquistate. Ma si tratta di regole auto-imposte dalla banca centrale, che possono dunque essere superate. La politica monetaria è oggi meno efficace che in passato, ma non è affatto morta. Il vero problema è più che altro politico e istituzionale. Draghi lascia dietro di sé un Consiglio direttivo spaccato, dopo che i governatori delle banche centrali di Stati membri come la Germania, la Francia e l’Olanda hanno votato contro la decisione di riattivare gli acquisti di titoli di Stato in settembre. Draghi ha spesso imposto ad altri membri del Consiglio direttivo le sue idee, come quando ha promesso, nell’estate del 2012, di fare “tutto il necessario” per salvare l’euro. L’impressione è che i governatori delle banche centrali nazionali si aspettino da Lagarde un approccio più consensuale. L’ex direttrice operativa del Fondo Monetario Internazionale ha le capacità diplomatiche per costruire questo consenso, ma il rischio è che la Bce venga balcanizzata dai conflitti interni, ed appaia pertanto meno efficace agli occhi degli investitori. Altrettanto complessa appare la sfida di convincere i governi a attuare politiche di bilancio più espansive e a completare l’architettura dell’unione monetaria. Il governo tedesco ha lasciato intendere che interverrà nel caso in cui il Paese dovesse entrare in crisi. Ma si tratterebbe comunque di scelte legate al ciclo economico domestico, invece di essere parte di una vera politica di bilancio europea. I governi della zona euro dovrebbero approvare a breve un budget comune, ma questo sarà di dimensioni ridotte e soprattutto non avrà funzioni di stabilizzazione, vista l’opposizione di Paesi come la Germania e l’Olanda. Per l’Italia, la partenza di Draghi rappresenta senza dubbio un rischio. Il presidente uscente ha svolto il suo mandato nell’interesse della zona euro nel suo complesso, ma non c’è dubbio che l’Italia sia stata tra i principali beneficiari del cambio di passo che Draghi ha imposto alla banca centrale. Oggi tocca guardare con qualche preoccupazione all’avvicendamento a Francoforte. Ma se continuiamo a dipendere così tanto dalla politica monetaria per stabilità e crescita, la colpa è principalmente dei nostri governi.