Adriana Castagnoli

La Russia di Vladimir Putin si è rivelata il convitato di pietra del recente Summit G7 di Biarritz. Se l’obiettivo prioritario dell’incontro, come in una dichiarazione del presidente francese Emmanuel Macron, era ridurre le tensioni commerciali infiammate dai dazi di Donald Trump ed evitare che la guerra commerciale esplodesse ovunque, in pratica i leader hanno rinunciato a trovare un accordo con il presidente americano. E ciò, tanto sul commercio e sui cambiamenti climatici quanto sulla stessa Russia che Trump vorrebbe riammettere nel “club”, dopo la sospensione nel 2014 per l’annessione della Crimea, come partner utile per risolvere le dispute internazionali. Va detto che l’idea di una Russia pragmatico alleato dell’Occidente era stata esplorata anche da George W. Bush e da Barack Obama all’inizio delle loro presidenze. Col senno di poi, si può affermare che la priorità data al conseguimento degli obiettivi di Washington ha condotto talvolta a sottovalutare o a distorcere le finalità politiche di un autocrate come Putin. Il gioco a somma zero con cui il Cremlino persegue il suo revival nazionalistico, visto da Washington, può sembrare talora vantaggioso. Adesso, un presidente spregiudicatamente realista come Trump lo ritiene conveniente per indebolire sia Pechino sia l’Ue. Tuttavia, è opportuno valutare più a fondo la consistenza della vicinanza della Russia alla Cina. Malgrado esse siano unite nella non accettazione dei valori occidentali, l’asimmetria economica di questo rapporto mostra che la Russia è un gigante dai piedi d’argilla. Pur essendo Pechino il secondo maggior partner commerciale di Mosca, dopo l’Ue, per i cinesi il mercato russo è secondario: Mosca, per scambi complessivi, non rientra fra i primi dieci partner. Altrettanto squilibrata è la configurazione dei commerci. Secondo Leon Aron, direttore dei Russian studies all’American enterprise institute, i tre quarti dell’export russo in Cina sono costituiti da materie prime, in particolare greggio, legno e carbone. Invece, la Cina esporta in Russia prodotti manifatturieri composti al 45% da beni di consumo e al 38% da prodotti tecnologicamente sofisticati come elettronica e macchinari. Perfino il completamento entro l’anno del gasdotto siberiano amplierà tale divario sancendo il ruolo di Mosca come fornitore di materie prime con un modello di scambio che un tempo si sarebbe definito “coloniale”. Il gasdotto per Pechino risponde più a logiche di diversifica zione delle fonti di energia rispetto a fornitori come Turkmenistan, Australia e Qatar che a mere scelte di alleanze strategiche con Mosca. Può sorprendere che un Paese con ambizioni di grande potenza militare, nel 2018, abbia ricavato dall’export agricolo più di quanto abbia ottenuto dalla tradizionalmente robusta vendita di armamenti. Con Putin, nel 2016, la Russia è tornata a essere, per la prima volta dai tempi degli zar, il principale esportatore di grano. Mentre scarseggiano gli investimenti in tecnologia digitale e infrastrutture fondamentali per favorire un sistema economico moderno. La bassa potenzialità di crescita resta una dura sfida per la Russia anche a giudizio della Banca mondiale. L’interdipendenza fra le economie russa e cinese rimane limitata. L’economia cinese è più di sette volte più grande e, al contrario di Mosca, esporta tecnologie avanzate come Ict, computer e auto. Pechino è assai più interdipendente con Europa e America di quanto lo sia con Mosca. Secondo il Rhodium group, il colosso asiatico, nella sola prima metà del 2019, seppur con un netto calo rispetto al 2018 dovuto alla guerra dei dazi, ha investito 8 miliardi di dollari sul mercato Ue e circa 5 miliardi negli Stati Uniti. Ma in quattro anni, dal 2014 al 2018, ha impiegato in Russia 24 miliardi, molto meno di quanto dedicato ad alcuni Paesi subsahariani come la Nigeria. D’altronde, la storia dei rapporti fra le due nazioni è densa di contrasti. Stalin e Mao avevano visioni contrapposte del modello comunista. I dissidi continuarono anche dopo la morte del segretario del Pcus, giungendo alla rottura nel 1959-1960. Fu l’America, con il presidente Nixon e il suo abile consigliere Kissinger, ad aprire alla Cina la strada che l’avrebbe condotta a essere la seconda potenza economica mondiale. Il punto è che sullo scenario internazionale Mosca può essere un muscoloso guastatore, ma non ha più le carte per un ruolo di leadership. La recente escalation sui missili nucleari con gli Stati Uniti, è un’ulteriore dimostrazione delle rovinose logiche che sottendono questi rapporti asimmetrici. Benché il Cremlino destini il 3,9% del Pil alle spese militari (contro il 3,2% degli Usa), il suo sistema economico ristagna. La Russia dipende dalla Cina assai più di quanto la Cina dipenda dalla Russia e, pertanto, non può confrontarsi con essa. Un’anacronistica nostalgia del passato alimenta le ambizioni geopolitiche del Cremlino che risultano, perciò, altrettanto velleitarie che pericolose.