Alberto Alesina & Francesco Giavazzi

C i sono due luoghi comuni sul debito e sul deficit di uno Stato che è bene smentire. Non esiste un livello ottimale (o pericoloso) del debito pubblico, uguale pertutti i Paesi. Dipende da chi possiede i titoli emessi dallo Statoedalla credibilità della nazione. In Argentina, un Paese che più volte non ha ripagatoisuoi debitori (cioè è andato in default) e dove circa metà del debito è detenuto all’estero, anche un indebitamento ben inferiore al 100 per cento del Pil preoccupa i mercati e basta una piccola scossa per scatenare una tempesta. All’opposto il Giappone, con un debito che ha superato il 250 per cento del Pil, ma che è posseduto in parte da agenzie governativeeper ilresto dalle famiglie giapponesi, non preoccupa gli investitori internazionali. L’Italia èametà fra questi due estremi. Il nostro debito, 134 per cento del Pil, è detenuto all’estero per circa un terzo: quindi, diversamente dal Giappone, gli investitori internazionali si preoccupano della sua sostenibilità e chiedono una politica di bilancio prudente che eviti ilrischio di un default. Ecco perché aumenti del deficit coniugati con incertezza politica fanno balzare lo spread e quindi il costo del debito peri contribuenti. Per quanto riguarda il deficit, il pareggio di bilancio sempreecomunque non è una buona regola. Il deficit (e di conseguenza il debito) deve salire durante una recessione, quando le entrate fiscali scendono e la spesa sociale aumenta, ad esempio per pagare sussidi ai disoccupati. M aideficit vanno compensati con attivi di bilancio quando l’economia va bene. Questa norma di buon senso non è stata seguita in Italia. Il rapporto debito-Pil è quasi sempre salito, anche quando, ad esempio nella prima parte degli anni 2000, l’andamento relativamente favorevole dell’economia avrebbe consentito di sfruttare l’occasione per ridurre il debito: invece la spesa pubblica salì di un paio di punti di Pil. Così accadde anche negli anni 80 quando l’economia cresceva. Unica eccezione lo sforzo compiuto per entrare nell’euro, anche grazie airicavi incassati dalle privatizzazioni alla fine degli anni Novanta. Quindi, una delle conseguenze di un debito altoèche non possiamo permetterci di seguire la regola di buon senso descritta sopra. Cioè, un Paese con un alto debito, posseduto in parte significativa da investitori esteri, non può usare il deficit per evitareoattenuare una recessione. Veniamo a oggi. Tutti i segnali concordano nell’indicare che l’economia dell’eurozona è prossima a una recessione. In Germania la crisi dell’industria automobilistica, il cuore della manifattura tedesca, pare più profonda di un semplice rallentamento ciclico. Sarebbe quindi il momento, in Europa, di seguire politiche di bilancio più rilassate, visto che i tassi di interesse non sono mai stati così bassi. Il contributo antirecessivo delle politiche di bilancio non può però essere lo stesso in tutti i Paesi. Alcuni, come Germania, Austria, Repubblica Ceca, hanno bilanci pubblici in attivo che li aiuta a ridurre il debito: dovrebbero invertire la rotta, soprattutto la Germania. Altri, come l’Italia, dovrebbero seguire una politica fiscale neutrale, cioè mantenere stabili deficit e debito. Nell’eurozona segnali di rilassamento delle politiche fiscali si incominciano a vedere. La legge di bilancio varata la scorsa settimana dal Parlamento olandese, che pure continua ad avere un piccolo deficit di bilancio (ma il debitoèsolo il 53 per cento del Pil), prevede un minor peso fiscale sulle famiglie per circa tre miliardi di euro. In Germania le richieste di abbandonare, almeno fin che dura la recessione, il pareggio di bilancio (che oggi in realtà è un surplus), si fanno più numerose, aiutate dalla forza politica dei Verdi: le misure espansive in discussione (fra i quali appunto i provvedimenti in difesa dell’ambiente) per ora valgono solo mezzo punto di Pil, ma durante la sessione di bilancio questa cifra potrebbe salire. L’Italia, come abbiamo spiegato, non può aumentare il debito, ma può aiutare la sua economia tagliando contemporaneamente spese e tasse. L’evidenza empirica dimostra con un livello di certezza assai alto che tagli di spesa combinati con riduzioni equivalenti delle tasse, in Paesi a elevata pressione tributaria come il nostro, fanno salire il Pil. Dal lato delle imposte, queste vanno ridotte per tutti, eliminando le cosiddette «spese fiscali», cioè favori e agevolazioni concessi a quei settori o imprese che nel tempo sono riusciti, tramite le loro connessioni politiche, a ottenere vari regali. Molte di queste numerosissime spese fiscali sono relativamente piccole (ad esempio le agevolazioni ai battelli che trasportano i turisti, e qualche residente, da una sponda all’altra dei laghi lombardi) ma vanno in ogni caso abolite. Altre sono ingenti, come ad esempio l’aliquota agevolata dell’accisa sul gasolio che vale, se confrontata con l’aliquota più elevata sulla benzina, 5 miliardi di minor gettito. Anche recuperare l’evasione per far pagare meno chi non evade si può fare, in altri Paesi ci sono riusciti: basta volerlo davvero. Dal lato della spesa abbiamo più volte suggerito che un modo per cominciareècollegare il costo di alcuni servizi pubblici, come sanità e università, al reddito dell’utente. Una regola che oltre ad essere equa (oggi il sussidio che lo Stato concede a uno studente universitario di famiglia abbiente, cinque-seimila euro l’anno, è identicoaquello che concede ai figli di famiglie relativamente povere) incentiva gli studenti a controllare la qualità dell’istruzione che ricevono. Un provvedimento che evidentemente richiede una seria lotta all’evasione. Quanto alle pensioni, non solo si dovrebbe eliminare «Quota 100»: bisogna, più in generale,riequilibrare il peso intergenerazionale che oggi favorisce gli anziani punendo i giovani e le generazioni future. Occorre anche rivedere la regola per cui i dipendenti pubblici, a parità di mansioni, percepiscono il medesimo stipendio al Sud e al Nord. Una regola che non solo è un sussidio permanente al Mezzogiorno, dove il costo della vita è significativamente inferiore rispetto al Nord, ma che, mettendo pressione sui salari delle aziende private, costituisce uno dei maggiori fattori di freno dell’economia del Mezzogiorno. Una ricerca di uno di noi (Alesina) pubblicata nel 2001 nella rivista del Fondo Monetario Internazionale (Imf staff papers) calcolava, sicuramente in modo imperfetto, che il potere di acquisto dei salari al Sud era circa il 25 per cento più alto che al Nord per analoghi livelli salariali. La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza che verrà pubblicata martedì è la prima occasione che ha questo governo per indicare un cambiamento di rotta e la volontà di agire, non di attendere gli eventi passivamente. Certo, un singolo documento non può risolvere d’incanto tutti i problemi di bilancio del nostro Paese, ma può segnare almeno un cambio di marcia.