Alberto Asor Rosa

Appare presso l’editore Einaudi, nella splendida collana dei Millenni, un’opera intitolata L’Asia, in due volumi di complessive milleseicento pagine (circa), del padre gesuita Daniello Bartoli (Ferrara 1608-1685). Si tratta della prima edizione critica del testo, il che ovviamente ne aumenta il pregio; con la bellissima introduzione di Adriano Prosperi, il massimo conoscitore italiano della materia; e la sapienti cure filologiche di Umberto Grassi e Elisa Frei. Un avvenimento, insomma. Immagino di dover dare in esordio qualche supplemento informativo sull’intera materia. Nella parte finale del XVI secolo, e poi durante tutto il XVII, la Chiesa di Roma, rafforzata dalla conclusioni del Concilio di Trento, elaborò e mise in pratica un programma di evangelizzazione universale: tale, cioè, da valicare senza più limiti e confini lo spazio europeo e spingersi fino alle regioni più lontane del mondo allora conosciuto. Il “mondo allora conosciuto”? Se si confrontano le date, non può non saltare facilmente all’occhio che espansione religiosa ed espansione politico-militare, ad opera delle due grandi potenze europee cattoliche del tempo, e cioè Spagna e Portogallo, tendono a coincidere. Di questa imponente predicazione, furono protagonisti alcuni dei più importanti ordini religiosi della Chiesa di Roma: per esempio, i domenicani e i francescani. Ma la vera novità, che improntò di sé l’intero processo, fu rappresentata da un nuovo ordine, nato non casualmente nell’ambito dei fervori innovativi e propositivi della stessa Controriforma: e cioè la Compagnia di Gesù, fondata all’incirca a metà del XVI secolo dallo spagnolo Ignazio de Loyola, che le impresse fin dall’inizio e pressoché contemporaneamente, – impresa di per sé, oserei dire, quasi miracolosa – uno straordinario spirito ascetico e una straordinaria capacità di mobilitazione e di intervento. Daniello Bartoli è un padre gesuita che, senza aver preso parte a nessuna missione, ma invitato a farlo dal suo Generale, descrisse in maniera pressoché monumentale l’opera di diffusione della fede cattolica in sterminate regioni del mondo allora appena conosciuto e approcciato. L’Asia, in otto libri, fa dunque parte di un corpus ben più gigantesco, che prese il nome, destinato a diventare leggendario, di Istoria della Compagnia di Gesù: Il Giappone in cinque libri, La Cina, in quattro, L’Inghilterra, in sei, L’Italia, in quattro. La composizione dell’immensa opera durò all’incirca vent’anni, fra il 1653 e il 1673 (e c’è da chiedersi come l’autore riuscisse a studiare, elaborare e stendere una materia così vasta in così poco tempo). L’Istoria della Compagnia di Gesù è stata una delle opere più discusse e contestate della letteratura italiana. Quando io nei primi anni ’70 l’affrontai per farne un capitolo del volume Il Seicento, parte a sua volta di una letteratura italiana collettiva, “Storia e testi”, pubblicata dell’editore Laterza, rischiai il mio buon nome e, peggio, la mia carriera accademica: mi ero limitato a notare quel che oggi appare evidente, e cioè che il gesuita Bartoli, pur facendo apologia del suo Ordine, aveva scoperto e messo in luce efficacemente aspetti del mondo che fino a quel momento non si erano manifestati, o se si erano manifestati, non erano stati ancora colti. Pesava il giudizio stroncatorio del grande maestro De Sanctis: «Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli, fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi… è stato in ogni angolo quasi della terra, ha fatto migliaia di descrizioni e narrazioni; non si vede mai che la vista di tante cose nuove gli abbia rinfrescato le impressioni… retore e moralista astratto». L’Asia einaudiana rappresenta dunque in un certo senso, il punto d’arrivo di un lungo processo. Naturalmente, non si tratta oggi di fare apologia di quello che fino a qualche generazione fa era considerato con ostilità insormontabile: ma si tratta di capire, perché ormai è possibile, che il gesuitismo, al di là di certe sue prese di posizione ferocemente antiprogressiste (nel contesto del Risorgimento italiano, ad esempio, il giudizio di Francesco De Sanctis prenderebbe maggior corpo e più si giustificherebbe), ha contribuito, anch’esso, almeno in Italia, alla costruzione di un’identità nazionale dei problemi (identità nazionale, che, come si sa, in Italia è sempre controversa, problematica e spesso autolesionistica: basta guardarsi intorno oggi). Questo si può ottenere allargando l’orizzonte dell’impresa gesuitica nel mondo al di là dei suoi pretesi confini originari, strettamente devozionali e apologetici.Per concludere (ma mai come in questo caso questa espressione di comodo fu inadeguata): si può dire che il gesuitismo rappresenti, nella storia del cattolicesimo moderno, la sua componente più universalistica? Meno costretta dentro vincoli e lacci originari, di natura sia politica sia ideologica? Non avrei dubbi a rispondere di sì. Sarebbe un’impresa fin troppo facile e approssimativa, corroborare questa risposta, guardandoci intorno oggi e traendo argomenti dalle scelte e dall’opera di chi sotto gli occhi di tutti innegabilmente si muove in questa direzione. Certo, non si potrebbe far risalire tutto il merito di questo universalismo alla modesta (in sé) personalità di Daniello Bartoli. Sarebbe difficile tuttavia non riconoscergli il merito di avergli dato, nella Istoria, la forma più compiuta che si conosca. Si può ripartire da questo, per rifare tutta la strada all’indietro, fino alle origini del processo. P.S. Non si potrebbe anche osservare che, al posto di questo processo devozionale e religioso sarebbe stato di gran lunga più auspicabile per l’unificazione del mondo, un processo analogo, ma di natura assolutamente laica e fondato sul cosiddetto “libero pensiero”? Si potrebbe, certo, ma ci vorrebbe troppo tempo e spazio per dirlo.