Aldo Cazzullo

Di uguale è rimasta la chioma, a conferma che il potere imbianca i capelli solo a chi non ha un buon parrucchiere. Per il resto, in quindici mesi Giuseppe Conte ha avuto una metamorfosi radicale. Al suo esordio si era definito «l’avvocato difensore del popolo», ma appariva semmai il notaio esitante e insicuro chiamato a garantire un contratto impossibile. Ieri si è presentato come leader politico.

Fin dalle prime battute, il presidente del Consiglio ha precisato di non voler sommare «le diverse posizioni assunte dalle forze politiche che hanno inteso sostenere questa iniziativa», ma «disegnare l’Italia del futuro». Come se il Conte 2 usasse il linguaggio involuto e faticoso del Conte 1 per descrivere il passato da mediatore, e scegliesse un vocabolario nuovo per prefigurarsi un futuro da capo politico.

Ovviamente, per certi versi Conte è sempre se stesso. E avrà certo intuito quanto suonino sospette certe aperture di credito da ambienti che sino all’altro giorno lo trattavano da complice dei barbari, e ora lo salutano come il ricucitore con l’Europa. Però non c’è dubbio che agli esordi il giurista pugliese sia stato sottovalutato. Pareva che Salvini e Di Maio dovessero metterlo nel sacco da un momento all’altro; invece è stato lui, giocando di sponda con Bruxelles, Berlino e Washington, a mettere nel sacco loro. Perché tra il Conte 1 e il Conte 2 c’è il processo cui il 20 agosto scorso — il suo vero battesimo del fuoco — il premier uscente e rientrante ha sottoposto Salvini, arrivando ad accusarlo di aver nascosto notizie che potevano nuocere al Paese sul piano internazionale: «Se avessi accettato di riferire sulla vicenda russa, caro Matteo, avresti evitato al tuo presidente del Consiglio di presentarsi al tuo posto, rifiutandoti per giunta di condividere con lui le informazioni di cui sei in possesso…». Al confronto le critiche sul rosario — di nuovo baciato ieri in piazza da Salvini — erano carezze.

Il Conte da battaglia si è rivisto in serata nella replica, quando ha rinfacciato ai deputati dell’opposizione che i veri poltronisti sono loro, scatenando la bagarre (e mai la destra italiana ha dato uno spettacolo così modesto, con cori da stadio diretti non a caso dal capo ultras dell’Atalanta Daniele Belotti). Al mattino, nel discorso di insediamento, il premier si è proposto come il conciliatore degli italiani, a costo di risultare talora soporifero. Ha promesso di parlare una «lingua mite», «un lessico più rispettoso delle persone», in chiara contrapposizione al «frastuono delle dichiarazioni roboanti», ovviamente di Salvini, che stava comiziando in piazza. E per quanto la manifestazione sotto le finestre del Parlamento avesse un certo tono intimidatorio, Conte ha elencato i propri brevi cenni dell’universo senza scomporsi: la «tradizionale influenza italiana nei Balcani», la «soppressione degli enti inutili», «l’etichettatura e tracciabilità degli alimenti», e ovviamente le celebrazioni per i 700 anni della morte di Dante Alighieri. Un mondo pacificato, in cui il fisco è «amico dei cittadini», si avverte «la spinta propulsiva dei giovani», ci attende una «terza età serena». Con alcuni momenti da filosofo, tipo quando ha insistito sul «nuovo umanesimo» che non si è capito bene cosa sia; e con un applauso condiviso sull’affermazione per cui «tutti devono pagare le tasse», che rappresenta però un vastissimo programma.

Per il resto, Cinque Stelle e Pd hanno applaudito i passaggi del discorso in cui hanno riconosciuto le rispettive istanze; e quindi non hanno quasi mai applaudito insieme. I grillini si sono entusiasmati alle parole sul ponte Morandi e sugli interessi pubblici da anteporre a quelli privati. I dem hanno salutato in piedi la condanna degli insulti social ricevuti dalla ministra Bellanova, anche ieri in sgargiante vestito a fiori. I due partiti della maggioranza insomma sono sembrati due blocchi che ancora si guardano con diffidenza, e si riconoscono solo nel rifiuto del minaccioso salvinismo. Logico che l’anti-Salvini Conte sia destinato a diventare il punto di riferimento comune, anche per il livello non eccelso della squadra che il Pd ha mandato al governo.

Quel che il premier non dice, ma lascia capire, è che la partita decisiva si giocherà in Europa. La maggioranza ancora incerta e fragile è nata a Bruxelles attorno al voto di fiducia a Ursula von der Leyden, ieri citata tra i buuu leghisti. Alla nuova commissione, Conte chiederà di consentire sia l’annunciato calo della pressione fiscale — non meglio precisato —, sia il rilancio degli investimenti pubblici. L’atmosfera di sollievo che si respirava ieri mal si concilia con i venti di recessione che spazzano il continente. La migliore risposta a Salvini non sarà la riforma proporzionale, ma una scossa all’economia, compresa quella del Nord, che si sente sottorappresentato. Con due incognite: la tenuta di Di Maio, apparso ieri particolarmente cupo. E quella di Renzi, che oggi al Senato benedirà il nuovo governo, ma potrebbe un giorno farlo cadere.