Alessandro Barbera

Sono giorni complicati per Roberto Gualtieri. Nell’enorme ufficio del ministro con tende di broccato a via XX settembre è un viavai di colleghi e funzionari. Nel calendario di Palazzo Chigi è già cerchiato venerdì 27 settembre. Restano dieci giorni per scrivere la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, la cornice della Finanziaria 2020. Stamattina è prevista la riunione clou. Ci saranno i vertici tecnici del ministero, e attorno al tavolo verranno discusse tutte le ipotesi. La situazione dei conti pubblici è meno rosea di quel che Giovanni Tria ha lasciato intendere prima di passare le consegne al collega. Il nuovo viceministro Antonio Misiani del Pd ha annunciato la volontà di «tornare all’unificazione fra Imu e Tasi», un’ipotesi che sembra preludere alla rimodulazione delle imposte sulla prima casa. Ma per finanziare un aumento degli sgravi fiscali ai redditi medio-bassi e allo stesso tempo cancellare gli aumenti Iva occorrono scelte più coraggiose di così: leggasi tagli. La riflessione fatta dagli esperti della Ragioneria e condivisa da Gualtieri è la seguente: inutile mettere mano alla cosiddetta «quota cento», il meccanismo che ha permesso di mandare in pensione anticipata i 62enni con 38 anni di contributi versati. La misura è prevista in via sperimentale per un triennio e metterci mano rischia di creare incertezza tanto alle aziende che hanno programmato le uscite quanto ai pensionandi. Se occorre rafforzare i risparmi, meglio ridimensionare il reddito di cittadinanza. I numeri di due giorni fa dell’Inps – questo il ragionamento degli uffici del Tesoro – confermano la natura di puro sussidio. Le domande accolte sono poco più di 960 mila, quelle respinte 409 mila: una su due. Se si allarga il calcolo ai nuclei familiari, la misura ha raggiunto due milioni e 350 milioni di persone, per un assegno medio da 480 euro: poco più della media del reddito di inclusione immaginato dal governo Renzi e varato da quello di Gentiloni. Di qui l’ipotesi al momento ancora tutta da verificare politicamente: perché non riportare il cosiddetto reddito di cittadinanza alle origini, risparmiando così due e più miliardi utili a finanziare gli sgravi alle famiglie? Se così fosse, l’intera architettura del reddito di cittadinanza andrebbe rivista. L’Anpal, l’agenzia per le politiche attive, ha già assunto i «navigator», i funzionari ai quali – lo dice la legge che ha introdotto il reddito – i percettori dovranno obbligatoriamente rivolgersi per la ricerca di un lavoro. In alcune regioni la macchina burocratica gira a pieno ritmo (ad esempio nelle Marche) in altre (in Campania) mancano ancora alcuni passaggi. L’idea che circola al Tesoro è di separare in maniera più chiara le cosiddette politiche attive (ovvero il sostegno al reddito di chi cerca un lavoro) con il mero sussidio ai poveri, persone che spesso non hanno alcuna speranza di trovare una collocazione stabile. Inutile dire che per Gualtieri la questione è delicatissima. Da un lato ci sono i Cinque Stelle, che hanno fatto di quella misura il più grande successo politico, dall’altra il Pd e gli scissionisti renziani. «Quota cento è una follia e sono contrario al reddito di cittadinanza. Spero solo che funzioni», fa sapere l’ex premier. Ieri mattina, dopo aver letto i giornali, una delle prime telefonate Gualtieri l’ha fatta proprio a Renzi. Il neoministro si è voluto sincerare della determinazione di Renzi a evitare problemi ad una maggioranza appena nata e già presa dalla più delicata delle missioni: la legge di bilancio. Secondo i racconti di entrambe le parti la telefonata è andata bene. «Siamo a sua disposizione», racconta l’ex premier a Bruno Vespa. Ma Gualtieri – già esponente della corrente di sinistra dei giovani turchi – non ha rinunciato a mandargli una frecciata: «Caro Matteo, penso tu abbia fatto un errore politico…».