Nel prossimo decennio al Nord resisteranno le superiori, ma i livelli inferiori e il Sud globalmente avranno una perdita di studenti del 20%. Come rispondere a questo calo? Con il potenziamento della qualità della formazione a partire dalla prima infanzia. La demografia è strettamente interdipendente, in termini sia di cause sia di conseguenze, con il benessere sociale ed economico di un territorio. Se gli indicatori che riguardano la popolazione prendono un’inclinazione negativa è tutto il Paese che ne risente e viene trascinato verso il basso. In particolare, lo stato di salute e di benessere di una società e di una economia dipendono dalla consistenza quantitativa delle nuove generazioni e dalle possibilità di un loro qualificato contributo ai processi di sviluppo e innovazione. Per lunga parte della storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, le classi giovanili hanno rappresentato la componente più abbondante del – la popolazione. Ancora a inizio del secolo scorso, oltre un cittadino italiano su 3 aveva meno di 15 anni e oltre la metà aveva meno di 25 anni. All’inizio del secolo attuale tali valori risultavano dimezzati. Oggi la prima fascia di età conta poco più del 13% e la seconda meno del 24%. Più che dalla longevità in sé, gli squilibri demografi ci sono prodotti dalla persistente bassa natalità. In particolare quando la fecondità scende sensibilmente e sistematicamente sotto tale livello, come nel ’68 italiano, ogni nuova generazione viene ridimensionata rispetto alla precedente. Di fatto si ottiene un processo di “degiovani – mento”, vale a dire una progressiva riduzione della popolazione più giovane. Il confronto con la Francia è istruttivo, perché la longevità di tale Paese è molto simile a quella italiana e anche il numero di anziani è comparabile, ma il loro numero di giovani è marcatamente superiore. Questa differenza si deve soprattutto al diverso andamento della fecondità, rimasta vicina alla media di 2 figli in Francia, mentre è crollata molto sotto a un figlio e mezzo (1,32 è il dato del 2018) in Italia. Se, come abbiamo detto, gli under 25 italiani sono oggi meno del 24%, i coetanei d’oltralpe sono oltre il 30%. Secondo le previsioni dell’Onu, è previsto tale valore si riduca ulteriormente nel nostro Paese, almeno fino all’orizzonte del 2035 (scendendo sotto il 20%). Va però considerato che lo scenario della natalità è stato negli ultimi anni peggiore del previsto. Nel 2018 le nascite sono state 449 mila. Si tratta del punto più basso d’un processo di continua riduzione che negli anni della recessione s’è inasprito. Rispetto al 2008 i bambini iscritti per nascita all’ana – grafe sono circa 130 mila in meno. I nati da entrambi i genitori italiani son stati meno di 360 mila nel 2017, con una riduzione di oltre 120 mila nei confronti del dato pre-crisi. Ma va registrata anche una diminuzione di quasi 10 mila di nati con almeno un genitore straniero, scesi nel complesso sotto i 100 mila. Se il contributo dell’immigrazione è in riduzione, l’incidenza rimane elevata, poco superiore al 20% del totale dei nati (ma con valori superiori al 30% in alcune regioni del Nord). Le comunità straniere che contribuiscono maggiormente, rappresentando assieme oltre la metà dei nati da genitori non italiani, sono nell’ordine quella di rumeni, marocchini, albanesi e cinesi. Altro dato di rilievo è l’accentuazione della riduzione delle nascite, anche al netto della componente migratoria, nelle aree in maggiore difficoltà economica, con più basse opportunità di lavoro per le nuove generazioni, con welfare meno efficiente. Il tasso di fecondità più basso è quello della Sardegna (1,06), mentre quello più alto corrisponde alla Provincia di Bolzano (1,74), seguita dalla Provincia di Trento (1,49). Eppure il numero medio desiderato di figli in Italia continua a essere vicino a due, e ancora più alto nel Sud. Mancano però le condizioni favorevoli per un riallineamento verso l’alto delle scelte di vita. È interessante notare che alcune regioni, soprattutto del Nord, avevano mostrato un rilevante aumento prima della crisi economica. In particolare Lombardia ed Emilia Romagna erano salite da valori attorno a 1 a livelli vicini a 1,5 dal 1995 al 2008. Questa crescita non s’è verificata nel complesso del Mezzogiorno. Come conseguenza molte regioni del Sud si trovano con un numero medio di figli per donna sotto la media nazionale. Se l’impatto negativo della crisi economica sulle nascite è stato maggiore del previsto (lo scenario centrale delle proiezioni Istat con base 2011 indicava un numero di nascite che si manteneva sopra il mezzo milione), s’aggiungono due preoccupazioni. In primo luogo per il rischio che l’impatto congiunturale della crisi porti a conseguenze irreversibili sulle scelte delle famiglie. Se le coppie che nel periodo di crisi hanno congelato le proprie scelte di allargamento della famiglia non recuperano in questi anni, rischiano di veder definitivamente trasformarsi il rinvio in rinuncia. Il secondo motivo è il fatto strutturale che siamo entrati in una fase di riduzione delle potenziali madri (come conseguenza della persistente denatalità passata), questo significa che da un basso numero medio di figli per donna si ottengono ancor meno nascite che in passato perché diventano di meno le donne in età riproduttiva (le potenziali madri). Questo dovrebbe ancor più incentivare a mettere le attuali coppie che entrano in età adulta (di meno che in passato) nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi di vita. Che sia possibile invertire la tendenza lo mostrano le politiche familiari realizzate dalla Germania e da alcuni Paesi dell’Est Europa, che hanno puntato a incentivare con misure ben mirate sostenute da adeguati finanziamenti. (…) Come conseguenza di una persistente denatalità, stiamo quindi vivendo la fase più accentuata della nostra storia di riduzione della popolazione giovanile, con una intensità maggiore rispetto al resto d’Europa. Le conseguenze più evidenti degli squilibri demografici prodotti sono quelle riscontrabili concretamente nelle aule scolastiche. Inoltre, la spirale del degiovanimento quantitativo e qualitativo è accentuata dalla più alta dispersione scolastica dell’Italia rispetto alla media europea e dal saldo negativo di giovani qualificati nei confronti degli altri Paesi avanzati. Entrambi questi fenomeni sono più evidenti nelle regioni meridionali, che si trovano quindi con una riduzione degli studenti delle scuole secondarie superiori inasprito dall’abbandono prematuro e con una crescente propensione dei giovani con alte aspirazioni a iscriversi negli Atenei del nord o direttamente all’estero. Secondo i dati Istat, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 che hanno lasciato precocemente gli studi (Early leavers from education and training–Elet) è stata nel 2017 pari al 14% a livello nazionale (contro 10,6% media Ue-28). Tra i maschi del Mezzogiorno si sale a ben il 21,5%. (…) L’au – mento della fecondità nel Nord Italia tra il 1995 e l’inizio della recessione, in combinazione con una maggior capacità attrattiva nei confronti dell’immi – grazione, consentirà nei prossimi 10 anni alla fascia d’età che corrisponde alla scuola secondaria di secondo grado di non ridursi (anzi di aumentare un po’). Per le fasce più basse e per il Sud le previsioni indicano, invece, una forte contrazione, in alcuni casi con perdite dell’ordine del 20%. Secondo le stime della Fondazione Agnelli, “la riduzione della popolazione scolastica comporterà dunque una contrazione degli organici dei docenti, a partire dai gradi inferiori, per un totale di oltre 55.000 posti/cattedre persi”(S. Molina, Scuola. Orizzonte 2028: anticipare il cambiamento per governarlo, Neodemos, 2018). Il rischio è quello di sprofondare in una spirale negativa di “degiovanimento” quantitativo e qualitativo della società.