Amedeo La Mattina

L uca Morisi, riconfermato stratega della comunciazione social, dice che si ripartirà dal «Trt», ovvero tv rete e territorio, assicura che Matteo Salvini rimarrà se stesso, «popularista», un neologismo crasi di popolare e populista. Del resto il passaggio dal governo all’opposizione non si nota molto, tranne il fatto che il «Capitano» della Lega sembra stanco, un po’ sfiatato, deluso di non essere riuscito a trascinare tutti alle urne. Ammette di essere stato «ingenuo» nel credere che «Conte-Monti, l’uomo che sussurra alla Merkel» (riferimento a quel video rubato a Davos della chiacchierata al bar con la Cancelliera, promettendo di contenere il suo ministro dell’Interno) non avrebbe fatto il premier con il Pd. Fidava nell’ostilità di Luigi Di Maio nei confronti di Matteo Renzi e di Renzi nei confronti di Di Maio. Ma è stato fregato e ora deve resistere dall’opposizione, tenere la Lega sopra il 30% di consensi e soprattutto continuare a vincere alle regionali, prima in Umbria, poi Emilia, Calabria, Toscana, Liguria. Un’infilata di cerchi di fuoco che dovrà attraversare suo malgrado con il centrodestra di cui fa parte anche Forza Italia (forse oggi vede Silvio Berlusconi, tra l’altro). Ecco la coalizione che sopravvive obtorto collo alle regionali per via dell’elezione diretta del presidente e del maggioritario. Ma il problema di Savini, e anche di Giorgia Meloni, è quel proporzionale che i nuovi alleati giallo-rosa vogliono fare, togliendo quella quota maggioritaria rappresentata dai collegi uninominali. Per il Pd significa smentire alla radice il suo atto fondativo, ma sull’altare dei nuovi giochi di potere è pronto ad abiurare il suo originario dna. Proporzionale però significa mettere i piedi di Salvini e Meloni, in continua crescita nei sondaggi, nelle sabbie mobili: niente coalizioni sovraniste, nessuna indicazione del premier prima del voto, todos caballeros in campagna elettorale, poi si arriva in Parlamento e ognuno decidere liberamente con chi ballare. Dunque il «popularista» Salvini, che rilancia utopisticamente l’elezione diretta del presidente della Repubblica e un sistema elettorale maggioritario («chi prende un voto in più governa»), vuole raccogliere le firme contro la legge proporzionale «inciucio» ma deve prepararsi a cambiare schema di gioco. Deve allargare il campo, non può fermarsi alle ambiguità di Berlusconi, magari sperare che Di Maio ad un certo punto scoppi e non ce la faccia più a rimanere alleato al Pd. Deve anche sperare che Giovanni Toti con il suo movimento «Cambiamo» cresca. Insomma in prospettiva ha bisogno che nel prossimo Parlamento, quando si tornerà votare, entrino più parlamentari possibili che abbiamo espresso prima del voto un premier e un governo. Più che altro si tratta di un’illusione perché il proporzionale azzera tutto, serve a smontare ogni sicurezza post voto e ad emarginare proprio Salvini. Intanto le truppe attorno a lui si organizzano o si riorganizzano. Toti sta provando a prosciugare Forza Italia partendo dal territorio. «La nostra idea è quella di partire dai consigli regionali e non dai gruppi parlamentari per non dare l’impressione di un’operazione di Palazzo», spiega il senatore Paolo Romani che ha già lasciato Forza Italia. Le novità sono che forse già oggi in Lombardia 7 consiglieri regionali su i 14 eletti sotto le bandiere azzurre passeranno con Toti. Nel Lazio ieri ne sono passati 3 su 5. Nel Veneto presto salteranno sul nuovo soggetto del governatore ligure tutti e tre i consiglieri regionali di Fi. In Liguria già esiste da tempo il gruppo «Cambiamo». Novità in vista pure in Sicilia e Calabria. Toti vorrebbe presentare la sua lista elettorale anche alle prossime regionali in Umbria e non crede ai suoi occhi quando legge un sondaggio Swg che lo dà già al 2,3%. Dentro Forza Italia non ci credono, gli fanno la guerra, non lo vogliono in coalizione, addirittura non intendono sostenere la ricandidatura di Toti alle regionali liguri del prossimo anno. Ma Salvini replica che non accetta esclusioni, ma anzi bisogna allargare .