Andrea Biondi
Sono fantasie. Absolutely not». Quasi un anno fa il presidente di Gedi, Marco De Benedetti, replicava in questi termini a chi gli chiedeva della possibile vendita all’imprenditore ceco Daniel Kretinsky, fresco azionista di peso nella società editrice di Le Monde (tramite la società Le Nouveau Monde che sostanzialmente divide con Matthieu Pigasse). In Francia, dove qualche dibattito e distinguo lo ha generato anche per la volontà di salire nell’azionariato di Le Monde, Kretinsky già possiede il settimanale Marianne e alcune testate del gruppo Lagardère, come Elle, che unisce alle ex attività ceche di Ringier Axel Springer e alla presidenza dello Sparta Praga. L’offerta di domenica scorsa da parte di Carlo De Benedetti per il 29,9% di Gedi rappresenta il termine di una linea ideale che negli ultimi mesi ha unito vari personaggi e società ritenuti interessati alla realtà nata dall’integrazione nel Gruppo Espresso di Itedi e che al suo interno riunisce, fra gli altri, Repubblica, L’Espresso, La Stampa, Il Secolo XIX, 13 quotidiani locali e un polo radio (Deejay, Capital, m2o) che, pur pesando relativamente poco (il 10%) sul business, è la parte più in spolvero: +0,4% i ricavi nel primo semestre e risultato operativo positivo (7 milioni). I rumors sulla possibile vendita Le ipotesi sui compratori sono state le più varie. Si va da Flavio Cattaneo insieme con il fondo Peninsula (un passato interesse confermato), a Xavier Niel (il patron di Iliad è anche lui azionista di Le Monde), a Kretinsky, alla Feltrinelli, alla Vivendi già impegnata su fronti non da poco in Italia: dalla Tim con governance a trazione Elliott, a Mediaset con cui la media company di Vincent Bolloré sta battagliando a suon di ricorsi (per ora con buon gioco in Spagna) per fermare la holding olandese Mfe-MediaForEurope cui il Biscione pensa come avamposto di una tv free paneuropea. Da ultimo i rumors si stavano spostando su John Elkann (già azionista al 5,9% con una Exor che nell’editoria ha un posto di rilievo con la quota di controllo del 43,4% del The Economist), dato per interessato alla parte La Stampa-Il Secolo XIX. La proposta di De Benedetti senior, anche se rispedita al mittente da figli e Cir, ha però finito per creare una cesura fra un prima e un dopo. Per ora a beneficiarne è il titolo, salito del 24% (a 31 centesimi) in una settimana. Domani, alla presentazione dei conti di Gedi, si vedrà se emergeranno nuovi particolari in una querelle che ha i tratti avvincenti del redde rationem famigliare, ma che si sviluppa anche in un contesto le cui trasformazioni sono globali. E, purtroppo per il comparto, foriere di grandi incertezze. Un quadro in trasformazione L’“Entertainment & Media Outlook 2019-2023” di Pwc segnala per il comparto “newspaper” un business sotto i 100 miliardi di euro a livello globale nel 2018 e posizionato su un piano inclinato fino a scendere a 85 miliardi nel 2023, con caduta media annua del 2,6% frutto del -3,3% dell’advertising e del -2% nella “circulation”. In Italia va anche peggio: -3,9% di Cagr con -5,9% nella pubblicità e -3,1% nelle vendite. Altro indice del cambiamento dei tempi lo si riscontra nelle previsioni dell’ultimo “Advertising Expenditure Forecasts” di Zenith (Publicis Media) secondo cui il 2019 sarà il primo anno con più raccolta sulle piattaforme social che sulla carta stampata, con social al terzo posto e quota del 13% della spesa adv globale, dopo Tv (29%) e paid search (17%). Tutti numeri che chiamano in causa come convitati (neanche troppo di pietra) i giganti del web e trovano declinazione in operazioni dettate dai tempi. Non è un caso che il fondo americano Kkr abbia chiuso un’Opa su Axel Springer, colosso tedesco che edita tra gli altri Bild, Die Welt, Politico, Business Insider ed eMarketer e che sulle attività online ha puntato già da tempo come dimostrano i tre quarti dei ricavi dalle attività digitali fra cui i siti di inserzioni (classified). La sfida di web e on demand L’operazione Kkr-Axel Springer è – secondo dati elaborati da Pwc per Il Sole 24 Ore – una delle 114 transazioni che hanno riguardato il mondo media in Europa nel primo semestre 2019, per un controvalore totale di 13,5 miliardi. In ottica di diversificazione, già nel 2006 il gruppo tedesco aveva fatto un’offerta in patria, non andata a buon fine, su Prosiebensat 1. Sul broadcaster ha ora investito Mediaset (poco meno del 10%), anche nell’ottica di un irrobustimento ritenuto necessario innanzitutto per far fronte all’avanzata dei colossi on demand (Netflix e Amazon, con Disney e Apple in arrivo) e per fare sinergie transnazionali di costo e prodotto. Il parallelo è evidente con un’editoria alle prese con cambi nelle abitudini di lettura, ma anche con i vari Facebook, Google e Amazon che sulla pubblicità hanno finito per dettare il ritmo. Fra mondo dell’editoria e colossi web la dialettica non è mancata ed è destinata a crescere se si pensa al tema del recepimento negli Stati membri della direttiva Ue (2019/790) sul copyright nel mercato unico digitale. Le nuove regole stabiliscono che le anteprime degli articoli possano essere mostrate sulle pagine dei risultati solo pagando gli editori. Battistrada è la Francia (disposizioni in vigore da giovedì prossimo, 24 ottobre) ma Google ha già annunciato che non pagherà, lasciando agli editori la scelta sul mostrare o meno gli “snippet”. Pubblicità e sottoscrizioni Il tema è spinosissimo, peraltro in un contesto in cui il calo della pubblicità tenderebbe a spostare il focus sui contenuti e, quindi, sugli abbonamenti, anche digitali. «Nel 2011 per noi si prevedeva il fallimento. Ci avevano detto che la gente non avrebbe pagato per i nostri contenuti», ricorda spesso il ceo del New York Times, Mark Thompson. Non è andata così e qualcosa si sta muovendo anche nel Vecchio Continente. Il report della Fipp “2019 Global Digital Snapshot” segnala come fra le prime dieci testate per numero di abbonati tre siano statunitensi (oltre a Nyt, ci sono Wsj e Washington Post), quattro inglesi (Financial Times; Guardian; Economist; Sunday Times) e una svedese (Aftonbladet). Lato Facebook, si attende il lancio di una “News tab”, sezione dedicata all’informazione di qualità che dovrebbe basarsi su partnership con un novero di testate fra cui Wall Street Journal, Washington Post, New York Times, Business Insider. La mossa arriva in vista delle elezioni Usa e con l’eco dello scandalo Cambridge Analytica non ancora spenta. Ma già la selezione fra i partner riporta il discorso al punto di partenza: la necessità di sinergie e massa critica. E questo in Europa come negli Usa dove il 14 novembre si terranno le assemblee per il via libera alla fusione fra Gannett e GateHouse. Formalmente è GateHouse, la seconda catena di giornali locali americani, ad acquistare Gannett, prima per dimensioni ed editore di Usa Today. Ne verrà fuori un colosso da 256 testate quotidiane e migliaia di settimanali. Da Bertelsmann alla galassia Murdoch il contrasto all’epica del “piccolo è bello” è visibile da tempo. Forse lo sarà sempre di più.