Andrea Rossi

Se mai l’Unesco dovesse pubblicare la classifica dei suoi siti più maltrattati, dimenticati e offesi, la Cavallerizza Reale di Torino sarebbe seriamente candidata al podio. Uno sfavillante esempio di come un gioiello possa sgretolarsi senza che nessuno riesca a impedirlo. E di come una città con le casse vuote e a corto di idee assista impotenti alla rovina del suo patrimonio storico e architettonico. «Fa male vedere un edificio storico in fiamme», dice la sindaca Chiara Appendino di fronte ai fumi dell’ultimo rogo. Fa male, soprattutto, vedere una città che in vent’anni non ha saputo trovargli una destinazione plausibile. E negli ultimi cinque si è piegata prima a tollerare e poi a sostenere – con l’attuale amministrazione – un’occupazione che nei fatti ha ulteriormente rallentato qualsiasi progetto, scoraggiando i pochi disposti a investirci. E dire che le vecchie scuderie del re, progettate nel 1674 da Amedeo Castellamonte, valgono un quinto della Torino barocca. Eppure sono abbandonate da oltre un decennio. Gli ultimi ad andarsene sono stati gli inquilini che affittavano alcuni alloggi dal Demanio e il Teatro Stabile, che lì custodiva costumi e attrezzi di scena: non aveva più senso restare in una struttura cadente e quasi deserta. Dal 2009 la Cavallerizza è in vendita: il Demanio militare l’ha ceduta alla Città che a sua volta l’ha affidata alla sua società di cartolarizzazione perché trovasse un compratore. Il Comune ha incassato nell’immediato 12 milioni, tappando qualche buco nei suoi affannati bilanci. Torino invece si è ritrovata con un gigante bisognoso di cure e attenzioni affidato alla mercé, o all’inventiva, dei privati. Nessun compratore s’è fatto avanti: tre aste deserte, investitori scoraggiati dagli imponenti lavori di ristrutturazione e dai vincoli della Sovrintendenza. L’unico spiraglio si apre nel 2012. La Città elabora un piano: 50% destinato a spazi pubblici, 50% a residenziale (case, hotel). La giunta Fassino prova a radunare investitori, enti culturali, l’Università. L’idea non piace a tutti: collettivi di artisti, docenti universitari, architetti e paesaggisti denunciano la svendita ai privati di un bene pubblico. Di sicuro il progetto non piace a comitati, movimenti e centri sociali che il 23 maggio 2014 occupano un’ala della Cavalerizza. Gli investitori si defilano immediatamente, l’amministrazione tenta un’improbabile trattativa, il tempo passa e lo stallo si impone. Cambia l’amministrazione e con essa il progetto. Il Movimento 5 Stelle e la giunta Appendino sostengono l’occupazione. E cercano di “legalizzarla”: in Comune è pronto un regolamento per la gestione dei beni comuni concepito quasi ad hoc per affidare un pezzo di Cavallerizza a chi l’ha occupata e da allora – abusivamente – organizza eventi culturali, feste, attività. Al ministero dei Beni culturali giace una richiesta della Città, rivolta all’ex ministro Bonisoli: 6 milioni per sostenere il progetto «beni comuni». Senza la gestione «partecipata» per il Movimento 5 Stelle non se ne fa nulla. In parallelo la sindaca ha trovato un nuovo interlocutore in Cassa depositi e prestiti, già della partita ai tempi di Fassino. Ne nasce un progetto leggermente rivisitato: niente abitazioni per privati ma ostelli per studenti e artisti e qualche spazio pubblico in più destinato ad attività culturali e museali. «L’obiettivo era chiudere entro il 31 ottobre», spiega la sindaca. Cdp conferma: l’intenzione è rispettare i tempi. L’investimento vale almeno 15 milioni e non rinnega più di tanto il passato: chi spende esige, legittimamente, un ritorno economico. Forse, dopo oltre dieci anni, il restauro della Cavallerizza ora può decollare. O forse no. C’è un altro rogo, il terzo in pochi anni. Una nuova inchiesta, un’altra porzione di complesso da mettere in sicurezza, altri danni da riparare. «Li pago io con i Fondi europei», assicura il presidente della Regione Alberto Cirio. «Noi ci siamo, ma la Città? Non possiamo accettare situazioni di degrado urbano, un patrimonio dell’umanità abbandonato, anzi occupato abusivamente». Un nuovo scontro tra Regione e Comune si affaccia. E con esso l’ennesimo rinvio.