Angelo Panebianco
Entro due giorni la Camera, salvo incidenti, approverà in via definitiva la riduzione del numero dei parlamentari. Proprio in queste ore circola un appello di +Europa, il gruppo guidato da Emma Bonino, contro tale riforma. L’appello (sensatamente) dichiara inaccettabile una riduzione drastica del numero dei parlamentari che non sia «contestuale o successiva alle altre modifiche costituzionali riguardanti il ruolo e il funzionamento delle Camere». Quella misura, voluta dai 5 Stelle in nome di una ideologia antiparlamentare, verrà supinamente accettata, a quanto pare (a meno di ribellioni dell’ultimo minuto), dal Partito democratico allo scopo di preservare la stabilità del governo. Ciò è conseguenza della prevalenza numerica dei 5 Stelle, il partito di maggioranza relativa, ma anche della debolezza culturale del Pd. E, per la verità, non soltanto del Pd. Si è sempre detto (correttamente) che il favore o l’ostilità per l’una soluzione istituzionale o per l’altra non sono mai soltanto espressioni di differenti valutazioni «tecniche» relative alla efficacia o meno delle varie misure. Dietro le scelte costituzionali (parlamentarismo, presidenzialismo, eccetera) come dietro la preferenza per un sistema elettorale o l’altro (maggioritario, proporzionale, eccetera) compaiono per lo più differenti visioni e differenti tradizioni politico-culturali. In gioco ci sono idee difformi sul dover essere della politica, dei rapporti fra politicaesocietà, eccetera.
Il presidenzialismo di Bettino Craxi degli anni ottanta era la «faccia» istituzionale di un progetto che miravaasottrarre l’Italia al controllo spartitorio di quelle che erano allora definite le due chiese (Dc e Pci). Allo stesso modo, il federalismo della Lega di Umberto Bossi, era l’ingrediente costituzionale di un progetto che mirava alla autonomia, se non alla indipendenza, della Padania. A sua volta, il movimento referendario dei primi anni novanta che impose la trasformazione in senso maggioritario della legge elettorale, immaginava quella trasformazione come un primo passo: doveva essere seguito da una riforma della costituzione che rafforzasse il peso del governo (con un qualche sistema di cancellierato, il superamento del bicameralismo paritetico, e altre misure). C’erano senza dubbio in quel movimento referendario idee e retropensieri diversi. Il progetto veniva declinato più a destra o più a sinistra a seconda delle sensibilità. C’era chi immaginava che un esecutivo più forte e (si sperava) alla guida di una compatta maggioranza, avrebbe dovuto preoccuparsi soprattutto del risanamento finanziario e della crescita economica. E c’era chi pensava che il perseguimento di questi obiettivi non avrebbe dovuto impedire il varo di misure volte ad attenuare le disuguaglianze. Ma, nel complesso, dietro al progetto di una «democrazia maggioritaria» (tale non solo in virtù di una legge elettorale maggioritaria ma anche di mirate riforme costituzionali) c’era l’idea di una radicale rimodulazione dei rapporti fra politica, economia e società rispetto ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica. Una coda (l’ultima) del progetto della democrazia maggioritaria è stato il referendum costituzionale del 2016. Il risultato di quel referendum ha posto la pietra tombale su quelle aspirazioni. Anche gli avversari, coloro che si opponevano alla democrazia maggioritaria, avevano una tradizione politico-culturale a cui attingere: la loro preferenza per il sistema elettorale proporzionale e per governi istituzionalmente deboli era giustificata, secondo loro, dalla condizione di permanente polarizzazione ideologica del Paese nonché dalle sue forti divisioni territoriali. Essi pensavano che l’eccesso di instabilità governativa, di irresponsabilità finanziaria e di ingerenza statale nella vita economica e sociale, dovuti al sistema politico-costituzionale in vigore dal 1948, fossero costi accettabili al fine di garantire la libertà degli italiani. Presidenzialismo, federalismo, democrazia maggioritaria. Non erano solo tre differenti soluzioni «tecniche», erano anche espressioni di differenti culture politiche e di differenti aspirazioni sociali. E sono stati tre fallimenti. Hanno lasciato dietro di loro il deserto. Nessuno può più credibilmente azzardarsi a formulare progetti istituzionali ambiziosi. Nessuno tranne i 5 Stelle. Il loro progetto (certo non da realizzare immediatamente) è la democrazia diretta in versione digitale, è il depotenziamento massimo della democrazia rappresentativa/parlamentare. La riforma messa in cantiere (la riduzione dei parlamentari) nonché i penosi argomenti che la accompagnano (sui risparmi che deriveranno dal «taglio delle poltrone») sono coerenti con una visione del mondo per la quale i Parlamenti, e quello italiano in particolare, sono potenziali luoghi di malaffare. Di fronteaquesto attacco, culturale, politicoeistituzionale, alla democrazia parlamentare, gli altri, per lo più, balbettano o assumono posizioni poco credibili. Balbettano quando tentano di normalizzare la riforma dei 5 Stelle, costituzionalmente ineccepibile nelle forme, ma eversiva nelle aspirazioni. Oppure, se non balbettano, fanno proposte che sembrano solo strumentali, sconnesse da una qualsivoglia visione politica. La Lega si è oggi convertita improvvisamente al maggioritario dopo avere difeso per tutta la sua esistenza il sistema elettorale proporzionale e dopo avere detto «no» nel referendum del 2016 al superamento del bicameralismo paritetico, ossia a una riforma che sarebbe stata indispensabile per stabilizzare e rendere coesi governi eletti con il meccanismo maggioritario. Gli antichi fautori del maggioritario (come chi scrive) non possono che rallegrarsi per la conversione della Lega. Ma sono consapevoli del fatto che si tratta di una conversione basata solo su calcoli di convenienza momentanea. E i calcoli sulle convenienze cambiano di continuo. Proprio perché le scelte istituzionali non sono mai solo scelte tecniche non solo Forza Italia (oggi è il caso più evidente) ma anche il Partito democratico si trovano nei guai. Nati entrambi nell’età del maggioritario, espressioni entrambi della democrazia maggioritaria allora in formazione, hanno cercato di indossare—anche loro inseguendo le convenienze del momento — il vestito proporzionale. Saranno probabilmente puniti. Il futuro sembra appartenere ad altri.