Annalisa Cuzzocrea
Quando, di buon mattino, Luigi Di Maio entra a Palazzo Chigi per un caffè col presidente del Consiglio, è già convinto di aver avuto la meglio. Le tre «condizioni imprescindibili» che ha messo nero su bianco sul blog per fare la voce grossa, e dare l’impressione di essere determinante per l’approvazione della manovra, sono particolari che — a detta di chi ha lavorato ai testi — avrebbero richiesto una telefonata di dieci minuti, se davvero l’intenzione fosse stata quella di cercare un accordo. E infatti ieri notte gli unici a resistere sul carcere per i grandi evasori erano i renziani di Italia Viva. E il compromesso su partite Iva e multe ai commercianti senza pos è stato complicato dal ruolo del Pd, non del premier. Tanto che nel pomeriggio è stato necessario un altro faccia a faccia: quello tra Di Maio e il capo delegazione dem Dario Franceschini. Non era quello, però, il merito della questione. Perché in ballo tra il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri c’è molto di più: la leadership del Movimento, la presa sui gruppi parlamentari. Il futuro, in caso tutto crolli ancora una volta, per le intemperanze di Matteo Renzi o per le spallate del centrodestra (la possibilità di una sconfitta in Umbria agita le notti di Di Maio, che passerà nella regione l’intera settimana e che aveva chiesto a Conte un impegno molto maggiore di quello profuso, stanco di essere l’unico a dover mettere la faccia sulle difficoltà). Così, il leader M5S non dà al presidente del Consiglio le spiegazioni che pretende. Finge di non aver voluto alimentare la tensione, nei tre giorni in cui ha fatto tremare il governo. Ma avverte: credere che il Pd sia il partito quieto e responsabile dipinto da Conte può essere un errore. Chiede al premier più confronto, più dialogo. In una parola: più considerazione. Mentre dal canto suo il capo dell’esecutivo vuole garanzie su Renzi: che il Movimento non gli faccia da sponda. Che lo aiuti — piuttosto — a fermare quelli che definisce i «colpi di testa» del senatore di Firenze. Dietro la tregua di facciata che ne vien fuori, si è però depositata la polvere della battaglia. Quella che negli ultimi tre giorni ha visto i due protagonisti cercare di annientarsi l’un l’altro. Perché mentre Di Maio cercava l’appoggio dei suoi parlamentari, vedendo molti rispondere semplicemente «no» alle richieste dello spin doctor Pietro Dettori («uscite in sostegno di Luigi»), il presidente del Consiglio faceva sapere di aver ricevuto molti messaggi di deputati e senatori M5S pronti a sostenerlo. Mettendo in dubbio che in una guerra di numeri, il ministro degli Esteri possa avere la certezza di vincere. Nelle chat, agguerrite come non mai, il deputato fichiano Luigi Gallo dice: «Forse ci serve un esorcismo». E qualcuno azzarda: «Finirà che la scissione la faranno i fedelissimi di Luigi: in minoranza stanno finendo loro». Contarsi non è semplice: la dissidenza percorre mille rivoli e stenta a trovare punti in comune. Ma già stasera alla Camera ci sarà una riunione che cercherà di trovare una soluzione alla questione insoluta del capogruppo. Nessuno ha avuto una maggioranza adeguata ed è probabile che spuntino nuovi nomi: come quello di Davide Crippa, ex sottosegretario al Mise, non riconfermato proprio da Di Maio. Neanche a dirlo, furibondo con il capo politico e con le scelte degli ultimi mesi. Si candiderà per cercare di saldare lo scontento. Per come vanno le cose, potrebbe riuscirci.