Alla Camera, la fiducia al governo giallo-rosso è stata blindata da 343 sì. Al Senato però, come sempre, c’è chi alza la posta. Perché è da anni il Vietnam di ogni governo. Perché le sue minoranze risicate permettono ai singoli, come al senatore siciliano M5S Mario Giarrusso (non è la prima volta), o al pugliese Lello Ciampolillo, o al filoleghista Gianluigi Paragone, di minacciare disastri con voti contrari che a ogni vigilia spuntano inesorabilmente.
Così, a ieri, il Pd era preoccupato per l’astensione di Matteo Richetti. E per il fatto che ci sono parlamentari dem molto dubbiosi sul taglio di 345 eletti che saranno presto chiamati a votare. Mentre i 5 stelle temono i malumori del no Tav Alberto Airola, e appunto di Giarrusso e Ciampolillo. Considerando Paragone già andato. E non potendo conteggiare nella maggioranza neanche gli ex, a parte Paola Nugnes (che se questo governo fosse nato solo due mesi prima, non sarebbe fuori dal gruppo).
Servono 161 voti, per ora sulla carta ce ne sono 169. Ma la tensione viene tenuta alta e si lega alla distribuzione dei posti di sottogoverno. Su quelli, la partita è tutt’altro che chiusa. A partire da Palazzo Chigi, dove il duello tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il capo politico M5S Luigi Di Maio – quello che stava per far crollare tutto nell’ultima notte di trattative – non è ancora finito. Domenica sera il premier si sarebbe arreso sul nome di Roberto Chieppa. Fallito il tentativo di mettere l’attuale segretario generale della presidenza del Consiglio al posto del leghista Giancarlo Giorgetti, dopo aver ceduto alle pressioni di Di Maio affinché in quella casella strategica andasse il fedelissimo Riccardo Fraccaro, il premier ha tentato in ogni modo di tenerlo con sé affidandogli deleghe pesanti: di tipo legislativo, aveva fatto trapelare Chigi, prevedendo una sorta di commissariamento dell’ex ministro dei Rapporti con il Parlamento. Si era parlato poi dell’editoria o dei servizi segreti. Niente da fare, anche perché a un certo punto è stato lo stesso Chieppa a non rendersi disponibile. Il suo nome circola già per un posto al Consiglio di Stato, come presidente Agcom o Garante della privacy. Farsi massacrare dalla battaglia interna tra attuali vertici M5S e Conte non è il suo primo obiettivo. Ma non è finita. Perché nella partita dei sottosegretari, il premier ha preteso l’ultima parola almeno per quelli che andranno a Palazzo Chigi. E non intende far tornare all’editoria Vito Crimi, paladino della chiusura di Radio Radicale e difensore – come disse l’anno scorso dal palco di Italia a 5 stelle – dei contributi solo ai giornali per ciechi. Quanto alle caselle dei ministeri, Di Maio ha convocato ieri in sala Tatarella, alla Camera, tutti i capigruppo M5S nelle commissioni. E ha passato loro il cerino. Dovranno presentare una rosa di nomi entro mercoledì. Un passaggio che terrorizza chi si sentiva già dentro, o perché confermato o perché promosso dal capo politico: tutto è di nuovo in gioco, tutto può succedere. (Il Pd invece aggiunge tra i papabili l’ex deputato Massimiliano Manfredi alle Infrastrutture). Il ministro degli Esteri, com’è apparso evidente dal volto che ha mostrato seduto diligentemente accanto al premier, non è di buonumore. Non ha gradito le pressioni dell’ultimo mese per la formazione del governo e lascerà che i parlamentari M5S «si scannino tra loro», per dirla con uno dei suoi fedelissimi. «Le parole di Conte mi hanno trasmesso fiducia – ha detto a sera Di Maio– per fare tutte le cose elencate sarà fondamentale il lavoro e l’impegno dei nostri eletti. Quanto a me, come ministro degli Esteri voglio occuparmi soprattutto di far crescere l’Italia nel mondo». Terrà la delega al commercio estero, quindi. E al Pd, manda un messaggio serale tutt’altro che rassicurante: perché nel tweet in cui elenca gli obiettivi, inserisce la “revoca” delle concessioni autostradali. La parola revisione, buona per ogni compro- messo, è già stata spazzata via.