Annalisa Cuzzocrea
A chi gli invia l’immagine di un quadro di Frida Kahlo, che pare il suo ritratto, Luigi Di Maio risponde: “Mi aiuterà all’estero”. Riscoprendo l’ironia. Perché nei prossimi mesi il capo politico M5S abituato a grandi fatiche, il camaleonte reduce da cocenti sconfitte, ha davanti a sé un’impresa non da poco: mettersi nelle condizioni di incontrare il ministro degli Esteri russo Sergej Viktorovi? Lavrov (uno che, per dire, è stato in Sri Lanka e ha imparato il singalese), o il segretario di Stato americano Mike Pompeo (prima di essere nominato da Trump, aveva diretto la Cia), facendo dimenticare un curriculum con qualche inciampo di troppo sul fronte internazionale.
L’enfant prodige del Movimento, ministro degli Esteri a soli 33 anni, eterno aspirante premier, deve aver capito nelle ultime settimane che una delle ragioni per cui Giuseppe Conte ha vinto, e siede a Palazzo Chigi al posto suo, sono le relazioni internazionali che è stato in grado di tessere nell’ultimo anno. Per l’”avvocato del popolo”, soprannome coniato dalla macchina comunicativa M5S, si è speso il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, per lui Donald Trump ha twittato quel «Giuseppi » che resterà nella storia delle relazioni Italia-Stati Uniti. E mentre il premier andava in giro a convincere Angela Merkel della sua affidabilità, e rivelava i rapporti difficili nella maggioranza (il fuorionda trasmesso da Piazzapulita mandò allora su tutte le furie il vicepremier M5S), Di Maio veniva convinto dall’accoppiata Pietro Dettori-Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo, a girare l’Unione passando dal più antisemita dei gilet gialli fino all’estrema destra dell’ex cantante rock polacco Pawel Kukic, non dimenticando i movimenti per la casa croati e gli allevatori greci.
Preistoria. Perché se c’è una cosa che Di Maio sa fare bene, una dote che gli ha consentito di passare nel giro di dieci anni dalla tribuna autorità dello stadio San Paolo dove faceva lo steward a quella della parata del 2 giugno, dalla battaglia antieuro tutti ad Atene con Varoufakis al sostegno a Ursula von der Leyen, è la capacità di rivestire prima un’idea, poi un’altra, infine se serve l’opposto della prima. A sceglierlo come futuro capo politico e guida del Movimento non è stato Beppe Grillo bensì Gianroberto Casaleggio. Che ai suoi diceva: «Potremmo ottenere i risultati cui aspiriamo anche dall’opposizione, ma al governo lo faremo più velocemente ». L’unico che riteneva capace di tentare l’impresa in quello che allora si chiamava direttorio, il solo capace non solo di tenere la cravatta in un pranzo di famiglia, ma di studiare dossier fino allo sfinimento e di fare quattro tappe al giorno in campagna elettorale, è stato — da subito — il ragazzo di Pomigliano. Che rivendica i lavori umili delle origini: viene da un territorio che raggiunge tassi di disoccupazione del 61 per cento. E l’unica cosa di cui davvero si rammarica è non essere andato avanti all’Università: Ingegneria prima, Giurisprudenza poi.
Che Di Maio studi, che leggesse di notte i discorsi di Ingrao e Pertini da vicepresidente della Camera, che stia studiando da anni anche l’inglese e che non intenda eguagliare Angelino Alfano quando disse “uaind” per dire “wind”, vento, davanti a una divertita commissaria europea, lo confermano i collaboratori di ogni epoca. Così come chi gli è stato accanto in politica conferma come la sua dedizione sia pari solo alla sua spregiudicatezza. E la lealtà con i fedelissimi, pari alla spietatezza con chi ritiene, in qualsiasi momento, un nemico della linea che ha deciso di seguire. Linea che negli ultimi anni lo ha portato inesorabilmente a destra, anzi, per dirla con chi ne ha curato i discorsi, «contro i salotti buoni della sinistra». Così oggi i nemici saranno coloro che tentano di mantenere il Movimento su una scia di terzomondismo rosso-bruno che va dal venezuelano Maduro al russo Putin, passando per Hamas e chiudendo con Bolsonaro. Di Maio lo ha detto in ognuno dei suoi viaggi internazionali ufficiali, spingendo anche oltre il mandato che gli era stato dato: il faro è la Nato. L’Italia ha dei partner storici come gli Stati Uniti, e delle “interlocuzioni” come quelle con la Russia. Ma non sono sullo stesso piano. Lo aveva spiegato, con in prima fila il segretario generale della Farnesina Elisabetta Belloni, anche a inizio 2018 in un incontro promosso dalla Link University dell’ex ministro Enzo Scotti. Adesso, una volta portato su posizioni di realpolitik perfino Manlio Di Stefano, dovrà solo convincere a cambiare radicalmente idea su tutto il presidente della commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli, l’europarlamentare Castaldo (protagonista di un incontro con Assad) e, ultimo ma non meno importante, il battitore libero Alessandro Di Battista. «Non ci saranno più convegni M5S sull’ALBA bolivariana », promette in queste ore il neo ministro.
Perché il mondo gli creda, però, dopo le innumerevoli giravolte, dovrà crearsi uno staff all’altezza dell’impresa (la scelta del capo di gabinetto Ettore Sequi, ex ambasciatore a Pechino, pare andare in questa direzione, oltre che confermare l’interesse per i mercati asiatici). E dovrà ricucire prima di tutto con la Francia di Emmanuel Macron, la più colpita dalle uscite da campagna elettorale come quella, non dimenticata, sul franco coloniale ritenuto colpevole di ogni migrazione.