Arturo Zampaglione

Un immenso uragano, senza più ostacoli politici, né barriere geografiche, si sta dirigendo minaccioso contro i giganti della Silicon Valley. Amazon, Apple, Facebook e soprattutto Google sono nel mirino di nuova leva di “sceriffi” dell’antitrust che si muovono a tutti i livelli, federale e statale, americano ed europeo. Otto stati americani hanno aperto venerdì una inchiesta antitrust su Facebook. Poi lunedì, quarantotto stati americani hanno annunciato un’ indagine giudiziaria su Google per scoprire, come ha detto il repubblicano del Texas, Ken Paxton, capofila di questa iniziativa, «eventuali comportamenti anti- competitivi ai danni dei consumatori nella pubblicità online e nel motore di ricerca». E ieri, a Bruxelles, Margrethe Vestager che negli ultimi anni non ha dato pace ai colossi hi-tech, è stata riconfermata all’Antitrust.
I colossi rischiano grosso. Anche se fanno finta di essere tranquilli e promettono collaborazione, si preparano alla battaglia giudiziaria. Temono multe miliardarie, aperture forzose alla concorrenza, break-up societari e, in definitiva, una perdita del loro immenso potere. In un paio d’anni, azzarda qualche esperto, il mondo dell’hi-tech potrebbe essere molto diverso – meno ricco, invadente e arrogante – di quello che abbiamo conosciuto finora. Gli Stati Uniti si sono mossi in ritardo nel contrastare lo strapotere delle multinazionali tecnologiche. Pesava forse l’umiliante sconfitta del governo federale nella causa antitrust contro la Microsoft persa da Bill Clinton. E mentre i democratici difendevano a oltranza i liberal (miliardari) della Silicon Valley e i repubblicani sventolavano la bandiera del liberismo e della supremazia tecnologica americana, nessuno si occupava veramente dei problemi di privacy e concorrenza. Lo scandalo di Facebook e Cambridge Analytica, con i suoi contraccolpi in termini di interferenze elettorali, ha lanciato un primo segnale d’allarme. Così, invece di raffreddare gli animi, la multa di 5 miliardi di dollari a Facebook, proprietaria anche di Instagram e Whatsapp, per l’uso improprio dei dati personali di 87 milioni di utenti ha accelerato le offensive giudiziarie e politiche. Il dipartimento della giustizia di Washington e la Ftc (Federal trade commission) hanno avviato indagini sulle quattro Big: Amazon, Apple, Facebook e Google. Il Congresso ha varato un programma di udienze e indagini. E Donald Trump non perde occasione per criticare non solo Google, il cui motore di ricerca non darebbe abbastanza spazio alle posizioni della destra, ma anche Amazon, che danneggerebbe i piccoli commercianti e che ha un boss, Jeff Bezos, proprietario anche del Washington Post , da sempre molto critico della Casa Bianca.
L’ultimissima mossa contro Google dei 48 stati americani (con l’eccezione della California e dell’Alabama) è di gran lunga la più seria. Se fosse dimostrato che la multinazionale di Mountain View ha danneggiato consumatori e concorrenti nella gestione del motore di ricerca e della pubblicità online, con comportamenti monopolistici, ci sarebbero conseguenze gravissime. Forse le multe non fanno molta paura ma non si può escludere che la pena per una violazione delle norme anti-monopolio arrivi alla frammentazione del gruppo in varie società, come accadde al gigante telefonico At&t e come suggerisce Elizabeth Warren, una delle tre democratiche nel plotone di testa per la Casa Bianca. Sundar Pichai, chief executive del motore di ricerca ha subito sguinzagliato i suoi lobbisti. Grazie ai loro profitti miliardari, tutte le aziende hi-tech non badano a spese in questo settore, oltre che nel finanziare i partiti politici. Facebook “investe” 12,6 milioni di dollari all’anno in contributi elettorali, Amazon 14,2 e Google 21. Somme e uomini per bloccare l’offensiva a Washington e a Bruxelles.