Augusto Minzolini

Aneddoto. Nelle curve della scorsa legislatura il Senato di allora approvò una legge che impediva le cosiddette «porte girevoli» per i magistrati in politica, gli impediva cioè di sedere in Parlamento e poi tornare come se nulla fosse ad amministrare la giustizia, in ossequio ad un precetto, nel nostro Paese tanto conclamato quanto disatteso, che «un giudice non deve essere solo imparziale, ma apparire tale». Un principio basico, visto che un magistrato indossando una maglietta politica, non ha certo l’immagine di chi è al di sopra delle parti. Ebbene, il provvedimento (…)(…) passò al Senato ma a Montecitorio (per usare un lessico d’archivio) finì insabbiato: il sottoscritto ed altri scrissero che la presidente della Commissione Giustizia di quel tempo, Donatella Ferranti, magistrato, non si fosse impegnata più di tanto nell’approvazione della legge perché dopo il mandato parlamentare puntava ad andare in Cassazione. Ovviamente, l’interessata protestò per quelle insinuazioni. Sta di fatto che a due anni dalla fine della scorsa legislatura, mentre la legge contro le porte girevoli – giudicata sacrosanta da magistrati come Piercamillo Davigo, o ex come Antonio Di Pietro oppure l’ex presidente della Corte d’Appello di Roma, Marcello Vitale («chi si candida dovrebbe lasciare la magistratura» è il parere drastico di quest’ultimo) – è finita sepolta negli scantinati della Camera, se si legge Wikipedia si scopre che la «politica» Donatella Ferranti (così è presentata nel frontespizio della pagina web) nel 2018 è stata nominata giudice di Cassazione. È solo un esempio che dimostra come in Italia il garantismo si predica e non si pratica. E ora che i 5stelle, che hanno un’anima pervicacemente «giustizialista», sono diventati per usare un’espressione di Giggino Di Maio «l’ago della bilancia», le cose sono peggiorate. E di molto. Si può dire che sia il governo gialloverde, sia quello giallorosso sono nati su un’eclisse del garantismo nel nostro Paese: per strappare l’alleanza con i grillini prima i leghisti, poi il Pd, hanno subito i loro diktat sulla giustizia. Dall’abolizione della prescrizione, alle manette ai presunti evasori (ora anche i sospetti evasori sopra i 100mila euro possono entrare nel mirino delle intercettazioni telefoniche), il Paese è diventato uno Stato di polizia. Giri di vite a cui non è corrisposto un aumento delle garanzie: c’era l’impegno dello scorso governo che l’abolizione della prescrizione sarebbe stata accompagnata dalla riforma del processo penale; caduto il governo gialloverde si farà solo la prescrizione e non il resto. Ed ancora: nel decreto sull’Ilva era previsto lo scudo penale per i precedenti amministratori; è stato tolto sotto la minaccia di una ventina di senatori grillini pronti a far mancare i loro voti e, per impedire a Renzi e ai suoi di opporsi, sul testo del provvedimento il governo ha posto la fiducia. Insomma, sotto il ricatto grillino si assiste ad una «débâcle» delle istanze garantiste in Parlamento. E gli altri attori politici si impegnano su queste tematiche a seconda se sono al governo o meno, se gli conviene oppure no. «Siamo rimasti solo noi di Forza Italia – è il commento laconico di Pierantonio Zanettin – visto che il Pd per trovare un’intesa con i 5stelle si è dimenticato le battaglie che faceva all’opposizione. Risultato: mettono in campo norme terrificanti». «La verità – aggiunge Enrico Costa – è che le compromissioni con il giustizialismo grillino le ha fatte la Lega nell’altro governo. Ora rinfaccia al Pd di non riuscire a tornare indietro. Ma sono tutte facce di bronzo: il discorso di insediamento di Bonafede nel governo giallorosso era uguale, letteralmente, a quello che fece quando si presentò come ministro del governo gialloverde: prima lo applaudiva la Lega e il Pd lo fischiava; ora avviene l’esatto contrario». «Almeno Renzi sul palco della Leopolda – rimarca Davide Bendinelli – qualcosa sul “garantismo” lo ha detto, Salvini mai». La verità è che i garantisti in Parlamento sono isolati. I grillini dettano legge e in nome della realpolitik di coalizione nel governo precedente la Lega e ora il Pd abbozzano. Dimenticando che il rischio di una crisi che porti alle elezioni, dovrebbe terrorizzare, visti i sondaggi, soprattutto Di Maio e compagni. E, invece, niente: con la legge del bilancio in Parlamento, l’iter della legge di iniziativa popolare per la separazione della carriere tra giudici e Pm alla Camera è stato rallentato. «Meglio aspettare» è il segnale che arriva sia dal Pd, sia dai renziani. In fin dei conti il «garantismo» torna in mente solo quando si è nei guai, mentre se si ha il coltello dalla parte del manico si arriva addirittura ad aizzare la magistratura. Dopo l’inchiesta di Report sul «Russiagate», Nicola Zingaretti non ha posto la questione nelle aule parlamentari ma ha dichiarato: «Sono sorti molti interrogativi sulla Lega. Notizie inquietanti per la tenuta della nostra democrazia. Chi deve indagare, indaghi». Inutile dire che la Lega in questo caso è insorta: «Quelli di Report – si è arrabbiato Giancarlo Giorgetti – sono dei criminali. Altro che porte girevoli, tra politica e magistratura ci dovrebbero essere compartimenti stagni». Poi, però, è Matteo Salvini a prendere a pretesto gli avvisi di garanzia – non i rinvii a giudizio – per porre un veto sulla candidatura del sindaco di Cosenza, il forzista Mario Occhiuto, a governatore della Calabria. E torniamo al limite strutturale di questa classe politica, che interpreta il garantismo non come un valore, ma come un calcolo.