Benedetta Argentieri

rutta marcia e sassi. Mai prima di ieri gli americani erano stati accolti così dal popolo curdo. E non solo nel nord-est della Siria, ma anche nel Kurdistan iracheno. Tutti contro il ritiro. “T ra di tor i” è tra le frasi più gentili che le decine di persone sulle strade hanno urlato al lungo convoglio di blindati arrivato a Erbil, appunto in Iraq. Le operazioni di ritiro sono cominciate nel pomeriggio di domenica. E sono continuate fino alla mattina di ieri. Gli elicotteri hanno sorvolato le città, facendo tremare i vetri delle case per quasi tutta la notte. Durante le operazioni di smantellamento, i soldati americani hanno indossato sulle uniformi i badge verdi del l’Ypj – le Unità di Protezione delle Donne – n o n ostante il divieto del Pentagono fin dalla battaglia di Raqqa due anni fa. Un segnale forte, non capita spesso che i militari disobbediscano a un ordine così platealmente. Forse per dimostrare il loro dissenso a un ritiro che per tutti è un tradimento. Quella della Casa Bianca è stato un cambio di rotta così repentino che ha lasciato tutti sconvolti, compresi loro. MA QUESTI SEGNALI non sono stati abbastanza per la popolazione che si trova sotto attacco dalla Turchia. Così quando la carovana di mezzi color sabbia con la bandiera a stelle e strisce è passata per le strade di Qamishli, la popolazione non c’è l’ha più fatta. E ha dato sfogo alla sua rabbia. “Abbiamo sbagliato a fidarci di loro. Dovevamo fare i nostri interessi non quelli degli americani. Ora siamo ridotti così male che il regime è l’unica nostra salvezza”, spiega Raman, 34 anni, soldato ferito nella battaglia di Serekanye, Rais al Issa. Domenica la città al confine con la Turchia è caduta in mano alle bande jihadiste scatenate dal presidente turco Erdogan che le ha appoggiate con l’aviazione e ibombardamenti. Le Forze Democratiche Siriane non hanno potuto far altro che ritirarsi, strette da tutti i lati dalle Tfsa, la fazione delle Free Syrian Army addestrate in Turchia e di stampo islamico radicale. “Ero già dovuta scappare da Serekanye nel 2012 quando ci hanno invasi la prima volta”, spiega Fatima Jaz Ahmed in una scuola diventata rifugio per le migliaia di persone fuggite dalla guerra. “Siamo andati via giovedì dopo che una incursione aerea ha colpito la casa dei vicini. Mio figlio più grande aveva troppa paura. Siamo andati in un villaggio vicino ma le bombe ci hanno seguiti anche li”, continua la donna mentre abbraccia una delle figlie. Oggi la famiglia vive in un’aula di una scuola ad Hasakah. I materassi colorati sono impilati da un lato, mentre una stuoia di plastica blu copre il pavimento. Hasakah ha accolto la maggior parte dei 190,000 profughi causati d al l ’operazione “Sorgente di pace” cominciata il 9 ottobre scorso sul confine tra la Turchia e il nord est della Siria. “La situazione è molto difficile. Mancano acqua, cibo e servizi”, spiega Nasrin Abdullah Siz, da ieri a capo del rifugio che è stato aperto martedì. Persino il pane è diventato un bene prezioso. IL FABBISOGNO è passato da 35 tonnellate al giorno a 50, in meno di una settimana, e continua a crescere. “Non abbiamo abbastanza fornai, quelli che ci sono lavorano giorno e notte”, continua la donna seduta alla scrivania. Dietro di lei ci sono i poster del Rojava Film Festival che si doveva tenere nelle prossime settimane in tutte le città tra cui Serekanye. Sarebbe stata la terza edizione. Intanto, nonostante il cessate il fuoco di 120 ore annunciato dal vicepresidente americano Mike Pence in accordo con Ankara, continuano i combattimenti. La tregua è servita solo a far evacuare le Forze Democratiche Siriane dalla città, ed è durata poche ore. Dal fronte continuano ad arrivare notizie preoccupanti. Saccheggi, violenze sui civili. Poi incursioni aeree e bombardamenti nelle campagne di Ain Issa, Tal Abyad, Kobane. Sembra evidente che la Turchia non vuole fermarsi davanti a niente, e si teme il massacro, un bagno di sangue. “Non abbiamo bisogno di tanto, ma ci deve essere la copertura aerea. Deve essere implementata una no-fly zone”, dice una combattente raggiunta al telefono e impegnata nelle campagne di Tal Abyad. “Ab – biamo già sconfitto i jihadisti sul terreno ma così è una battaglia impari”. La Turchia è accusata di usare armi chimiche. Le bruciature riportate da civili e soldati lascia perplessi i medici. “Non ho mai visto cose così, non sappiamo come curarli e alleviare le loro pene”, spiega Fares Hammu, medico “al l’ospedale della Gente” di Hasakah dove sono stati trasferiti la maggior parte dei civili. I campioni sono stati mandati nel Kurdistan iracheno per delle analisi approfondite. Ma intanto monta la rabbia per le strade. “Ci hanno traditi: gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra. Tutti ci hanno voltato le spalle. Una coltellata alla schiena dopo che noi abbiamo combattuto lo Stato Islamico anche per voi”, grida Merwan con le lacrime agli occhi. Per anni ha combattuto Daesh. Sperava che fosse finita. E invece una nuova guerra l’ha strappato da casa. La notizia delle ultime ore scuote ancora gli animi. Il presidente Trump lascerà 200 soldati a guardia dei pozzi di petrolio. “Voglio – no solo quello, e intanto noi veniamo massacrati”.