Benedetta Tobagi
Stefano Delle Chiaie, morto lunedì notte a 83 anni, non era uno spettro del passato, ma una figura chiave per comprendere la galassia neofascista italiana di oggi, la sua mentalità, le mitologie e la sua peculiare narrazione della storia patria. È stato infatti uno dei suoi eroi, sin da quando, nel 1959, fondò Avanguardia nazionale, che, piccolo ma agguerrito, fu il principale gruppo storico dell’estrema destra radicale insieme a Ordine nuovo di Pino Rauti, protagonista di molti episodi violenti (fu in prima fila tra i “boia chi molla” dei moti di Reggio Calabria del 1970) e sciolto nel ‘76 per ricostituzione del partito fascista.
Nato a Caserta ma romano d’adozione, detto “er caccola” per la bassa statura e “il bombardiere di Roma” per la propensione a usare l’esplosivo, gli occhi sempre nascosti dietro ai Ray Ban a goccia scuri, amava definirsi «un rivoluzionario al servizio dell’Idea» — quella fascista, ovviamente. Latitante dal 1970, condannato in via definitiva come leader di Avanguardia nazionale e in primo grado — poi assolto — per il tentato golpe Borghese (i suoi ragazzi fecero irruzione nottetempo, armati, in una sede del Viminale), all’inizio degli anni Ottanta è l’uomo più ricercato d’Italia. Lo accusano di essere tra i mandanti della strage di Bologna, di piazza Fontana e dell’omicidio Occorsio. Dalla latitanza (figura di spicco della cosiddetta “internazionale nera” è stato gradito ospite prima della Spagna franchista, poi nell’America latina delle dittature) invia memoriali ai tribunali e concede un gran numero di interviste (la più clamorosa a Enzo Biagi nel 1983, in un luogo imprecisato della giungla tra Venezuela e Colombia). Delle Chiaie insiste su una tesi ben rodata: in quanto esponente duro e puro del “movimento nazional-rivoluzionario” è un perseguitato dal “sistema”, come gli altri militanti dell’estrema destra eversiva, inclusi i killer dei Nar. Le stragi sono di Stato, frutto di «manovre dei servizi segreti e delle centrali di potere», e lo Stato legittima ogni violenza con la sua repressione. Disse all’epoca, sibillino: «È possibile [che io conosca i nomi dei manovali delle stragi]. Ma non è essenziale renderli noti […] intanto pretendiamo che vengano richiamati nelle aule di giustizia e processati tutti coloro che hanno prima istigato e poi protetto i responsabili delle stragi». Un tema su cui doveva saperla lunga: lo ha sempre accompagnato il puzzo di zolfo della collaborazione con i servizi segreti, in particolare con il famigerato “ufficio bombe”, l’Ufficio Affari riservati del Viminale di Umberto Federico D’Amato, che nell’inchiesta su piazza Fontana firma il depistaggio a danno del gruppo anarchico di cui fa parte il “provocatore” Mario Merlino. Fedelissimo di Delle Chiaie, nel 1968, prima di convertirsi all’anarchia, partecipa a un viaggio nella Grecia dei colonnelli, con Rauti e il “caccola”, che prevede corsi accelerati in tecniche d’infiltrazione: inserire provocatori nei gruppuscoli di estrema sinistra per alimentare il disordine e promuovere una svolta a destra. E, sebbene loro abbiano sempre negato, negli anni Novanta, morto D’Amato, un ex vicedirettore degli Affari riservati ha confermato i rapporti stretti e durevoli tra Delle Chiaie e il suo vecchio capo: «Lo agevolavamo per passaporti, porto d’armi e quant’altro », ha detto alla magistratura. Alla faccia della purezza rivoluzionaria.
Arrestato ed estradato in Italia nel 1987, Delle Chiaie è stato prosciolto da ogni accusa: la sua è una delle tante storie che alimenta tra i camerati la mitologia di una destra rivoluzionaria eroica, innocente e perseguitata, soprattutto nei processi per strage. Ha pubblicato le sue memorie, L’aquila e il condor , e ha continuato a fare politica; in anni recenti, da una telefonata intercettata del leader di Forza nuova, Roberto Fiore, risulta essere stato un pontiere tra estrema destra ed esponenti leghisti. Come tanti altri, ora si è portato tutti i suoi segreti nella tomba, mentre i neofascisti continueranno a venerarlo nel pantheon degli eroi.