Beniamino Pagliaro
Il mondo veloce e disordinato non sembra intenzionato a offrire una tregua, ma nel mondo delle notizie c’è almeno una buona nuova da registrare. I grandi giornali hanno iniziato a capire come sopravvivere e crescere nell’epoca digitale. La regina di questa rincorsa faticosa è il New York Times. Nonostante i frequenti attacchi di Donald Trump, che si diverte a chiamarlo il “failing Nyt”, il giornale non sta affatto fallendo. Nel 2010 aveva meno di centomila abbonati digitali, oggi sono 4,7 milioni, e nel 2025, secondo i piani dell’amministratore delegato Mark Thompson saranno almeno dieci milioni. 62 anni, il primo inglese a guidare il Nyt, dopo essere stato direttore generale della Bbc, ha portato i ricavi a 1,8 miliardi di dollari. A Roma per ricevere il premio Pair del Centro Studi Americani, Thompson spiega a Repubblica la sua strategia e da osservatore privilegiato registra i passi falsi dei populisti, da Matteo Salvini a Boris Johnson. Per anni si è discusso di molte formule per salvare i giornali, dagli accordi con le piattaforme digitali all’e-commerce. Oggi c’è un consenso sulla via da seguire. Cos’è cambiato? «La pubblicità digitale per gli editori è difficile, perché i fondamentali favoriscono sempre le piattaforme. Il dibattito è ancora aperto, ma è chiaro che la gran parte dei ricavi dovrà arrivare dagli abbonamenti digitali. Possiamo discutere se sarà il 70, l’80 o il 90%, ma non sarà certamente il 20%. Il grande cambiamento è arrivare a un modello dove i lettori contano davvero su di noi. Dobbiamo concentrarci sulla relazione con gli abbonati, essere parte della loro giornata». Come farete ad arrivare a 10 milioni di abbonati nei prossimi cinque anni? «Dobbiamo partire dal mercato potenziale, che è molto più grande: stiamo migliorando molto nell’attrarre abbonati più giovani, e molte più donne, che ora sono il 52% della nostra base. Per farlo abbiamo cambiato filosofia organizzativa, i team lavorano per obiettivi, con grandi competenze di analisi dei dati». Come fa un’azienda che ha 168 anni di storia a cambiare? «Durante la recessione del 2008 il New York Times ha attraversato una crisi esistenziale. Abbiamo capito che se non fossimo cambiati saremmo falliti, o avremmo perso l’indipendenza. Quando ho iniziato a lavorare qui nel 2012 la famiglia proprietaria e un terzo dell’azienda erano davvero pronti per un cambiamento fondamentale, anche se altri erano timorosi. Considera anche che nello spirito americano c’è la convinzione di voler provare cose nuove, e credere nel futuro». L’evoluzione del modello economico dei giornali, dalla pubblicità agli abbonamenti è possibile anche per testate più piccole? «Il modello che stiamo sperimentando è costoso all’inizio, abbiamo quasi mille persone al lavoro oltre alla redazione. Ma presto le soluzioni saranno sul mercato, non vedo perché replicare l’esperienza su scala minore debba essere impossibile. La domanda chiave è se il giornalismo sarà appropriato: quel che funziona è la qualità». Ogni giorno che passa viene aperta una nuova indagine antitrust su Google, Facebook e Amazon. È solo politica o qualcosa va fatto? «L’industria digitale deve essere regolata, e le piattaforme sono chiamate a rispondere. Il mio punto di vista da editore, comunque, è che dobbiamo guardare in faccia alle cose: se stampavi Repubblica o il Nyt 40 anni fa avevi la tipografia, la distribuzione, la pubblicità. Il problema è internet. Ma dire “non è giusto, avevamo tutti i soldi dalla pubblicità, è colpa di qualcuno!”, è come se nell’industria dei cavalli si lamentassero per le automobili. Quei ricavi sono stati un po’ un incidente. Bisogna piangere, asciugarsi le lacrime e immaginare il futuro». Nel 2016 ha pubblicato un libro (“La fine del dibattito pubblico”, Feltrinelli) in cui dichiarava morto il dibattito politico. Dobbiamo nutrire una speranza di poter riprendere la parola? «Dobbiamo assolutamente essere speranzosi. Nelle società controllate, come la Russia o l’Ungheria, Putin e Orbán possono restare al potere per molti anni. Ma nei paesi che hanno democrazie e media vivi, per i populisti sta diventando più difficile: lo sta capendo Trump. Anche Matteo Salvini, che ha avuto una parabola interessante, ha dimostrato che il linguaggio del leader populista non può convivere con un governo di coalizione. Boris Johnson dice “Brexit o preferisco morire in un fosso”, ma poi cosa otterrà? È una transizione, ci abitueremo, avremo un po’ più tempo per pensare invece di impazzire per le frasi di un politico. La speranza è trovare un equilibrio». Già nel 2020 avremo questo equilibrio? Insomma, Trump sarà rieletto? «Eh, questo mi sembra ottimista. Trump è stato astuto, più di Salvini, nel rimanere un oppositore, anche se alla Casa Bianca. Suona sempre contro il sistema. È strano, ma il suo modo di fare caotico, inconsistente e incoerente, pare andare bene a molti. Nel 2020 batterlo sarà sorprendentemente difficile».