Bruno Vespa Zingaretti

Nel caldo ottobre romano del 2019 incontro Nicola Zingaretti nel suo luminoso ufficio dell’antico Collegio Nazareno, nel cuore della Roma politica. (…). Chiedo a Zingaretti perché abbia lanciato un’alleanza durevole e strategica con una forza così diversa in tutto dal Pd come il Movimento 5 Stelle. (…) «Per la verità io ho affermato che è riduttivo governare insieme l’Italia solo per paura di Matteo Salvini o per occupare poltrone; ed è necessario, invece, avviare un confronto sui contenuti e su una possibile visione del futuro. Se si governa insieme, si è alleati, non nemici». È facile l’integrazione con il M5S?, gli chiedo. «No, ma è di fondamentale importanza non viverla come esaltazione delle differenze, come è accaduto nel governo gialloverde. L’errore drammatico delle due vicepresidenze Salvini – Di Maio fu alimentare un gioco al massacro con la contemplazione e l’esaltazione delle differenze. Noi dobbiamo cambiare passo. Sulla maggioranza è ovvio che bisogna voltare pagina. Mi auguro una nuova solidarietà nella coalizione, che non può essere un campo di battaglia quotidiana. Questo offusca la bontà delle cose fatte e mina la credibilità di tutti». Zingaretti dà l’impressione di voler prendere per mano inquietudini e contraddizioni del M5S e accompagnarlo verso una definitiva scelta istituzionale. «La politica non è fatta di emoticon su Facebook in cui giudichi con il dito all’insù o all’ingiù. La politica è un giudizio». Per questo ha voluto un governo politico. «Mi avrebbe spaventato più un governo tecnico di quello che abbiamo fatto con i 5 Stelle. Io non ho mai votato per un governo tecnico. Per questo ho voluto un politico come Roberto Gualtieri all’Economia, perché al massimo della crisi occorre il massimo della politica». (…) Gualtieri ha firmato una legge di bilancio necessariamente povera e fatalmente controversa. («È povera, sì,» precisa il segretario del Pd «ma garantisce una maggiore equità grazie a una precisa scelta di campo»). Faccio osservare a Zingaretti le bizzarrie delle proposte di ennesima modifica della legge elettorale. La storia ci dice che vengono sempre fatte più contro qualcuno che per qualcosa. E, in genere, si ritorcono contro i proponenti. Per arginare Salvini, la sinistra valutò una legge completamente proporzionale: rappresentanza per tutti, governabilità complicata. Insorsero giustamente Romano Prodi e Walter Veltroni. Dopo la scissione di Renzi, che sarebbe stato ovviamente favorito dal proporzionale, ci fu una marcia indietro con il ritorno al maggioritario. Dunque? «Non c’è solo il tema Renzi», risponde Zingaretti. «Nel Pd esiste la cultura del maggioritario, ma è vero anche che questo sistema non ha garantito la stabilità del presidente del Consiglio. Soltanto Berlusconi (2001-2006) ha concluso una legislatura. Con la riduzione del numero di deputati e senatori il problema si è complicato perché, senza una revisione dei collegi, ci sarebbero in alcune aree partiti non rappresentati. Nelle regioni e nei comuni abbiamo un sistema maggioritario. I due paletti del Partito democratico sono, perciò, o un proporzionale con alta soglia di sbarramento o un maggioritario a doppio turno. Di Maio dice: “Vediamo in Parlamento”. Noi siamo disponibili». «Io rimango per il maggioritario, perché per questo ho combattuto», puntualizza Renzi. (…) «Tuttavia, oggi, non abbiamo i numeri per decidere da soli e, dunque, daremo una mano. Per noi andrebbe bene sia se proponessero un proporzionale con sbarramento del 5 per cento come in Germania sia un maggioritario con il ballottaggio al secondo turno. Se faranno altro, ascolteremo».