Carlo Bonini

Manifestare liberamente il proprio pensiero è un diritto fondamentale incoercibile. A maggior ragione se si è ergastolani. Così come lo sono il diritto al silenzio e alla menzogna di un indagato o un imputato. Cesare Battisti, nei suoi 37 anni di latitanza, li ha legittimamente esercitati. E, altrettanto legittimamente, la sua doppiezza è stata e continua ad essere giudicata. Fatta questa premessa, la sua «lettera ai compagni» dal carcere dimostra come questi 37 anni non siano serviti a Battisti a compiere un passaggio cruciale. Pre-politico, si potrebbe dire. Che non ha a che fare con un giudizio postumo, e di comodo, sulla lotta armata. O con l’ammissione delle proprie responsabilità penali, pervicacemente negate per oltre un quarto di secolo. Ma con la dimensione narcisista di un uomo tuttora prigioniero di un’auto-narrazione che è esattamente quella che, alla fine, lo ha reso alieno e trasversalmente detestabile non solo all’opinione pubblica di questo Paese, ma persino ai pochi che avevano continuato a sostenerlo nella latitanza e che dalla sua confessione si sentono oggi traditi. La protervia con cui Battisti continua a parlare di una «persecuzione spietata», di «un sequestro di persona grossolanamente trasformato in estradizione» e a posare da «martire» non aiuta a chiudere quella pagina di Storia, non aiuta a disintossicare l’opinione pubblica. Che non è stata «avvelenata» dalla «disinformazione», come Battisti pretende. Ma, appunto, dal suo narcisismo. Battisti dovrebbe riconoscere che è stata l’informazione di questo Paese (anche se non tutta) a denunciare le modalità con cui la sua legittima estradizione dalla Bolivia venne trasformata, su una pista dell’aeroporto di Ciampino e su Facebook, dai ministri Salvini e Bonafede in un circo indegno di uno Stato di diritto. Nella rappresentazione di una vendetta. Ma per spezzare questo circolo vizioso sarebbe necessario deporre la maschera indossata per una vita. Per una volta, anche se non fa comodo.