Carlo Bonini sul trafficante libico

La vicenda della visita in Italia, nel maggio 2017, del libico Abd al-Rahman al-Milad, meglio conosciuto come “Bija”, già signore del traffico di esseri umani nel quadrante di Zawyah, a capo di milizie fedeli al premier Serraj nel conflitto con il generale Haftar e contestualmente ufficiale della Guardia Costiera libica, al riparo della quale ha continuato, se possibile con maggior ferocia e profitto, a coltivare i propri traffici, riassume e fotografa in modo nitido il fantasma, la cattiva coscienza e l’ipocrisia che inseguono la sinistra italiana dal giorno della sua sconfitta elettorale nel marzo 2018. E con lei l’Europa. Bija, finito nell’estate del 2018 nella lista dei trafficanti di esseri umani sottoposti a sanzioni delle Nazioni Unite, appena un anno prima, in una delegazione composta da 14 membri, visitava i Cara di Mineo e Pozzallo e il Centro di coordinamento della nostra Guardia Costiera a Roma sotto l’ombrello e per iniziativa della Oim, l’Organizzazione Intergovernativa per i migranti, che, per inciso, è Agenzia collegata alle Nazioni Unite. Ospite di un programma (il “Sea Demm”, “Sea and Desert Migration Management for Libyan authorities to rescue migrants”) concepito per formare operatori umanitari, compresi ex trafficanti che evidentemente tali non erano, ma tali si professavano. Ebbene, sollevata quattro giorni fa da un’inchiesta del quotidiano della Conferenza Episcopale Avvenire, la vicenda ha prodotto il consueto riflesso pavloviano del “se c’ero non sapevo”, del “se c’ero non ricordo”, come se la storia di Bija avesse quale sua unica posta in gioco il processo postumo alla responsabilità politica di un governo, di un singolo ministro, di un Capo della Polizia, o di qualche funzionario della nostra Intelligence. E che dunque la faccenda si risolva nel dimostrare che «le carte erano apposto». O che, al contrario, non lo erano. Il tutto, in un contesto di ipocrita rimozione. Che non solo non fa onore al silenzio di chi, nel 2017, guidava il Governo, l’attuale commissario Europeo Paolo Gentiloni – che, ancora recentemente, ha rivendicato le politiche migratorie implementate dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti come «eredità da trasferire in Europa» – e del segretario del Partito che allora lo sosteneva, Matteo Renzi, ma che avrebbe meritato e meriterebbe l’attenzione dell’attuale segretario del Pd Nicola Zingaretti. Non fosse altro per rispondere a una domanda fondamentale che la storia di Bija – come altre del resto, documentate in questi mesi anche da Repubblica e dal lavoro dei suoi inviati sulle navi delle Ong nel basso Mediterraneo – pone. Una domanda molto semplice che non contempla furbizie. Di quali politiche migratorie questo governo intende farsi promotore? Detta in modo più esplicito: esiste una volontà di completare la strada tracciata nel 2017 da Minniti e Gentiloni che, di fronte a uno “Stato fallito” e in preda a un’interminabile guerra civile che impiegava nell’indotto del traffico dei migranti almeno 40 mila miliziani, immaginava un compromesso in ragione del quale, stringendo mani non immacolate (come quelle delle centinaia di Bija e capi tribù della Libia), fornendo aiuti militari (le motovedette destinate a ricostruire un’inesistente Guardia Costiera) e umanitari sarebbe stato possibile progressivamente prosciugare quell’indotto criminale e portare le Nazioni Unite – Unhcr – su quelle coste dove migliaia di migranti marciscono in campi di prigionia ridotti a lager? O ancora, immaginare una politica di flussi e rimpatri governata e non subita? O, al contrario, si ritiene che quell’eredità sia ingombrante, fallimentare, peggio abbia aperto la strada a una criminalizzazione del lavoro delle Ong, alla dismisura e ai demoni salviniani, e si vuole per questo andare altrove? Saperlo non guasterebbe. Anche perché, in questo primo mese di Conte bis, le indicazioni sono di una grande confusione. Accade infatti che mentre nel Pd , e non solo, si levino voci contro «la vergogna della Guardia Costiera libica», il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, abbia ribadito la centralità di quella flotta dove, appunto, uno come Bija ha fatto il comandante. Accade anche che mentre i porti vengono riaperti alle navi delle Ong, i due decreti sicurezza firmati da Salvini – e la cui riscrittura era stata indicata come una pregiudiziale per la nascita del governo giallo-rosso – non solo non siano stati toccati, ma, anzi, continuino ad essere utilizzati come strumento di governo. Per non dire del decreto Di Maio sui rimpatri che, per i migranti provenienti da “Paesi sicuri”, contempla un’inedita inversione dell’onore della prova, in forza del quale, spetta al migrante arrivato sulle nostre coste dimostrare di essere fuggito da un luogo di guerra, persecuzione, violazione dei diritti umani. Ma può essere considerato Paesesicuro l’integralista Algeria? O la Tunisia? La storia di Bija merita insomma una qualche risposta politica su ciò che si intende fare e non quella della famosa e italianissima gag di “Totò Truffa”: «E che mi chiamo Pasquale?».