Carlo Cottarelli

Entro venerdì il governo dovrà pubblicare la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (Nadef), che fisserà gli obiettivi di deficit e debito pubblico alla base della legge di bilancio per il 2020. Sarà il primo atto concreto di politica economica del nuovo governo. Cosa ci possiamo aspettare? Facciamo un riassunto delle puntate precedenti.

La Nadef aggiorna il Documento di Economia e Finanza (Def) presentato in aprile. Il Def aveva indicato che il deficit pubblico si sarebbe attestato al 2,4 per cento del Pil nel 2019 e al 2 per cento nel 2020. Questi numeri non erano piaciuti alla Commissione e a giugno, riconoscendo che le cose stavano andando meglio del previsto in termini di spesa e di entrate, il governo aveva concordato un pacchetto di risparmi che avrebbero portato il deficit del 2019 al 2%.

Non era chiaro quali sarebbero state le implicazioni per il 2020, ma, in assenza di una nuova stima ufficiale, si può ipotizzare che i risparmi identificati in giugno (alcuni dei quali una tantum, altri più permanenti, come la minor spesa per quota 100 e il reddito di cittadinanza, misure che hanno attirato meno interesse di quanto inizialmente previsto), insieme ai minori tassi di interesse negli ultimi mesi potrebbero far scendere il deficit nel 2020 intorno all’1,5 per cento del Pil.

Questo avverrebbe però solo se la legislazione restasse immutata, incluso l’aumento dell’Iva per circa 23 miliardi votato alla fine dell’anno scorso per trovare coperture agli aumenti di spesa già decisi con effetto sul 2020. Senza questo aumento, che il governo è intenzionato a cancellare, il deficit il prossimo anno salirebbe da 1,5 al 2,8 per cento.

Un ultimo elemento per capire da dove si parte nel 2020: le previsioni del Def di aprile non comprendevano le cosiddette “spese indifferibili” spese che si sa dovranno avvenire nel 2020 ma che, per una cattiva abitudine italiana, non erano incluse nelle previsioni del Def. Se si aggiungono queste spese (circa 2 miliardi), il deficit per il 2020 sale dal 2,8 al 2,9% del Pil. Quindi per riportare il deficit all’obiettivo previsto in aprile (2 per cento) occorrerebbe trovare risorse per lo 0,9 per cento del Pil, circa 16 miliardi.

A questi si aggiungerebbero le risorse per le nuove iniziative che il governo dice di voler prendere. Non si sa quanto queste potrebbero costare, ma per avere qualcosa di significativo in tutte le aree indicate nel programma di governo (cuneo fiscale, welfare, famiglie, pubblica istruzione, sussidi a imprese che investono) servirebbero almeno una decina di miliardi, forse più, da aggiungere ai già citati 16 miliardi. Da dove possono venir fuori tutti questi soldi? Il governo spera nel buon cuore della nuova Commissione Europea.

Intendiamoci: non è che i soldi ce li darebbe la Commissione. Ma questa acconsentirebbe a farceli prendere a prestito, accettando un deficit più alto del 2 per cento. Non penso però che si posso andare molto in là: cambiare le regole europee sui conti pubblici richiederebbe, se anche ci fosse l’unanimità dei membri, un paio di anni e, nell’ambito delle attuali regole la flessibilità potrebbe limitarsi a 5-6 miliardi (lo 0,3 per cento del Pil). E il resto?

Il governo ha parlato di ridurre deduzioni e detrazioni, le cosiddette “spese fiscali”, magari quelle dannose per l’ambiente (ricordiamo che Macron ebbe la stessa idea, scatenando la reazione dei gilet gialli). Forse è anche utile andare a vedere se qualcuna delle misure introdotte negli ultimi anni potrebbe essere rivista.

Viene in mente prima di tutto quota 100, misura in conflitto rispetto alle tendenze demografiche e l’aumento tendenziale della spesa pensionistica. Il problema è che il risparmio immediato anche da una sospensione completa dei nuovi pensionamenti con quota 100 nel 2020 sarebbe modesto (mezzo miliardo circa).

Si potrebbe rivedere il trattamento previsto per il reddito di cittadinanza, che risulta molto più generoso per i single che abitano al Sud, dove il costo della vita è più basso, che per le famiglie numerose del Nord. Ma occorrerebbe tagliare i sussidi già in corso di erogazione, cosa non facile.

Tante altre misure sono state introdotte dal 2014. Il totale ammonta a quasi 90 miliardi, compreso, sul lato della spesa, oltre a quota 100 e reddito di cittadinanza, maggiori stanziamenti per la “buona scuola”, le pensioni, le assunzioni nel settore pubblico, le spese per le famiglia, il bonus “cultura” per i diciottenni e, sul lato delle entrate, l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, la riduzione dell’Ires, la detassazione di premi di produttività, l’esclusione del costo del lavoro dall’Irap, il bonus di 80 euro (che l’Istat classifica però come spesa e non come detassazione), la flat tax per le piccole partite Iva, eccetera. 90 miliardi, alla faccia della austerità, uno potrebbe dire.

Il problema è però il solito. Ormai tutte queste cose sono viste come diritti acquisiti e sarà difficile eliminarle. La logica per cui si introducono nuovi provvedimenti e si verifica dopo due o tre anni la loro efficacia non appartiene al settore pubblico italiano: non si va mai a valutare l’efficacia delle misure introdotte (si è mai andato a vedere cosa esattamente è stato comprato col bonus ai diciottenni, per esempio?).

Si sarebbe potuto procedere con una revisione della spesa a più ampio raggio, ma non mi risulta che il governo precedente abbia fatto grandi progressi in questa direzione.

Resta quindi l’incertezza sul come far tornare i conti. Certo occorrerà ridimensionare lo spazio per nuove iniziative. Ma anche senza nuove iniziative occorre trovare 16 miliardi, a meno di non aumentare l’obiettivo di deficit sopra il 2 per cento. Che si ricorra, di nuovo , ai tagli lineari, magari anche quelli per le spese di esercizio con un peggioramento della qualità dei servizi pubblici? Temo di sì…