Cesare Martinetti
Il primo ottobre 1949 Mao Tse Tung (ora Mao Zedong) in piedi sulla Porta Celeste di Pechino, dopo lunghi anni di guerra civile, proclamava con orgoglio la fondazione della Repubblica popolare. Ma il 1949 della Cina era in realtà cominciato nel 1927, Mao aveva allora 33 anni, era stato espulso dal Comitato centrale comunista, e non sapeva cosa fare: «Mi sentivo desolato», ammetterà molto dopo. Doveva scegliere tra l’opzione nazionalista di Ciang Kai Shek o l’armata dei soldati comunisti guidati da Ciu En-Lai (ora Zhou Enlai). Come scrisse Enzo Bettiza sulla Stampa, rievocando quel 1927, s’iniziò così la «lenta costruzione di un’armata personale che l’astutissimo Mao, il mediocre poeta Mao, diciamo pure il geniale criminale Mao definirà “rossa” e “comunista”». Il futuro Grande Timoniere non perse tempo e impiegò quegli anni a studiare la condizione contadina, specie nello Hunan, quando un vento rivoluzionario attraversava le campagne: «Si solleveranno come una tempesta e spediranno alla tomba gli imperialisti, i funzionari corrotti e i prepotenti locali». Prendeva forma la sua dottrina, prima di lui nessun marxista aveva concepito una rivoluzione socialista che si basasse esclusivamente sui contadini. Una «eresia» che lo faceva molto più vicino ai populisti russi (narodniki) che non a Marx e Lenin. Nel 1934-35 Mao conduce la sua armata in un ripiegamento strategico passato alla storia come la «Lunga Marcia», 10 mila chilometri, percorsi in un anno, da Sud a Nord, dallo Jiangxi allo Shaanxi per sottrarsi all’accerchiamento della macchina militare del Kuomintang guidato da Ciang Kai-Shek. Storia e leggenda si intrecciano e secondo Bettiza, in una strategia contorta e sottile, molto «cinese», fu lo stesso Ciang ad appoggiare l’operazione con l’obiettivo di impadronirsi poi, col suo esercito fresco e intatto, delle zone ripulite dalla truppa maoista. È invece certo che, durante la Marcia, si scannarono tra loro differenti fazioni comuniste con Mao che emergeva ogni volta vincitore. Il giornalista americano Edgar Snow, testimone molto simpatizzante dell’impresa (il suo Stella rossa sulla Cina è pubblicato dal Saggiatore) lo descrive così: «C’è qualcosa in lui dell’uomo del destino, una solida vitalità elementare. Emana un’incredibile capacità di sintetizzare le esigenze di milioni e milioni di cinesi». Ma anche spietato e implacabile sterminatore, come documentato nella biografia dell’ex guardia rossa Jung Chang (uscita in Italia da Longanesi, Mao, la storia sconosciuta) che vedeva in lui ingrandito e moltiplicato l’«istinto criminale di Stalin di spezzare la dignità delle vittime». Guerra e rivolta sociale procedevano associate, come ha scritto lo storico americano Maurice Meisner in Mao e la rivoluzione cinese (Einaudi). L’invasione giapponese della Manciuria nel 1937 offrì ai comunisti l’opportunità di impadronirsi della bandiera della resistenza contro gli invasori. Dopo il ritiro del Giappone nel 1945, quando la Cina stava precipitando nella guerra civile, i nazionalisti godevano di un vantaggio schiacciante sull’Armata comunista guidata da Mao: aviazione, artiglieria pesante e cospicuo aiuto finanziario degli Stati Uniti. Lo stesso Stalin consigliò a Mao di cercare un accordo con Ciang Kai-Shek. Ma la sua fiducia nella rivoluzione era incrollabile: «La storia proverà che i nostri fucili sono più potenti dei loro aeroplani e dei loro carri armati». Mao adottò una «tattica di guerra mobile» ispirata ai principi di Sun Tzu. Decisiva fu la battaglia per la Manciuria, condotta in prima persona dai due leader, Mao e Ciang Kai-Shek. L’Armata Rossa guidata dall’abile Lin Biao ebbe il sostegno schiacciante dei contadini, che intanto avevano ricevuto le terre confiscate e vedevano realizzata la promessa di Mao: «La terra a chi la coltiva». Il maoismo definiva dunque i suoi caratteri (egualitarismo, frugalità, comunitarismo, fusione tra civile e militare e tra teoria e pratica) in una combinazione originale di nazionalismo e rivoluzione sociale. Violenta, va da sé: «Il potere politico nasce dalla canna del fucile». La vittoria schiacciante ottenuta dall’Armata Rossa in Manciuria impresse un’accelerazione alla storia, centinaia di migliaia di soldati di Ciang Kai-Shek disertarono in favore di Mao, il quale riunì il Paese contro il parere di Stalin che avrebbe voluto una Cina divisa in un Nord comunista (e non concorrente di Mosca) e un Sud al Kuomintang, rassicurante per gli Stati Uniti. Il 1° ottobre Mao proclamava invece la nascita della Repubblica popolare dove «ciascuno di noi era una goccia nel grande fiume del socialismo», come scrive Yu Hua (Mao Zedong è arrabbiato, Feltrinelli) ricostruendo oggi lo spirito dell’epoca con un’ironia allora impossibile. Il conflitto con l’Urss era dunque scritto sulla pietra dell’ideologia e si allargò sulla pratica della geopolitica per il primato sul movimento comunista internazionale. Morto Stalin, seguirono gli anni del riavvicinamento con Krusciov, definitivamente interrotti nel 1960 con l’espulsione dei consiglieri sovietici. Cominciava l’era di un potere mistico e assoluto che proiettava la Cina nel grande gioco del mondo, ma segnato da una feroce repressione che sarebbe costata al Paese decine di milioni di morti.