Chiara Saraceno

Speriamo che la discussione sulle politiche per le famiglie che si è aperta nel governo non si risolva in una mera competizione su chi offre – in astratto – di più, salvo poi ripiegare su qualche bonus, accusandosi vicendevolmente per l’impossibilità di mantenere le promesse. Non sarebbe la prima volta. Eppure, le premesse per iniziare una seria politica di sostegno alle famiglie ci sarebbero, almeno per quanto riguarda le famiglie con figli minori. Almeno a parole, c’è un diffuso consenso, non solo tra i partner di governo, ma anche in parlamento e tra le varie associazioni della società civile che si occupano di questi temi, sulla necessità di mettere ordine nel frammentato insieme di trasferimenti monetari legati alla presenza di figli che si è venuto costruendo in questi anni. Questa frammentazione, che riguarda anche i criteri di accesso, produce dispersione, quindi scarsa efficacia, e in alcuni casi (incapienti, disoccupati di lungo periodo) anche esclusione. Da questa consapevolezza nasce la proposta di unificare tutti i trasferimenti legati alla presenza di figli in un assegno unico mensile fino alla maggiore età, una proposta che, appunto, oggi sembra condivisa da quasi tutti i partiti. La discussione riguarda se debba essere dello stesso importo a prescindere dal reddito famigliare (immagino equivalente, cioè commisurato all’ampiezza della famiglia, per evitare di creare altre ingiustizie), o invece sia più opportuno farlo variare con il variare del reddito, dando di più a chi ha meno, e se debba esserci una soglia massima di reddito (si parla di 100 mila euro annui) oltre la quale non vi sarebbe assegno. Sono questioni serie, con buone ragioni per chi sostiene l’una o l’altra tesi. L’entità delle risorse necessarie per dare un assegno significativo forse suggerisce di partire con un assegno variabile con il reddito (equivalente) e fino ad una soglia massima, che tuttavia includa la maggioranza delle famiglie con figli. La cosa importante è iniziare a mettere ordine, senza farsi tentare, di fronte al lavoro necessario a questo scopo, e al tempo che richiede, dal chiudere la partita erogando un ennesimo bonus o confermando l’esistente. Meglio prendersi il tempo necessario, con scadenze certe. Preoccupa un po’, da questo punto di vista, che la ministra delle Pari opportunità e della Famiglia abbia parlato di un “bonus nascita”. Speriamo che sia solo una questione lessicale, così come il family act evocato da Renzi, come se non ci si riuscisse a discostare dal vocabolario, non felicissimo, di una passata stagione. Nel governo e nel Parlamento sembra ci sia consenso anche su un altro punto: la necessità di investire nell’ampliamento dei servizi per la prima infanzia e nella riduzione delle rette. Questi servizi non sono solo un fondamentale strumento di conciliazione lavoro-famiglia per i genitori di bambini molto piccoli, in particolare per le madri. Sono anche un’indispensabile risorsa di pari opportunità per i bambini. Migliorare il livello di copertura, ora al 24% a livello nazionale tenendo conto sia dei nidi pubblici sia di quelli privati e convenzionati, sia delle sezioni primavera nelle scuole materne, ma con livelli inferiori al 10% in alcune regioni meridionali, costituirebbe non solo un pezzo importante delle politiche di sostegno alle famiglie con figli piccoli e, indirettamente, alle scelte di fecondità, ma anche un investimento cruciale nelle nuove generazioni. Anche in questo caso, è importante prendere la direzione giusta. Inutile promettere di abbassare le rette se i nidi non ci sono e se i bambini la cui mamma non è occupata di fatto non possono fruirne.