Dario Di Vico

La domanda brutale potrebbe suonare così: chi ha ucciso l’Ilva di Taranto? La prima risposta, quella che in qualsiasi giallo che si rispetti appare subito debole, porta al nuovo gruppo dirigente di ArcelorMittal, a una manager di lungo corso come Lucia Morselli, che ieri ha firmato la comunicazione di recesso. Del resto i sindacalisti quando l’amministratore delegato francese Matthieu Jehl era stato sostituito dalla Morselli — che aveva nel suo curriculum i drastici tagli apportati all’Ast siderurgica di Terni — avevano già capito come sarebbe andata a finire. Ma è davvero così o, in fondo, la multinazionale franco-indiana è stata messa con le spalle al muro e di fatto indotta a tirare l’ultimo colpo? Prima di cercare riscontri vale la pena riavvolgere il nastro a tornare al 1971 quando un ambientalista come Antonio Cederna scriveva sul «Corriere» che per lo stabilimento inaugurato 6 anni prima, capace di 11,5 milioni di tonnellate e costato in investimenti 2 mila miliardi di lire non si era però pensato «alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non è stato nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento». Per dirla con una battutaccia quelli non erano i tempi di Greta, il Novecento industriale godeva di una retorica a prova di bomba, l’Italia si muoveva attuando il piano siderurgico Sinigaglia e c’era bisogno di acciaio a prezzi contenuti per i settori-chiave dello sviluppo italiano, dall’auto agli elettrodomestici. Amen.

La prima conclusione a cui arriva la nostra indagine è, dunque, che lo Stato italiano non è certamente innocente, industrializza il Sud senza guardare ai danni collaterali e trova la connivenza delle amministrazioni locali dei paesini limitrofi che cambiano i piani regolatori per poter costruire più vicino possibile alla fabbrica e far vendere le case più facilmente. Si crea così il grande peccato del quartiere Tamburi, si dà vita a uno scambio perverso di lungo periodo tra sviluppo e inquinamento. Un madornale errore che si protrarrà per circa 50 anni e accompagnerà il processo di privatizzazione che porta lo Stato a lasciare il campo per far posto ai Riva. Domande forse ingenue: ma come ha fatto la politica a non vedere per dieci lustri? Come non ci si è resi conto che creare una continuità fisica tra fabbrica e città avrebbe ingigantito i problemi e soprattutto resa difficile la soluzione? La data-clou è il 26 luglio 2012, i nuovi proprietari subentrati nel ‘95 pagando 1.650 miliardi di lire, vengono accusati dalla magistratura addirittura di «disastro ambientale». Ha raccontato l’imprenditore tarantino Vincenzo Cesareo: «Il 26 luglio resta per me il punto di non-ritorno. Ero presidente della Confindustria solo da un mese e su richiesta della Procura il Gip di Taranto dispose il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva». Ricorda Marco Bentivogli, che aveva guidato la Fim tarantina nei primi anni Dieci: «I lavoratori scesero in sciopero e invasero la città, c’erano blocchi ovunque. La manifestazione era in mano alle associazioni ambientaliste, si creò uno di quei momenti in cui scappano tutti e restano solo i sindacalisti. E serpeggiò persino l’accusa che lo sciopero fosse contro la magistratura». Il giudizio del sindacalista sui Riva è impietoso: «Mentre l’indagine della magistratura andava avanti non avevano dimostrato nessuna capacità di ammettere responsabilità. Si sentivano “padroni” ma senza la crescita culturale che sarebbe stata necessaria per il salto di qualità da trasformatori del ciclo del rottame a proprietari del più grande centro siderurgico d’Europa. E senza rispetto per l’ambiente e la salute di operai e cittadini». Non investirono abbastanza e sottovalutarono la necessità di coprire il Parco Minerario per impedire che il vento facesse il suo sporco lavoro. Dal 2012 al 2017 ci vorranno ben cinque anni perché vedesse l’inizio il processo ai Riva: sembra incredibile ma il tempo è volato tra istruttoria giudiziaria e decreti governativi a raffica per evitare di volta in volta lo stop della produzione. Prima di essereiprocessati i Riva faranno a tempo a uscire di scena, lo Stato si riprende l’Ilva, nomina i suoi commissari e la rimette in vendita. Si fanno avanti con maggiore decisione quelli di ArcelorMittal e immediatamente negli ambienti siderurgici si parla di una mossa comunque vincente: o la comprano e la gestiscono o alla mala parata la chiudono per impedire comunque ai concorrenti di piazzare la loro bandiera su Taranto. Il sospetto accompagnerà le mosse dei francesi per molto tempo nonostante che dal loro portafoglio nel frattempo escano 1,8 miliardi di euro per l’acquisizione e vengano stanziati altri 1,2 miliardi per «ambientalizzare» l’Ilva, a cominciare dalla copertura del Parco Minerario con una cupola. Siamo nel 2018 ma la frittata è stata già fatta. La politica, al secolo i 5 Stelle, mette in atto un’Opa sull’ambientalismo locale e si presenta alle elezioni politiche di marzo con la parola d’ordine della chiusura dello stabilimento. Fioccano i consensi (47% e primo partito) e da lì il destino ha svoltato. Se in tutti questi anni sviluppo e ambiente non avevano trovato modo di far pace – come è capitato per altro a tante città siderurgiche d’Europa -, il quadro cambia e la politica si veste di verde per dare la caccia alle streghe e allo sviluppo. Il resto è storia dei nostri giorni, la chiusura di Taranto diventa addirittura materia di conflitto dentro il Movimento e soprattutto si mette nel mirino ArcelorMittal revocando di fatto la salvaguardia giudiziaria. Il governatore pugliese Michele Emiliano, che aveva sognato quella che chiamava «la decarbonizzazione» dell’Ilva vendendo non a Mittal ma agli altri indiani di Jindal, fa corsa assieme ai grillini e il partito del Pil a Taranto si ritrova desolatamente orfano. Commenta il pd Claudio De Vincenti, ex ministro per il Mezzogiorno con il governo Gentiloni: «In questo Paese non è maturata per tempo la consapevolezza che si tengono assieme ambiente e sviluppo solo se si ha fiducia nella scienza e nelle competenze». Nell’attesa non ci resta che contare i colpevoli. Tanti.