Davide Frattini
N ei quartieri sunniti tirano giù i poster con il volto di Saad Hariri. In quelli dominati dagli sciiti cantano slogan contro Hezbollah. Fuori dal palazzo del governo se la prendono con Gibran Bassil, il ministro degli Esteri e suocero del presidente Michel Aoun, leader cristiani. Se c’è una linea politica dietro alle proteste in Libano, è che le appartenenze politiche non contano. Tutti insieme per strada: gli «schiavi» – così si definiscono – contro quelli che hanno il potere. Il potere di provare a imporre una tassa che avrebbe pesato ancora di più sui libanesi impoveriti dalla crisi economica. Già pagano tariffe tra le più alte al mondo per i servizi cellulari, il governo avrebbe voluto introdurre una imposta sulle telefonate via Whatsapp e altri social media: in pratica un balzello sui tentativi di risparmiare. Le migliaia di persone che partecipano alle manifestazioni sono in rivolta contro la decennale incapacità dello Stato di funzionare, si ribellano alle ruberie, alla corruzione e ai pochi che controllano tutti gli altri, le stesse famiglie uscite dominanti dai quindici anni di guerra civile. Il premier Hariri minaccia le dimissioni e presenta un ultimatum alla coalizione perché approvi le riforme necessarie a limitare il disastro finanziario, mentre Hassan Nasrallah ripete che il governo deve resistere. Il capo di Hezbollah in questo momento non vuole disordini, si presenta come il paladino della «povera gente», eppure sono le squadracce dei suoi alleati sciiti ad aver tirato fuori i kalashnikov per disperdere i cortei. All’inizio della settimana i boschi attorno a Beirut sono stati colpiti da incendi devastanti, i tre elicotteri della forestale sono rimasti a terra perché in questi anni nessuno ha badato alla manutenzione. Erano stati pagati 13,9 milioni di dollari e donati al governo con una colletta tra i cittadini, le banche e anche le associazioni degli studenti universitari. Sono diventati il simbolo dell’incuria. Adesso tutto il Libano brucia.