Hanno avuto coraggio i signori del Nobel. Perché un riconoscimento per la pace è obbligatoriamente, verrebbe da dire, sempre speculare. Per porre fine a una guerra infatti occorre che siano sempre in due a stringersi la mano. E anche il conflitto tra Eritrea e Etiopia, baratro nero e spalancato che ha ingoiato 70.000 morti per il possesso di quattro inutili e polverosi sassi si è chiuso grazie all’accordo del coriaceo padre padrone dell’Eritrea Isaias Afewerki e del giovane primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali. Ma il riconoscimento, meritatamente, giudiziosamente è andato solo al secondo. Per una volta la limacciosa retorica che accompagna il premio Nobel è stata annullata e il premio è diventato quello che deve essere, un forte, brusco atto politico che segna e contraddistingue il tempo in cui è assegnato. Perché nel Nobel, quello dato e quello rifiutato, si specchiano due versioni del continente. Una, quella dell’eritreo, purtroppo reale, presente, ben riconoscibile delle dittature immarcescibili e dei regimi corrotti. L’altra, per ora solo possibile, che si intravede a fatica nelle nebbie dell’utopia di regimi per cui il saccheggiare e far male ai propri sudditi non costituisce l’alfa e l’omega della politica. Allora il premio bisognerà leggerlo tutto in questa specularità dove colui che non l’ha avuto, cioè Afewerki, resta nella parte vuota dello specchio. Proprio lui che la pace l’aveva firmata per essere riammesso, nonostante il suo pessimo pedigree dittatoriale nel salotto della geopolitica africana e internazionale. E ora deve, con furore, guardare anche lui allo specchio dove appare ben visibile e nitida la sua controparte. Attenzione però a non costruire troppe illusioni, l’Africa di oggi non è purtroppo quella di Abiy. Semmai il ritratto di un fallimento a cui il Nord, cioè noi, abbiamo largamente contribuito e continuiamo a farlo con le nostre brillanti incursioni. Gli utopisti e i rivoluzionari occupano le lapidi e i cimiteri, i cinici e i violenti i ministeri. È la regola. In Africa poi! Abiy era un perfetto sconosciuto quando è salito, quarantenne, al potere. Il suo incarico, responsabile del Sistema nazionale di controllo di Internet e della telefonia, suggeriva qualche sospetto poiché è la nuova frontiera, modernista, del controllo dei sudditi da parte dei despoti africani. Per di più è un oromo, un’etnia che nella storia secolare di un impero multietnico dominato via via da uno o dall’altro dei suoi popoli, non ha mai occupato posizioni di potere. Ha ereditato un passato pesante: il sanguinario stalinismo militare di Menghistu, poi il neomarxismo riformatore ma brutalmente autoritario di Zenawi. Il fragile miracolo economico non poteva più nascondere un deficit passato rapidamente da tre a quattordici miliardi di dollari. E le conseguenze di uno sviluppo a tutti i costi basato su progetti smisurati come le dighe sul Nilo azzurro. Il regime era in fase di rapida liquefazione: perché le entità etniche moltiplicavano le richieste al centro, istruzione, sicurezza, controllo delle tasse, e i dinieghi favorivano una balcanizzazione furiosamente guerriera risvegliando idiosincrasie mai sopite e i sussulti identitari. Il bilancio di questa eterna pedagogia dell’attesa e del rinvio dell’annuncio della fine della povertà ad un calendario dilatato era fitto di rivolte armate, insurrezione, morti. Il cambiamento qui si chiama «Tiliq Tehadiso»: per fortuna non soltanto chiacchiere ma gesti concreti. Abiy ha firmato la pace con l’Eritrea e riconosciuto l’arbitrato internazionale che ha assegnato ad Asmara i sassi contesi, ha raggiunto un accordo con l’Egitto sulla utilizzazione delle acque del Nilo azzurro (un problema che per gli egiziani è motivo sufficiente per una guerra); ha liberato buona parte dei prigionieri politici, riconosciuto all’opposizione un ruolo tirandola fuori dalla scomoda denominazione di «terroristi»; aperto un nuovo ruolo per le donne. A ben guardare dietro ognuno di questi gesti non c’era soltanto l’eccitazione di un visionario: la pace con l’Eritrea ha in parte disinnescato il selvatico indipendentismo tigrino; l’accordo con l’Egitto ha fatto guadagnare tre miliardi di dollari di aiuti da parte del Qatar, grande elemosiniere del Cairo; la democratizzazione interna serve a tenere a bada le ebollizioni dei grandi battaglioni del proletariato etiopico. Per noi che non crediamo neanche più alla nostra ombra in politica, è confortante scoprire che dietro all’utopista c’è un attento equilibrista della realtà politica che sa mescolare invenzione visionaria e vantaggio pratico ed immediato. C’è di che alimentare una cauta felicità su questo premio Nobel. La verifica verrà da un semplice controllo: che i discorsi di Abiy non continuino a riconoscersi dai verbi tutti declinati al futuro. E che rapidamente il capitolo delle persecuzioni non si riapra quando il premio Nobel si troverà di fronte nel suo Paese a dei tenaci miscredenti.