Emanuela Audisio

Un altro muro invalicabile non c’è più. Per lui, per noi, per tutti. Perché rimuovere un tabù, rompere una barriera, significa liberare l’umanità. E farla atterrare in un altro mondo. Eliud l’ha fatto. «Ho superato i limiti umani». Ha corso la maratona in 1h59’40”, abolendo la barriera delle 2 ore, impresa mai riuscita prima. Era una mission impossible: 42,195 km ad una velocità di 21 km e 110, una danza folle e leggera, un volo nella fantascienza. «Come Armstrong siamo tutti andati sulla luna e siamo ritornati sulla terra». Sì, ma senza razzi e in meno di 120 minuti. È il primo uomo della storia a dare una sberla al cronometro, a scendere “sub2”, ci aveva già provato due anni fa a Monza fallendo il tentativo per 25 secondi. Stavolta la sua media a chilometro è stata di 2’ e 50”, che equivale a correre 422 serie consecutive di 100 metri in 17 secondi, senza riposo. Provateci, lui ne è emerso senza fiatone, fresco come un grillo, cominciando a ridere a 200 metri dal traguardo, applaudendo il pubblico e sé stesso, battendosi il petto e accelerando, con l’aria di chi allunga il passo per non perdere l’ultimo tram. Affaticato? Quando mai. Oppresso? «Per niente, anzi la tensione se n’era andata». “Kingchoge”, chiamatelo così. Primo maratonauta. Perché a quasi 35 anni è il sovrano della strada, perché nel suo regno è imbattuto dal 2013, perché non esiste altro dio on the road così perfetto, 14 maratone corse senza mai un incidente, una gastrite, un crampo. Campione mondiale, olimpico, recordman. Perché si è preso sottobraccio un mondo riottoso, l’ha trascinato con sé, nell’inferno dei battiti cardiaci, nella paura dell’ignoto, e gli ha fatto capire che se siete disposti a farvi frullare il cuore si può molto, quasi tutto. «Sono l’uomo più felice del mondo, voglio ispirare altre persone». Perché Kipchoge, un figlio dell’altopiano di Eldoret, Kenya, tribù dei Nandi, più a nord de La mia Africa della baronessa Blixen, è un lettore di Coelho, di Aristotele, e magari gli piace anche Montaigne sul bisogno di imparare a sopportare quello che non si può evitare. «Voi oggi ancora vi ricordate di Bannister, da domani lo farete anche con me. Io sono la sua nuova versione». Già, Roger Bannister, inglese, aveva 25 anni quando il 6 maggio del ’54 da Londra prese il treno, seconda classe, per Oxford. Si stava laureando in Medicina e prima era passato in laboratorio per limare i chiodi delle scarpette, non usava nemmeno i calzini per pesare di meno. Quel giorno a Iffley Road si correva il miglio che equivale a 1.609 metri e 36 centimetri e che per i britannici è un brano di Shakespeare su pista. Solo che stavolta la tempesta era abbattere il limite dei 4 minuti. Quelle colonne d’Ercole erano invalicabili, la fisiologia diceva che per un uomo era un sogno vietato. Il record era dello svedese Haegg, 4’01”4, durava da 9 anni. Ma Bannister studiava neurologia e sapeva che per sconfinare l’organo più importante è il cervello. Gara vera, gli altri erano due amici, ma andavano troppo piano. Gli toccò correre un ultimo giro sotto i 60”. All’arrivo svenne. «Non ci vidi più, mi era passata la voglia di vivere». È l’unico record in cui nessuno sentì i secondi e nemmeno i decimi. Importava solo che l’annunciatore avesse pronunciato la parola tre (3’59”4). L’anno prima era stato conquistato l’Everest, Elisabetta era diventata regina. Quel confine abbattuto sembrò l’inizio di un nuovo mondo. In tanti gli scrissero: «Mi sono messo nella vasca a trattenere il respiro sotto l’acqua per 4 minuti, per capire meglio». Il record di Eliud invece non sarà omologato. Perché ottenuto in condizioni particolari, in pratica una procreazione assistita. Tre mesi e mezzo di preparazione, un asfalto senza imperfezioni, una curva al millimetro, una pista testata grazie a un software di simulazione, giorno e programma scelti in base a condizioni meteorologiche favorevoli (temperatura, umidità, qualità dell’aria, sotto controllo anche la caduta autunnale delle foglie), 35 atleti mondiali (non somari, ma il meglio di ogni continente e soprattutto Nike), in formazione da 7, a fare da scudieri e che cambiavano ogni giro, con lo schema quattro più uno davanti, poi Eliud, poi altri due a chiudere, una specie di V rovesciata per una questione di flussi d’aria. Raggio laser per terra che indicava il ritmo del record, macchina davanti con cronometro, folla vera ai lati, tanta e generosa. Rifornimenti dove veniva imboccato, con fluidi. Il via alle 8.15 locali, con una temperatura fresca (9 gradi), una leggera foschia, su un circuito piatto di 9,9 km da percorrere un poco più di 4 volte. Antidoping per tutti. Scarpe Vaporfly della Nike, ulteriormente modificate (le aveva solo lui) con il sistema Alphafly. Del resto con buona pace dello scalzo Bikila se le cinque migliori prestazioni mondiali sono state ottenute da quelle scarpe vuol dire che un aiuto lo danno. Tutto organizzato privatamente dal miliardario inglese Jim Ratcliffe, gruppo Ineos, con un budget di 20 milioni di dollari per un futuro degli eventi sportivi fuori dalle federazioni e che facciano sognare. E il tocco family life all’arrivo: Grace, la moglie di Eliud, la figlia Lymne, i figli Griffin e Gordon. Più grande sventolio della bandiera del Kenya. Si capisce lo scetticismo: troppi sponsor, troppa artificiosità, troppo laboratorio, troppe lepri. Ma anche nelle gare di Formula Uno, dove il motore non è umano, le gomme vengono cambiate quando si consumano, e comunque Eliud i suoi chilometri se li è ingoiati tutti, senza sconti. C’era chi diceva che a correre sotto le 2 ore si moriva. Bè non si muore, anzi si vive benissimo, e si fa vivere meglio anche gli altri. Perché da oggi si sa che un altro Everest è stato scalato, che ognuno ha le sue vette impossibili, che altri mondi possono essere reinventati. Eliud ha fatto rinascere la maratona, ha buttato giù una porta, dove passeranno altri, perché ormai i lucchetti sono saltati. Gli ultimi metri li ha fatti da solo, quasi saltellando, con la gioia di un bimbo che ha finito un girotondo. In quel momento lì c’era solo il suo grande cuore, non la tecnologia. Certi respiri puoi assisterli, ma il fuoco che ti brucia i polmoni è solo tuo. Aveva fallito nel 2017, ci ha riprovato dicendo che nella vita non bisogna avere paura di ritentare. Trovate un altro campione così: che si allena in un camp dove a turno anche lui pulisce il bagno (latrina), dove la stanza è una cella, dove tutti si sta insieme, perché come dice lui, è un detto africano: «Anche i grandi uomini per radersi la testa hanno bisogno degli altri». Quando Bob Beamon nel ’68 saltò nel lungo a 8,90 metri, facendo migliorare il record di 55 centimetri, a tutti sembrò appeso al cielo e che non venisse più giù. Oggi è come se Eliud avesse saltato un metro in più. Certo un po’ di nubi in testa le ha avute anche lui prima. «Dalle 5 alle 8.15 di mattina ho avuto pensieri. Poi correre mi ha aiutato a liberare la mente. Imparate anche voi a farlo». Freud qui a casa sua aveva altri metodi, ma chissà. E chissà se anche a lui come a Bannister arriveranno lettere con l’indirizzo: Kipchoge, maratoneta, Kenya.