Ettore Livini
«I conti del Vaticano sono finiti in rosso per una ragione molto semplice: perché a gestirli ci sono gli gnomi della finanza». Giulio Sapelli, docente di storia economica e candidato premier — per qualche giorno — del governo gialloverde, conosce molto bene la storia e i bilanci d’oltretevere. E al di là del rosso nel bilancio dell’Apsa («Sospendo ogni valutazione, dovrei vedere tutti i numeri»), il suo giudizio sul loro stato di salute è tranchant: «La cosa positiva è che il problema delle casse della Santa sede non è quello di sempre, la scarsa trasparenza — dice al telefono da New York — . Con l’adesione alle norme internazionali sull’antiriciclaggio e grazie al buon lavoro fatto da Ettore Gotti Tedeschi su questo fronte si sono fatti grandi passi avanti». Il nodo, molto serio, sono invece le contraddizioni della struttura economica del Vaticano. «Una realtà a sé — spiega — dove da sempre convivono due anime: da una parte c’è un ente con autorità morale e con compiti da assolvere, come si è fatto aiutando Solidarnosc in passato. Dall’altra c’è la necessità di far quadrare il conto economico». E di fronte ai risultati di cui si parla oggi «è chiaro che non si è creata una tecnostruttura in grado di far convivere questi due mondi». L’ ambiguità è ancor più difficile da conciliare con la congiuntura economica e spirituale attuale: «La crisi delle vocazioni e il calo delle offerte dell’obolo, specie dalla chiesa nordamericana, hanno falcidiato le entrate — sostiene l’economista — anche se io non mi spingerei a sostenere che la macchina finanziaria della Santa Sede sia fuori controllo». «Un po’ di malcostume e di malgoverno ci saranno pure», ammette. Ma puntare il dito solo contro voci specifiche come i conti dei cardinali è un po’ fuorviante. «Gli alti prelati non dispongono di niente, sono persone che non lasciano eredità a nessuno e godono solo di potere “posizionale” come la vecchia alta burocrazia sovietica», dice Sapelli. Farne gli unici colpevoli dei guai delle finanze del Papa «è, per usare un’espressione biblica, come vedere la pagliuzza e non la trave». La trave, secondo lui, è «lo sbarco oltretevere di quella che papa Benedetto chiamava la finanza “non buona”». «Il Vaticano non è una corporation — continua — ma le sue casse sono finite in mano alla finanza speculativa che ha distrutto l’economia mondiale, un mondo da cui non ti difende nemmeno lo Spirito Santo». Le cose andavano meglio «quando a gestirle c’erano onesti ragionieri — dice l’economista — e il Santo Padre dovrebbe tornare a disporre dei beni come farebbe una banca commerciale che fa microcredito sul territorio». La finanziarizzazione — ricorda — «ha quasi ucciso anche la General Electric. E se affidi alle società di consulenza i destini della Santa sede, le finanze vaticane sono già morte».