Ezio Mauro

Dieci rintocchi, nell’aria fredda del 7 ottobre. Un lungo silenzio, con la folla che si sporge dalle transenne e il rumore del vento che sbatte sulla lunga fila ordinata di stendardi rossi. Poi il mazziere al centro della Karl-Marx-Allee fa quattro movimenti verso il cielo di Berlino est, e parte l’inno nazionale. Sul palco tutti si tolgono il cappello, meno Erich Honecker, pallido e smagrito nella sua capigliatura bianca: un vecchio uomo di ferro, che non sa di essere arrivato al fondo del suo lungo regno. Tra poco, dopo la parata aperta da dieci file di tamburi, seguiti dagli ottoni e poi dai reparti a piedi, dai carrarmati, dai missili sovietici, parlerà per celebrare i quarant’anni della Ddr, «frangiflutti del capitalismo e dell’imperialismo», in un mondo dove «il futuro appartiene solo al socialismo». Dieci anni prima su quel palco per l’anniversario c’era già lui, accanto a Leonid Breznev e al generale Giap, con tutta la nomenklatura di comando del blocco comunista infagottata e immobile, come il Muro. Adesso al fianco di Honecker c’è un nuovo segretario generale del Pcus, Gorbaciov, ci sono Jaruzelski e Arafat, i leader dei Paesi socialisti schierati. Ma tutto è cambiato. Quando passa la fiaccolata dei giovani del partito e dei veterani, il leader della Ddr alza il pugno chiuso, il Capo dell’Urss invece saluta agitando la mano: poi prende dalla tasca una piccola agenda, la apre due volte, rompendo la sacralità comunista della parata, e addirittura a un certo punto guarda l’orologio sovietico al polso, impaziente di finire. Ma c’è ancora l’ultimo atto, a sorpresa. La parata è blindata, con un pubblico filtrato dalla Stasi. Ecco però un corteo di duemila persone che si forma ad Alexanderplatz, punta su Unter den Linden, e quando la polizia carica sbanda, si disperde e si raccoglie in piccoli gruppi. Qualcuno adesso riesce a spuntare laggiù in fondo al viale imbandierato, si sentono grida («Gorby, aiutaci») che salgono oltre la musica della banda, a destra s’innalza persino uno striscione eversivo: «Gorbaciov, resta da noi anche solo per un mese». Sul palco il presidente della Polonia Jaruzelski si volta verso il leader sovietico: «Avete sentito cosa stanno dicendo quei ragazzi? Gorbaciov, salvaci, ecco cosa chiedono». Si spinge avanti anche il Segretario del Partito Operaio polacco Mieczysław Rakowski, e prende per il braccio il presidente dell’Urss: «Voi lo capite, Mikhail Sergheevic, che questa è la fine?». C’è un uomo alto, stempiato, vestito di nero e con lo sguardo fisso proprio alle spalle di Gorbaciov. È la sua guardia del corpo, Vladimir Medvedev, viaggia con lui, gli sta accanto anche al Cremlino, lo tradirà il giorno del golpe, andandosene di nascosto dalla dacia in Crimea dove il Segretario Generale è agli arresti. Oggi nemmeno lui sa che proprio in quell’ora e 53 minuti in cui l’esercito tedesco-orientale ha sfilato mostrando in strada la sua potenza, qualcuno aveva programmato di uccidere il Capo dell’Unione Sovietica, organizzando un assalto dei terroristi della Rote Armee Fraktion, che dovevano sparargli sul palco. Era il piano per un attentato clamoroso, sventato in extremis e svelato solo nove anni dopo da un agente segreto inglese, nome in codice Tom Shore. L’operazione, guidata dal Kgb e dai conservatori del Pcus (che nel ’91 organizzeranno il golpe di Crimea contro Gorbaciov) aveva due obiettivi congiunti. Abbattere l’uomo della perestrojka e della glasnost, fermando il tentativo di riformare il comunismo di Stato, e riportare con i carrarmati l’ubbidienza ortodossa nel campo dell’Est, bloccando le bestemmie polacche e ungheresi che stavano sfasciando il sistema. Proprio il giorno precedente la festa della Ddr, infatti, il concetto monolitico di Est si era platealmente spaccato in due davanti al mondo. Mentre Honecker all’aeroporto di Berlino Est baciava sulla bocca i leader dei Paesi fratelli, a Budapest il presidente del partito ungherese, Rezsö Nyers, in un discorso di 15 minuti davanti al congresso dava l’addio al comunismo: «L’era della dittatura del proletariato e del centralismo democratico va eliminata per sempre». È una valanga. «Non dimentichiamo quarant’anni di crimini e di errori», aggiungeva il leader dei riformatori Pozsgay. E infatti diciotto giorni dopo, nell’anniversario della rivolta ungherese e della repressione sovietica, mezzo milione di persone si ritrova in piazza per ricordare in sacrificio di Imre Nagy e Pál Maléter: «Qui, su queste piazze dove voi affrontaste i carrarmati di quell’esercito invincibile e versaste il vostro sangue – dice il presidente della Repubblica Mátyás Szürös – noi vi onoriamo riprendendo la vostra lotta, alzando le vostre bandiere e proclamando la nostra indipendenza. La rivoluzione risorge». Parole mai sentite in tutto il dopoguerra. I comunisti cecoslovacchi reagiscono per primi, denunciando «il colpo di Stato che vuole trasformare l’Ungheria socialista in una Repubblica democratico-borghese». Ma meno di una settimana dopo anche a Praga migliaia di persone riempiono piazza San Venceslao nella più grande manifestazione degli ultimi vent’anni, gridando «Viva la libertà, viva Dubček». Cosa sta succedendo? Proprio in quell’Ottobre in cui tutto era incominciato nel 1917, il blocco comunista orientale si sta sciogliendo, cambiando la storia e la geografia di un intero continente. Partita dal Cremlino, nel cuore dell’impero, la spinta verso le riforme per evitare il collasso del sistema ora contagia gli Stati satelliti, che vedono la possibilità di riconquistare la libertà e l’indipendenza perdute da decenni. La rinuncia di Gorbaciov alla dottrina-Breznev della sovranità limitata per i Paesi del Patto dissolve la paura di nuove invasioni e repressioni sovietiche: dopo quarant’anni di guerra fredda, si può osare l’inimmaginabile. Un buco nella cortina di ferro indica la strada per aggirare la prigione del Muro. A giugno l’Ungheria aveva tagliato i reticolati aprendo la frontiera con l’Austria. Per tutta l’estate migliaia di tedeschi dell’Est erano partiti come per una vacanza verso l’Ungheria e la Cecoslovacchia, visto che i viaggi nei Paesi comunisti erano liberi. Ma, giunti a Praga e a Budapest, si erano immediatamente rifugiati nelle ambasciate di Bonn, chiedendo asilo per poter poi attraversare l’Austria e raggiungere finalmente la Germania occidentale. La minaccia del Muro, coi suoi cani, il filo spinato, i riflettori e i fucili, improvvisamente diventava inutile. In un impazzimento dei punti cardinali, si poteva andare a Est per arrivare a Ovest. L’“Ostblock”, la sovrastruttura ideologica, militare, politica che teneva insieme i Paesi comunisti, si apriva come una promessa dopo essere stato per anni una minaccia, e diventava il lungo e paradossale corridoio che consentiva di unire Berlino Est con Berlino Ovest. Durante l’estate le fughe individuali diventano l’esodo di un popolo. Viaggiano con una sola valigia per la finta vacanza. Abbandonano l’auto con le chiavi nel cruscotto, pensano che non torneranno mai più indietro. In poche settimane al confine tra Austria e Ungheria si accumulano 800 Trabant e vecchie Wartburg, sui bordi delle strade, nei sentieri dei campi, sotto gli alberi, in un cimitero straniero spontaneo, dove giacciono insieme la tecnologia comunista della Ddr, i suoi simboli, le code di otto anni per comprare un’automobile, la speranza di una seconda vita che spinge ad abbandonare ogni cosa nella grande fuga per la libertà. Lo specchio magico che consente di attraversare quarant’anni, per entrare in Occidente, è doppio. In Ungheria, la frontiera aperta che accoglie la massa di fuggiaschi con il brindisi dei ferrovieri sui treni, con le chiese che offrono rifugio e persino coi soldati che portano i loro letti da campo. A Praga, Palazzo Lobkowicz, l’ambasciata di Bonn. Qui a fine settembre i profughi sono più di ottomila, accampati nella tende in giardino, ammucchiati nel cortile, dispersi negli uffici, con duecento persone soltanto nelle stanze dell’ufficio stampa, mentre la Stasi ha comperato un appartamento nel palazzo di fronte per fotografare e filmare quel che succede nell’ambasciata, chi va e chi viene. Dentro c’è un problema di viveri, di coperte, di igiene, si temono incidenti, rivolte, epidemie. Lo sblocco arriva da New York, in un colloquio tra i ministri degli esteri di Bonn, Genscher, e di Mosca, Shevardnadze, insieme col segretario di Stato americano Baker. Capiscono che la situazione è insostenibile. Telefonano a Honecker, l’uomo che resiste in piedi al terremoto dell’Est che sta scuotendo ogni cosa, che chiama i profughi “feccia”, che si fa intervistare dalla Pravda per dire che la Ddr non potrà mai abbandonare il marxismo-leninismo, «così come la pioggia non può cadere dal basso verso l’alto»: e quando Gorbaciov, davanti all’intero Politbjuro tedesco-orientale, gli ricorda che «se si resta indietro la vita ci punisce immediatamente», gli risponde con una domanda: «Il suo popolo ha pane e burro a sufficienza?». Prima Honecker nega addirittura le fughe: quando all’aeroporto un giornalista occidentale gli chiede cosa intende fare per il problema dei profughi si volta teatralmente verso gli uomini del Politbjuro che lo accompagnano e chiede ridendo: «Perché, vi risulta forse un problema profughi?». Poi, quando gli spiegano che con questi ritmi a fine anno si arriverà a 200 mila rifugiati, quando il governo di Praga preme perché non riesce più a reggere all’ondata, cede. I fuggiaschi potranno andare in Germania Ovest, ma la condizione è che attraversino la Ddr, tornando indietro da dov’erano scappati, perché il potere li vuole esporre alla popolazione come rinnegati e traditori, fingendo che siano espulsi. È probabilmente l’errore più grave dei 18 anni di regno di Honecker. Quei convogli con le porte sigillate che attraversano la Sassonia e la Turingia sono un anticipo della fine, e trasportano nel loro passaggio l’evidenza della svolta, l’impotenza del regime. Dunque si può uscire dal comunismo in treno: a ogni stazione la folla si raduna per salutare i profughi, che gettano dai finestrini i soldi tedesco-orientali ormai inutili, i vecchi documenti e i passaporti, persino le chiavi di casa, in una spoliazione pubblica che segna da sola la fine di un’epoca, perché svuota la Ddr di senso, come uno Stato ormai di cartapesta, un fondale abbandonato. Ciò che lasci non conta più nulla: conta solo ciò che puoi trovare, nell’altrove. Per questo a Dresda c’è l’assalto al treno, entrano in stazione in ventimila, tutti vogliono salire sul primo viaggio che simbolicamente attraversa il Muro. Quei treni che corrono verso l’impensabile bucando una corazza poliziesca e ideologica sono un segnale per tutto il Paese, giunto all’ora cruciale e deciso a non lasciarla trascorrere invano. È un risveglio intellettuale, morale, politico. Nella Ddr non c’era mai stata una vera dissidenza organizzata, ma solo testimonianze individuali, anche per il controllo soffocante della Stasi. Adesso si formano gruppi d’opposizione, movimenti per le libere elezioni, abbozzi di partito, come il “Demokratischer Aufbruch” sostenuto dal pastore Rainer Eppelmann, quell’“AD” a cui si iscriverà a metà ottobre una donna di 35 anni che comincerà così il suo cammino politico: Angela Merkel. Come sempre sono le chiese a radunare e proteggere il dissenso che sta prendendo forma, mescolando la nuova politica alle vecchie preghiere, unendo Gesù, la pace e la libertà. Nel primo lunedì di preghiera di ottobre a Lipsia si radunano diecimila persone, e nasce lo slogan che abbatterà il Muro, Wir sind das Volk, noi siamo il popolo. A Dresda la polizia attacca un corteo. A Berlino migliaia di ragazzi si incontrano nella chiesa di Getsemani, alzano fiaccole e candele verso gli agenti. Il gruppo di “Sinistra Unita” chiede un socialismo democratico, il “Neues Forum” vuole addirittura registrarsi alle elezioni. E il 9 ottobre quando i dimostranti escono dalla Nikolaikirche e si uniscono alla folla in corteo, scoprono di essere ormai in 70 mila. Sette giorni dopo saranno 120 mila: non si torna più indietro. Adesso in piazza, sui sagrati, nelle strade si urla “Freiheit”, libertà. C’è il nuovo coraggio di chi ogni giorno spinge più avanti la sfida al partito-Stato. Ma c’è anche l’angoscia del tempo, la paura di un colpo di coda del sistema, il dubbio sui piani della Stasi, l’incognita sul punto di rottura del regime: quando reagirà, e come, prima di lasciarsi deformare? In segreto, è la stessa domanda che agita i palazzi del potere. La Stasi filma le piazze, registra gli slogan, scheda gli attivisti, invia rapporti allarmati al partito, che è ipnotizzato dalla sua stessa perdita di potestà, dal trasferimento progressivo di legittimità, dal rovesciamento della forza. È a questo punto che il ministro alla Sicurezza dello Stato, Erich Mielke, mobilita le truppe antisommossa, dà ordine alla Volkspolizei di caricare, picchiare, arrestare: stroncare. Attaccano ovunque, coi cani, gli idranti, i manganelli. La Stasi ha mobilitato tutta la sua rete, vorrebbe mano libera. Molti temono una seconda Tienanmen. Il numero due del regime, Egon Krenz, è appena tornato da una visita amichevole a Pechino, Honecker ha ricevuto una rappresentanza cinese, il parlamento di Berlino Est ha denunciato «gli atti di sanguinosa violenza da parte di forze anticostituzionali» a Pechino, sostenendo che «il potere popolare si è visto costretto a ristabilire l’ordine e la sicurezza con l’impiego delle forze armate». La tentazione cinese sembra l’ultima risorsa. Ma qualcosa s’inceppa. Una cospirazione interna sta infatti allargando una crepa dentro il gruppo di comando della Sed, il partito onnipotente che ha in mano la Ddr. Honecker non si rende conto della trama che unisce nel patto segreto dirigenti riformatori come Günter Schabowski, membro del Poltbjuro, e uomini di Mosca, come lo stesso Mielke, decisi ormai a sostituirlo con Egon Krenz, 53 anni, responsabile della sicurezza nel Bjuro e delfino designato da anni. Quando Honecker dà ordine di usare la mano dura contro i dissidenti a Lipsia, Krenz blocca il partito e la polizia locali, dopo aver parlato a lungo con l’ambasciatore sovietico, Vyaceslav Kochemasov, che gli confermerà la dottrina Gorbaciov: i soldati russi non si muoveranno dalle caserme, non scenderanno in strada armati contro il popolo come nel ’53. La Ddr per la prima volta è sola. Il pugno di ferro di Honecker ricade nel vuoto, e in quel vuoto prendono corpo le ombre. Il 16 ottobre tutto il Politbjuro entra nella saletta di proiezione riservata per vedere le riprese fatte dalla Stasi dell’ultima gigantesca manifestazione di Lipsia. L’opposizione fa così il suo ingresso nel santuario del regime: uomini e donne che sfilano in 120 mila, striscioni che chiedono libere elezioni con il controllo dell’Onu per evitare altri brogli, slogan inconcepibili anche soltanto un mese prima: Die Mauer muss weg, il Muro deve crollare. Il Palazzo si sente assediato e gli uomini che vogliono sostituire Honecker si appoggiano al fastidio di Gorbaciov per la resistenza del vecchio leader a ogni cambiamento. Realpolitik, istinto di sopravvivenza, riformismo e voglia di potere formano il cocktail del golpe di partito. Durante i brindisi e i discorsi al quarantennale della Ddr i dignitari comunisti degli altri Paesi hanno avvertito il grande freddo tra Berlino Est e Mosca, hanno capito dai sussurri che qualcosa si sta preparando, qualcosa che il Cremlino copre, favorisce e incoraggia. Così si arriva al 18 ottobre, il mercoledì di un’ordinaria riunione del Politbjuro. Honecker sta leggendo l’ordine del giorno quando il presidente del Consiglio dei ministri, Willy Stoph, lo interrompe: «Chiedo una modifica ai nostri lavori. Propongo la destituzione del compagno Erich da Segretario Generale e la nomina del compagno Krenz». Due vecchi bolscevichi di 75 e 77 anni, Stoph e Honecker, si guardano attraverso il tavolo del comando comunista che li ha uniti per anni e oggi li separa. Come se non avesse capito, o potesse ignorare l’irreparabile, il Capo della Ddr fa finta di niente, guarda il foglio degli appunti che ha davanti e prova a riprendere il suo intervento. Ma Stoph scuote la testa: «No, dobbiamo discutere la tua revoca». Honecker si guarda intorno, nessuno interviene. Capisce, si appoggia alla spalliera della sedia: «Va bene. Apro la discussione». Durerà tre ore, e il leader che sta per essere deposto sente i suoi vecchi compagni pronunciare ad uno ad uno l’atto di sfiducia contro di lui: tutti, anche Erich Mielke, che Markus Wolf chiamava “il cane da guardia” del partito. Il voto contro il Segretario è unanime. Seguendo il rituale comunista che conosce più di ogni altro, anche lui giunto all’ultimo atto alzerà la mano e sceglierà di ubbidire al partito, votando contro se stesso: prima di chiamare la moglie Margot per informarla con due parole: «È accaduto». Domani il Paese scoprirà il comunicato ufficiale nel quale Honecker chiede alla Sed di lasciare le sue cariche «perché le mie condizioni di salute non mi consentono più il dispendio di forze e di energie che la storia del partito e del popolo richiedono». Quando porterà quel testo davanti allo stato maggiore del partito, l’ex leader pronuncerà le parole in modo meccanico, automatico, leggendo addirittura la sua firma, alla fine, come se fosse in trance. Da Mosca per il commiato arriverà soltanto un telegramma. Era troppo presto per lui, secondo i calcoli sbagliati dell’eternità bolscevica. Ma era troppo tardi per il partito e per la sorte della Ddr, secondo il brontolio del terremoto che scuoteva l’89, arrivando ormai nel cuore di Berlino Est. Krenz, destinato a regnare appena 46 giorni, cerca subito di accreditarsi come il Gorbaciov tedesco, va in visita di amicizia al Cremlino, parla al telefono con Kohl, promette elezioni libere, incontra i vescovi, dialoga per 45 minuti con i giornalisti: ma non è credibile come uomo della svolta e delle riforme, ha guidato per anni la “Libera gioventù tedesca”, dal Bjuro sovrintendeva alla sicurezza, cioè alla Stasi, era il collaboratore più vicino ad Honecker. La sua sembra un’operazione di maquillage più che una “Wende”, una vera svolta, in un mondo che si era capovolto in pochi anni, portando al potere (dopo un Papa polacco, cioè un suddito dell’impero sovietico che diventa sovrano della Chiesa) Gorbaciov a Mosca, Kohl a Bonn e a Washington Ronald Reagan: che il 12 giugno 1987 parlando alla Porta di Brandeburgo si era rivolto direttamente al leader del Cremlino: «Mister Gorbaciov, se lei cerca la pace e la prosperità venga a questa porta, apra questa porta e abbatta questo Muro». Senza contare i segni dei tempi, che per chi ci vuole credere aprono uno squarcio sull’incredibile: quei mille russi che si radunano in piazza davanti alla Lubjanka urlando che il Kgb «è il vero nemico del popolo», Wall Street che sceglie venerdì 13 ottobre per crollare di 200 punti, il Papa che sorvolando per la prima volta l’Urss nel suo viaggio aereo in estremo oriente benedice la perestrojka e la definisce «una consolazione», lo scienziato-imbalsamatore Serghej Debov che racconta come restaura la salma di Lenin, profanando la sacralità del mito, la Tass che annuncia ufficialmente al mondo lo sbarco dei marziani alti quattro metri nel parco pubblico di Voronezh, dove hanno parcheggiato l’astronave prima di vaporizzare un passante. In questo ottobre dove ogni cosa è straordinaria, l’ordinario Krenz viene scartato dal movimento di opposizione, che lo salta senza nemmeno cercare un dialogo e guarda ormai avanti. «Il governo deve scusarsi pubblicamente», dice il vescovo di Dresda. «Anche Krenz è stato responsabile di brogli», accusa Neues Forum. «Il ruolo guida al popolo», grida un cartello portato in corteo a Lipsia. E nel voto per nominarlo Capo dello Stato, il parlamento abituato da decenni a ubbidire a ogni comando del partito vede spuntare all’improvviso 26 voti contrari: una bestemmia politica. Bisogna leggere i verbali del Comitato Centrale della Sed per cogliere il panico che cresce nel gruppo di comando. «Non c’è più un minuto da perdere compagni, abbiamo l’acqua alla gola – urla il ministro della Cultura Hoffmann –. Il nemico organizza manifestazioni violente, adesso i comunisti devono scendere in piazza. Siamo in ritardo. Se non prendiamo la parola ora, rischiamo di non ottenerla mai più». «Sono appena tornato da Lipsia – aggiunge il ministro dell’Edilizia Junker – dove i manifestanti mi dipingono come un idiota. Che cosa significa? Se sono un idiota, può giudicarlo solo il partito». Krenz ascolta, prende appunti, interrompe: «Qui mi sembra che comunque ci muoviamo, facciamo passi falsi». La realtà è che nessuno può ormai riempire il vuoto di autorità che si è aperto nella Ddr, niente può arrestare la corsa verso la fine, ormai inseguita come la conquista di un nuovo inizio. La paura è diventata speranza, poi coraggio, quindi sfida. Adesso si allarga a Berlino, a Dresda, a Lipsia un sentimento sconosciuto di fiducia nella storia, che sta invertendo il suo corso proprio qui, dove il Muro l’aveva fermata per decenni. Sarà vero? Per cercare una risposta la folla riempie la Volksbuhne sulla Rosa-Luxemburg-Platz, dove stasera si recita il Guglielmo Tell di Schiller. Richiamati dalla calca gli uomini della Stasi non capiscono cosa stia succedendo, finché non arrivano quei versi che tutti aspettavano: «Deve andarsene, il tempo è scaduto. Chi mai vorrà vivere ancora qui, senza la libertà?». Allora parte un applauso lunghissimo, come un giuramento, una promessa, o forse soltanto la conferma della brace ardente che cova ormai dentro la notte inquieta di Berlino: dove il Muro, improvvisamente, protegge il nulla.