Fabio Tonacci

L’ha sentita morire. Ha ascoltato gli insulti rabbiosi che degli sconosciuti urlavano a sua figlia durante l’agguato sull’autostrada. Poi quella scarica di kalashnikov, anche al telefono inconfondibile e definitiva. “Hevrîna min!”, gridava Suad, mentre gliela stavano ammazzando in diretta. “Hevrîna min…”, ripete anche adesso la mamma dell’attivista curda, mentre parla attraverso whatsApp dalla sua casa di Derik, con le tapparelle abbassate e il lutto dentro. Significa “la mia Hevrîn”, in curdo. Per Suad, tutto ciò che contava. Una decina di giorni fa, all’improvviso, il mondo ha celebrato la figura di Hevrîn Xelef, la 34 enne paladina dei diritti delle donne, trucidata il 12 ottobre da miliziani che mostravano la bandiera di Ahrar al-Sharqiya. Proprio il gruppo jihadista che Repubblica aveva scoperto far parte del Syrian National Army, l’accozzaglia di ribelli addestrata dal presidente turco Erdogan per invadere il Rojava. La sua foto è apparsa ovunque, nei tg, nei giornali e sui social network. Ma cosa sapevamo veramente di Hevrîn? Niente. Allora abbiamo chiesto a Suad di raccontarcela. «Era una persona piena di talento, corretta e coraggiosa. Credeva nell’uguaglianza dei popoli, per questo motivo ha trovato subito il suo posto nel mondo. Quando era piccola e andava a scuola, le davo un po’ di soldi per comprarsi qualcosa da mangiare, e puntualmente scoprivo che li aveva divisi con le sue amiche e i suoi amici. Hevrîn per loro si toglieva il pane dalla bocca. Basta vedere le fotografie del tempo in cui frequentava l’università: non ce n’è una in cui non compaia mentre condivide con gli amici cibo e bevande». Hevrîn era un ingegnere. Di cosa si era occupata? «Si era laureata al dipartimento di ingegneria civile dell’Università di Aleppo. Dopo aver lavorato per un anno e mezzo al ministero per l’Energia elettrica, era passata al ministero delle Finanze. Quando è stato fondato il partito per il Futuro della Siria, ne divenne subito segretaria generale perché aveva già compreso quanto fosse importante per i curdi lavorare all’unità politica di tutti i popoli che abitano questa parte del mondo». Quando è sorto in lei l’impegno per i diritti delle donne? «Ha avuto questo innato istinto di protezione fin da bambina. L’impegno attivo, per affermare libertà e uguaglianza, sia all’interno della famiglia che all’interno della società, è iniziato all’università». Non aveva mai pensato di arruolarsi con le combattenti Ypj? «No perché Hevrîn era una donna pacifica. Ha sempre desiderato portare la pace e mai, in alcun modo, la guerra. Però era orgogliosa delle unità Ypj, idealmente era al loro fianco. Per lei era una grande cosa che le donne del Rojava potessero volontariamente imbracciare il fucile e difendersi. Diceva sempre: “Noi donne non siamo senza onore, noi donne proteggiamo noi stesse e il nostro onore”». Aveva famiglia? «Non era sposata e non aveva figli. La sua famiglia eravamo io e i suoi fratelli». Quali idee aveva sulla questione curda e sulla Siria democratica del Nord Est? «L’obiettivo del suo partito è portare la democrazia in Siria, trovando una soluzione pacifica per la coesistenza di tutte le religioni e per arrivare all’unità tra curdi e arabi. Purtroppo ora la Siria l’ha persa per sempre». Che cosa vi siete dette il giorno in cui è stata uccisa? «Poco prima che la mia Hevrîn uscisse di casa, ci siamo abbracciate. Mi ha detto “mamma, quanto è buono il tuo profumo!”, e io le ho risposto di non perdere tempo perché rischiava di fare tardi. Le ho detto solo “buon lavoro, e prenditi cura di te”». Dove stava andando? «Quella notte avrebbe dovuto dormire a Hasakah, poiché lì doveva parlare in un programma televisivo. L’indomani aveva un lavoro da fare a Tabqa. Purtroppo, alle 18.55 in punto, è caduta in un agguato brutale sull’autostrada M4. Il telefonino ha squillato. Ho visto che la chiamata arrivava dal suo cellulare e quindi ho risposto, ma non riuscivo a sentire la sua voce. Continuavo a dire “Pronto? Pronto?…” e a chiamare il suo nome, con la voce che mi tremava e che diventava sempre più forte. “Hevrîna min! Hevrîna min! Figlia mia, che succede?”». Hevrîn non parlava? «No, non riusciva a rispondere. Si sentivano voci di uomini che parlavano in arabo, ma non capivo bene cosa stessero dicendo. Sembravano parolacce, minacce. Poi ho sentito gli spari. E, d’un tratto, niente più». Di chi è la colpa della morte di sua figlia? «Del fascista Erdogan. E di quelli che lo hanno aiutato ad invadere la Siria: sono anche loro responsabili della morte di Hevrîn». Se incontrasse il presidente Erdogan cosa gli direbbe? «Gli direi che non ha il diritto di invadere e occupare la nostra terra. Perché ha lasciato che tutto questo accadesse? Perché ha addestrato miliziani jihadisti?». E ai governanti dell’Unione Europea? «Ripetono sempre “noi tuteliamo i diritti umani”, “noi difendiamo la giustizia”… sono parole e basta. E noi? Chi difende i nostri diritti? Non abbiamo forse anche noi il diritto di difenderci? Non vorrei che, ora, dopo la morte di mia figlia, la gente pianga commossa per qualche giorno vedendo quello che Erdogan ci sta facendo, e poi, tra due o tre giorni, si asciughi gli occhi e li rivolga di nuovo da un’altra parte». Cosa vorrebbe dire adesso a sua figlia? «Tesoro mio… prometto di seguire le tue orme lungo questa strada verso la fraternità, l’uguaglianza e l’unità tra i popoli per cui hai sacrificato la vita».