Federico Fubini
David Petraeus, 66 anni, ha comandato le truppe americane in Afghanistan e le truppe alleate in Iraq, quindi ha guidato la Cia. Dal tono pacato, dalla disanima intellettuale a ogni domanda, quest’uomo non lascia trasparire un istante che ha diretto centinaia di migliaia di soldati in due guerre. Figlio di una libraia e di marinaio olandese che navigò fino a New York quando Hitler aggredì l’Europa, Petraeus ha raggiunto un dottorato di Princeton con una borsa militare. Per anni, confessa, non ha neppure votato alle elezioni «perché è meglio se i soldati si tengono fuori dalla politica». Generale, dopo 18 anni gli Stati Uniti stanno negoziando il ritiro dall’Afghanistan. Che ne pensa? «Mi preoccupa. Nessuno vuole un accordo più di me — risponde Petraeus, in una pausa del Forum Ambrosetti a Cernobbio —. Ma siamo andati in Afghanistan per una ragione precisa: grazie ai talebani il paese era diventato il sanctuary, il rifugio dal quale Al Qaeda ha preparato l’undici settembre. E ci siamo rimasti per impedirealorooallo Stato islamico di riprodurre quel rifugio. Adesso l’ultima cosa che vorremmo è dare di nuovo a qualcuno questa possibilità». Però l’accordo con i talebani è già definito, almeno in linea di principio. Perché non dovrebbe funzionare? «Servono delle salvaguardie e un periodo per confermare che i talebani abbiano la capacità e la volontà di mantenere la parola data. Personalmente ne dubito. Un nostro ritiro parziale dovrebbe comunque mantenere una capacità militare di supporto aereo, antiterrorismo, intelligence, evacuazione per ragioni sanitarie. Poi vediamo come evolve. Ho preoccupazioni reali sulla volontà dei talebani di onorare la costituzione democratica dell’Afghanistan e di lasciare che le donne abbiano una propria vita o che le ragazze studino». Non crede che il ritiro sarebbe popolare fra gli elettori in America? «Dipende dal risultato. Vediamo se finisce come in Iraq. Lì gli islamisti hanno fatto a pezzi il tessuto della società che noi avevamo aiutato a ricostruire. Lo Stato islamico ha preso e poi consolidato il controllo in Iraq del Nord ed è riuscito a sfruttare la situazione in Siria. Eppure in Iraq, dopo il surge (l’aumento delle truppe, ndr) e prima del ritiro dell’esercito Usa, la violenza si era ridotta quasi del 90%. L’Afghanistan non si avvicina neanche a quei risultati. Anzi, negli ultimi tre anni il livello della sicurezza è peggiorato». L’energia della Casa Bianca è ormai dirottata sulla sfida con la Cina? «Un riequilibrio del focus sull’Asia era iniziato con Barack Obama, ora si è fatto più intenso. Ed è giusto: la relazione più importante al mondo è quella fra Stati Uniti e Cina. Continuiamo a dare importanza all’Europa, ma c’è uno spostamento costante dell’attenzione verso l’Asia. La crescita economicaèlì. Ciò detto, una superpotenza deve saper far girare molti piatti in aria: c’è la preoccupazione per una Russia di nuovo assertiva, l’Iran, la Corea del Nord, l’immigrazione illegale, l’esplodere di minacce digitali sempre più sofisticate, la persistenza dell’estremismo islamico». Perché gli islamisti sono così duri da sconfiggere? «È la sfida di una generazione, non di cinque o dieci anni. Ma in Siria o in Iraq abbiamo mostrato che li si può piegare in modo sostenuto e sostenibile, dando supporto alle forze locali. Senza stare in prima linea». In Libia non è andata così bene… «In Libia abbiamo sprecato un’enorme opportunità, subito dopo la caduta del regime di Gheddafi. Non abbiamo mai impegnato le risorse necessarie e il Paese si è disintegrato. Adesso è molto più difficile recuperare». Donald Trump è un falco? «Non lo è. È una colomba bellicosa. Ha letto il suo libro, The Art of Deal? Dice: spiazza sempre l’avversario, tiragli un pugno sul naso prima che si sieda al tavolo. È la sua tecnica negoziale. Poi però non ha attaccato l’Iran neanche quando ci hanno abbattuto un drone da 130 milioni di dollari. E credo che raggiungerà un accordo commerciale con la Cina: ha bisogno di entrare in campagna elettorale con un’economia e un mercato azionario solidi».