Federico Fubini
Non è non è e non sarà un giubileo. Sarà un test di lungimiranza, ancora tutto da superare. La nomina di Paolo Gentiloni come commissario Ue per l’Economia non significa che per l’Italia inizia un periodo nel quale sarà esente dalle regole. E il fatto che un ex premier italiano del Pd rappresenti la prima linea della vigilanza su un governo con un ministro dell’Economia del Pd, Roberto Gualtieri, non lascia né all’uno né all’altro le mani libere. Piuttosto, Gentiloni avrà bisogno di tutto il suo tatto e peso intellettuale per perseguire un duplice obiettivo: sospingere l’area euro verso politiche che non ripetano gli errori del passato e l’Italia — a parità di deficit — verso scelte che non puntino a fiammate di consenso ma a gettare le basi di un’economia più vitale.
Ursula von der Leyen, presidente entrante della Commissione, ha subito intravisto un rischio nella richiesta italiana di dare a Gentiloni l’incarico che oggi è di Pierre Moscovici. In molti l’avrebbero accusata di innescare un conflitto d’interessi: l’ex premier dello Stato dal deficit più alto dopo Francia e Spagna, dal debito più alto dopo la Grecia, quello che cresce meno in assoluto, a guardia di un governo che include il suo stesso partito. La tedesca ha sciolto il dilemma in stile cristiano-democratico, senza scontentare nessuno. Il commissario Gentiloni coprirà le materie che chiedeva, anche più numerose e promettenti di quelle affidate oggi a Moscovici. Ma Valdis Dombrovskis, ex premier lettone e già oggi vicepresidente a Bruxelles piuttosto propenso al rigore di bilancio, su quelle stesse materie diventa «vicepresidente esecutivo».
È una sottile differenza rispetto al passato. Anche con Juncker i vicepresidenti c’erano, ma avevano funzioni di «coordinamento». Con von der Leyen invece tre di loro diventano «esecutivi» — ha scritto la tedesca nelle lettere di missione — con potere di «gestire le aree politiche». Significa che l’ex premier di un Paese fondatore e di un’economia da 1750 miliardi di euro dovrà riportare all’ex premier di un Paese entrato nell’Unione europea 15 anni fa e di un’economia da meno di 50 miliardi di euro. Il primo avrà bisogno dell’assenso del secondo. In parte è il prezzo che Gentiloni paga per l’essere stato nominato per ultimo nel ruolo a Bruxelles, per le note vicende, da un Paese che resta oggetto di timori e diffidenza per la debolezza cronica della sua economia. Per Gentiloni e al suo Paese si aprono però due finestre preziose. Nella sua nuova posizione, l’ex premier alla prova dei fatti finirà per incidere sul sistema europeo in misura del peso specifico e della qualità politica della sua presenza. Lui stesso dev’esserne consapevole e per questo non sembra preoccupato di avere un «vicepresidente esecutivo» accanto a sé.
Quanto all’Italia, nella lettera di missione a Gentiloni von der Leyen sembra indicare una strada: con la prossima Commissione sarà probabilmente più facile accettare certi livelli di deficit fra il 2% e il 3% del Pil se le risorse vengono usate per tagliare i nodi indicati da Bruxelles, quelli che paralizzano il Paese da anni. Investire in tribunali delle imprese per una giustizia più rapida e certa non è inutile come gettare le stesse somme nel calderone della spesa corrente. Offrire sgravi per le tecnologie in azienda o l’assunzione di giovani qualificati, prima che fuggano all’estero, non è come riesumare le baby pensioni. Qui il ruolo di guida e mediazione del commissario italiano può diventare prezioso. Sempre che qualcuno a Roma trovi il tempo di dargli ascolto.