Federico Fubini
Con poco tempo e molti miliardi da trovare per far tornare i conti, Roberto Gualtieri deve aver studiato ogni riga delle previsioni e dei saldi lasciati dai governi di prima. C’è un dato di spesa pubblica che potrebbe aver fatto sobbalzare il ministro dell’Economia alla scrivania: nei tre anni fino al 2021, le uscite correnti dello Stato risultano più alte di 48,7 miliardi rispetto a quanto stimato per lo stesso periodo appena diciotto mesi fa. Naturalmente si tratta del risultato cumulato nel triennio, non di ogni singolo esercizio, ma è quanto risulta dal confronto dei Documenti di economia e finanza, o Def, pubblicati nell’aprile del 2018 (governo di Paolo Gentiloni) e in quello del 2019 (primo governo di Giuseppe Conte). In sostanza la spesa corrente quest’anno sarà più alta di una decina di miliardi rispetto a quanto sembrava possibile diciotto mesi fa; quindi in ciascuno dei prossimi due anni sarà superiore di circa venti. È il punto di partenza che rende così difficile far quadrare la Legge di bilancio delle prossime settimane. Se lasciata a se stessa, questa tendenza minaccia di consegnare nel 2021 un debito pubblico che metterebbe in dubbio la tenuta di prezzo dei titoli di Stato e il precario equilibrio dell’economia italiana. Da solo un deficit al 2% del prodotto lordo (Pil) per quest’anno — lo ha previsto ieri Antonio Misiani, viceministro all’Economia — non disinnesca la minaccia. Da dove vengano quei 48,7 miliardi di spesa corrente in più è noto: in buona parte, dalle pensioni anticipate di «quota 100» e dal reddito di cittadinanza. Ma è proprio questa realtà, che non è destinata a cambiare, a rendere più fragili le altre aree di tensione nella spesa dello Stato. Perché non ne mancano. Misiani ha riconosciuto il lavoro di chi è passato prima al ministero dell’Economia, con una «spending review» da 1,3 miliardi nel 2019. Eppure un’occhiata da vicino alle voci di uscita rivela dinamiche sorprendenti: in gioco c’è il modo in cui le amministrazioni pubbliche gestiscono gli appalti, smaltiscono i rifiuti o intrattengono rapporti con una miriade di società partecipate a livello locale. I numeri suggeriscono che non tutto è a posto, né tutto sembra sempre sottoposto uno stretto controllo di gestione. Soprattutto, un lavoro di monitoraggio e cesello sulla spesa nei prossimi anni diventa decisivo per garantire quella che serve: assistenza alle famiglie, sanità, istruzione, ricerca. Senza un impegno del governo su questo fronte, non è scontato che gli equilibri attuali possano reggere. La spesa per «consumi intermedi» dello Stato, quella per l’acquisto di beni e servizi, è salita di 7,2 miliardi di euro da fine 2016 a fine 2018: sono aumenti del 2,6% all’anno su un portafoglio che da vale circa 140 miliardi, quasi un quinto di tutte le uscite pubbliche prima di pagare gli interessi sul debito. Non tutto in queste spese è sbagliato e da eliminare, ovviamente. Negli anni scorsi c’era stata una compressione, quindi un rimbalzo era prevedibile. Soprattutto, nei «consumi intermedi» rientrano 33 miliardi della sanità per l’acquisto di costosissimi farmaci contro i tumori o l’epatite C: ma comprarli giustifica un aumento degli esborsi da mezzo miliardo, mentre la fattura degli acquisti di beni e servizi dal 2017 sale sette volte di più ogni anno. Lo Stato non pubblica una contabilità per funzioni, ma dietro l’esplodere di questi costi emergono alcuni principali sospetti: i contratti di servizio a mille, spesso inefficienti partecipate pubbliche locali; e i rifiuti urbani, a caro prezzo spediti all’estero o in altre regioni da centinaia di enti privi dei mezzi per smaltirli. Non è solo con l’inquinamento che l’assenza di inceneritori e altri impianti presenta il conto agli italiani. Ne deriva una sfida per il governo: la spesa pubblica complessiva (al netto degli interessi sul debito) sta salendo del 2% all’anno fino al 2022, secondo l’ultimo Def; ma ciò resta vero solo a patto che la dinamica degli acquisti di beni e servizi freni drasticamente rispetto agli ultimi due anni. Per garantire gli equilibri del bilancio, la fattura dei «consumi intermedi» dovrebbe più che dimezzare il proprio ritmo di crescita nominale dal 2,6% all’uno per cento annuo. In caso contrario la spesa pubblica (sempre al netto degli interessi) rischia di aumentare in proporzione all’economia italiana. Servirebbe dunque un’idea di dove mettere le mani. Servirebbe un’idea dei servizi pubblici che occorrono e di come fornirli con efficienza. È necessario un commissario alla «spending review», ma non basta: servirebbe un’idea politica di come lo Stato funziona per i cittadini, specie i più deboli, senza sprecare le proprie risorse.